Valentine è una giovane modella che vive a Ginevra e che, a causa di un incidente, incontra un vecchio giudice in pensione, consumato dal disincanto, che trascorre il suo tempo spiando le conversazioni private del vicinato. La giovane donna inizia uno strano rapporto con l'anziano uomo, fatto di repulsione ed attrazione al tempo stesso, ma reso sincero dall'evidente chiarezza dei ruoli: un "amore" impossibile che non potrà mai concretizzarsi se non attraverso un "miracolo" conciliatore: l'incontro con il giovane Auguste, sopravvissuto ad una sciagura e proiezione ideale del giudice. Straordinario coronamento dell'intera trilogia, in quello che è il capitolo più compiuto ed il migliore (insieme al primo), dove il tema della "Fraternitè" viene incarnato dalla solare Valentine, in antitesi con il misantropo giudice egregiamente interpretato da Jean-Louis Trintignant, in un film permeato da toni caldi e da un garbato ottimismo di fondo. Se il primo capitolo può essere letto come un dramma al contrario e il secondo come una commedia al contrario, quest'ultimo si può giustamente definire un melodramma al contrario, in accordo alla linea estetica tenuta dal regista in tutta la trilogia, fondata su una fertile ambivalenza a testimoniare l'impossibilità di un'analisi deterministica del vivere umano. Il continuo avvicendarsi tra caso e necessità, elementi portanti di tutta la trilogia, trova pieno compimento nel finale, geniale, del Film rosso con una sorta di mutua fusione, e conseguente intercambio, attraverso il fermo immagine televisivo del profilo di Valentine, colto casualmente nella stessa posizione del manifesto pubblicitario che sia il vecchio giudice sia il giovane Auguste osservano, in momenti diversi, per strada. L'opera si chiude, quindi, in un meditato positivismo, che spalanca le braccia al sentimento senza indulgere nella retorica, ma indicando un percorso di speranza che può nascere anche in situazioni tragiche (il naufragio del traghetto) a causa dell'intelligibilità del destino. Profondo e toccante, ora enigmatico ora allusivo, questo capitolo finale chiude degnamente la rigorosa riflessione di Kieslowski sui rapporti umani e i dilemmi etici della vita, mettendo il suo indiscutibile magistero tecnico al servizio di una delicata poesia che si colora, in questo caso, di rosso, simbolo dell'amore come via di fuga dall'autismo in cui il peso della vita tende a relegarci. E' la degna chiosa della brillante carriera di un regista prematuramente scomparso e inopinatamente dimenticato.
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