Dillinger è morto (Dillinger è morto, 1969) di Marco Ferreri
Un
industriale benestante torna a casa dal lavoro ma si ritrova a girare a vuoto
tra strade anonime tutte uguali ed oggetti surreali. Nel suo appartamento trova
una pistola, avvolta in un foglio di giornale, su cui campeggia la notizia
dell’uccisione del gangster John Dillinger. Quasi rapito dalla scoperta, l’uomo
prima cerca di copulare con la domestica, poi tenta il suicidio ed infine
uccide la moglie, nel sonno, con l’arma trovata. Senza provare alcun rimorso
scappa via, imbarcandosi su un battello che fa rotta verso isole tropicali, ma che naviga verso un sole palesemente finto, come a
dire che non esiste possibilità di fuga. Marco Ferreri, genio controverso e
“scandaloso” del nostro cinema d’autore, voce perennemente dissonante ma di
straordinaria sensibilità artistica, ha raggiunto la notorietà internazionale
con questo film dissacrante e “maledetto”, di cui molti criticarono l’inaudita
violenza concettuale senza sforzarsi, però, di leggerne le ragioni. Capolavoro
grottesco di caustica ferocia ed altissimo spessore metaforico, è una delle
opere migliori dell’autore milanese ed uno dei film fondamentali nel
rinnovamento del cinema italiano che ebbe luogo, tra gli anni ’60 e ’70, grazie
ad autori come Ferreri, Pasolini, Antonioni, Bertolucci. Tra straniamenti
onirici ed ellissi paradossali, il regista disegna, con geometrica precisione
ed ineluttabile perfidia, una spietata critica alla borghesia, al consumismo,
alla società del “benessere”, alla perdita di senso, di valori e di idee
prodotte dall’annichilimento delle coscienze che inseguono una felicità
edonistica basata sui beni materiali, sul possesso e sull’apparire. Come sempre
in Ferreri tutto è dilatato, distorto sotto la lente del grottesco, che deforma
ogni cosa per restituircela come simbolo, provocazione, sensazione, che intende
stimolare la pancia più che la mente. Sebbene sia un’opera altamente
sperimentale per stile e messa in scena, garantisce una coerenza tematica ed un
rigore analitico che lasciano ammirati, pur obbedendo ad una chiara
impostazione “a tesi”. Tra surrealismo ed avanguardia, Pirandello e Flaubert, pessimismo
e disincanto, feticismo e dannazione, quest’opera di
rottura è una delle più lucide e spiazzanti apologie sull’alienazione nella
società borghese mai viste al cinema, come solo autori alla stregua di
Antonioni e Buñuel
han saputo realizzare con pari efficacia. In questa colta apocalisse
esistenziale, rassegnata e visionaria, spiccano, nel cast, i francesi Michel
Piccoli e Annie Girardot.
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