La giovane Justine è una matricola appena iscritta alla facoltà di veterinaria, già frequentata in passato dai suoi genitori e da sua sorella maggiore Alexia, che è una studentessa dell'ultimo anno di corso. Timida e spaesata, Justine viene sottoposta, da parte degli studenti più anziani, al lugubre rito di iniziazione previsto per i novellini dalle tradizioni dell'ateneo, che prevede un "bagno" con sangue di animale ed il consumo di carne cruda. Per lei, vegetariana come da consolidato orientamento familiare, è l'inizio di un doloroso percorso di crescita che la metterà di fronte ad una terribile realtà. La traduzione letterale del titolo ("Raw") è "crudo", l'espressione perfetta per definire il senso, il tono e la natura di questo horror feroce di matrice psicoanalitica, che può essere letto a livelli diversi: un agghiacciante racconto di formazione, una metafora ancestrale della scoperta della sessualità come inconfessabile pulsione ferina, un'epifania carnale degli istinti più selvaggi della natura umana e la relazione simbolica tra desiderio erotico e brama di possesso del corpo dell'altro. La regista parigina Julia Ducournau, qui al suo esordio, ha scritto e diretto quest'opera potente, spiazzante e a tratti disturbante, muovendosi con provocatoria audacia sulla scia della sanguinaria "New Age" dell'horror francese, inaugurata nel nuovo millennio da autori come Pascal Laugier, Alexandre Aja, Alexandre Bustillo o Julien Maury. Ma Raw si pone nettamente al di sopra di tutti gli splatter orripilanti finalizzati a turbare lo spettatore grazie al suo stile asettico, alla sua fascinazione oscura di natura psicologica, alla messa in scena straniante e ricercata ed alla sua evidente radice allegorica che coniuga al femminile i concetti espressi in precedenza e ne esplora la potenza, la doppiezza e anche la mostruosità, attraverso l'uso impressionante di elementi primigeni come la carne e il sangue, elementi vitali o mortiferi a seconda della prospettiva. Di questa crudele (anzi "cruda") parabola sul potere naturale del femminino e sulla (ri)scoperta degli istinti primordiali è bene svelare il meno possibile sui dettagli della trama, per non rovinare la visione allo spettatore, che deve però essere consapevole che trattasi di un film estremo, non per tutti, sicuramente sconsigliabile al pubblico più sensibile verso i contenuti violenti. Da menzionare almeno tre sequenze di grande impatto: il misterioso prologo cronenberghiano, l'epilogo scioccante e la scena centrale della "rivelazione" che vede coinvolte le due sorelle. Presentato in anteprima al Festival di Cannes ha suscitato reazioni contrastanti in sala, è stato ben accolto dalla critica ed è stato insignito con il premio FIPRESCI. Durante la sua successiva proiezione al Festival di Toronto si sono anche registrati lievi malori tra gli spettatori, a causa delle scene cruente, e la notizia, enfatizzata dalle riviste specializzate, ha accresciuto di molto la nomea sinistra della pellicola. Da lodare l'interpretazione delle due giovani protagoniste, Garance Marillier e Ella Rumpf, che si sono immedesimate con inquietante realismo nei rispettivi ruoli. Nella colonna sonora è stato inserito il brano "Ma che freddo fa" cantato da Nada, ma il film non è mai stato distribuito in Italia, uscendo un anno dopo direttamente in versione home video.
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