Julieta
è una donna di mezza età, insegnante di lettere classiche, in procinto di
lasciare la Spagna per il Portogallo insieme al suo compagno, Lorenzo. Ma
l’incontro casuale con una giovane ragazza riporta a galla un doloroso passato
e riapre in lei antiche ferite mai del tutto rimarginate, che la spingono a
cambiare i suoi progetti. Un lungo flashback ci racconta il passato della
donna, con una serie di drammi familiari impossibili da cancellare. L’opus numero 20 del talentuoso autore
manchego è un melodramma familiare asciutto e teso che lavora per sottrazione
emotiva, pur abbondando nella molteplicità degli eventi. Elegante e spartano
nella messa in scena, è una dolente parabola sul senso di colpa e sull’ineluttabilità
del destino, che rifiuta l’enfasi o il coup
de théâtre in favore di uno stile sommesso, incline all’amaro disincanto
che registra senza fronzoli la crudezza della vita e la difficoltà di gestire i
rapporti sentimentali. Almodóvar ritorna ad un cast tutto al femminile (in cui
spiccano Emma Suárez e Adriana Ugarte che interpretano la protagonista in due
diverse età della sua esistenza), ma rinuncia del tutto ai tocchi piccanti,
alle trasgressioni colorite, ai graffi impudenti, all’irriverenza erotica e
persino a quella toccante umanità che hanno reso grande il suo cinema. Con il
distacco di uno scienziato che enumera eventi, imperfezioni, pulsioni e danni
collaterali provocati dalle scelte di vita di Julieta, egli si affida al pilota
automatico per condurre in porto questo dramma raffreddato, concedendosi però
due lampi di genio: la scena dello shampoo (che è puro Almodóvar) e il finale
aperto, a sottolineare che la vita è un flusso casuale indeterministico in
continuo divenire e che la sola cosa che conta davvero è viverla. E
affrontarla. Nonostante tutto.
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