Il
Grande Raccordo Anulare (GRA) è un’autostrada tangenziale che circonda Roma con
un tracciato circolare a doppio senso di marcia tramite due carreggiate
separate a tre corsie. Con i suoi 68 chilometri è l’autostrada locale più lunga
d’Italia ed è anche la più trafficata con un volume di quasi 60 milioni di
veicoli all’anno. Croce e delizia degli abitanti di Roma, il raccordo è ormai
parte integrante della vita e del costume della nostra capitale, un anello d’asfalto
che, idealmente e simbolicamente, segna il confine tra la città eterna e le sue
periferie più estreme, popolate da un’umanità ai margini, antropologicamente
distante dai canoni metropolitani. Il regista Gianfranco Rosi ha attraversato
il raccordo in camper, esplorandone i luoghi limitrofi, per circa due anni,
alla ricerca di personaggi particolari e di storie degne di essere raccontate
in questo documentario anomalo che rappresenta un viaggio “on the road” in una terra di nessuno, per gettare uno sguardo in
quell’umanità “sotterranea” puntualmente ignorata dall’occhio frettoloso degli
automobilisti che sfrecciano veloci sull’asfalto del GRA. Ci vengono quindi
presentate, senza soluzione di continuità, diverse storie vere di personaggi
reali che “interpretano” loro stessi, in un colorito e paradossale collage
eterogeneo di esistenze (molte delle quali al limite), il cui involontario collante
è il raccordo anulare evocato dal geniale titolo, autentico protagonista del
film, ovvero quella sorta di eccentricità stradale che, pur non conducendo da
nessuna parte, collega ogni luogo di Roma grazie alle sue uscite. Assistiamo
quindi a numerose vicende, tra cui ricordiamo: un botanico che cerca di
salvare, con commovente meticolosità, le sue palme dal micidiale parassita
detto punteruolo rosso, un barelliere che passa le notti in ambulanza per
soccorrere le vittime di incidenti e che intrattiene un tenero rapporto con la
vecchia madre malata, uno stravagante principe che vive in un lussuoso palazzo in
zona Boccea, che spesso affitta come B&B o come set per cinema e
fotoromanzi, un vecchio nobile piemontese dall’eloquio aulico che convive con
la figlia studentessa in uno squallido monolocale di periferia, un pescatore di
anguille che abita in una baracca sul Tevere sotto un viadotto del GRA insieme
alla compagna ucraina. E ancora: un sedicente attore di fotoromanzi, ormai
sfiorito ma sempre in cerca della fama, due anziane prostitute che esercitano
il “mestiere” in uno squallido camper, un gruppo di donne fedeli che sembrano
assistere a un’apparizione mistica, due avvenenti cubiste che si esibiscono sul
bancone di un bar e la riesumazione di vecchie salme destinate ad una fossa
comune nei pressi del raccordo. Con il suo sguardo lucido, radicale, attento e
rispettoso dell’elemento umano, Rosi, secondo il suo stile tipico, parte dai
luoghi per raccontarci l’uomo, attraverso una rapsodia armonica di vicende “border line” che evocano, al tempo
stesso, decadenza sociale, vitalità esuberante, crudo realismo, densità tematica,
trasfigurazione mitologica, allegorie universali. Con il suo stile ostico e
rigoroso, ma indubbiamente unico, l’autore sposta un po’ più in alto
l’asticella qualitativa del documentario, ridefinendone i canoni con
un’estetica assai prossima al cinema, attraverso una non convenzionale linea di
confine che, proprio come il raccordo anulare, avvolge, attraversa e scavalca contraddizioni,
paradossi e dissonanze, forse evocando, senza alcun catastrofismo, la
distruzione silenziosa e imminente del nostro modello sociale. Proprio come una
pianta/anima tragicamente corrosa dall’interno da un’orda spietata di voraci parassiti.
Il film è stato premiato, non senza polemiche, con il Leone d’Oro al Festival
di Venezia dalla giuria presieduta da Bernardo Bertolucci.
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