Lucas è un uomo mite e
gentile che trascorre le giornate tra il suo lavoro in un asilo, le uscite con
amici, il suo cane e le battute di caccia al cervo. Benvoluto da tutti, adorato
dai bambini con cui lavora e con un matrimonio fallito alle spalle, cerca di
trascorrere più tempo possibile con l’amato figlio adolescente, Marcus,
scontrandosi però con l’ostilità caparbia della ex moglie. Ma un giorno la sua
vita precipita improvvisamente nell’incubo quando una bimba dell’asilo in cui
lavora, affascinata da Lucas e indispettita per il suo rifiuto di un “regalino”
infantile, da lei amorevolmente preparato, inventa una terribile storia di
molestie sessuali. Messo al bando dalla piccola comunità bigotta in cui vive,
Lucas sarà costretto a lottare duramente per difendere la sua reputazione dal
sospetto di tutti, compresi gli amici di una vita e le persone a lui più care.
Dopo 15 anni e 6 film, Vinterberg ritorna ai temi portanti della sua opera più
famosa e celebrata, Festen, ovvero la
critica al perbenismo borghese attraverso una triste vicenda di abusi sessuali.
Stavolta però il microcosmo ambientale viene allargato dalla famiglia ad una
piccola cittadina danese, ma senza perdere il piglio della caustica denuncia
antropologica, ed il punto di vista è totalmente ribaltato: infatti la storia
viene raccontata dall’ottica della vittima, Lucas, innocente ingiustamente
accusato da una bambina fantasiosa e condannato a priori da una società
ipocrita e moralista, che non aspetta altro che poter puntare il dito su
qualcuno, soprattutto se integerrimo nella reputazione, per sfogare la propria
frustrazione repressa. Il tema della pedofilia, già affrontato altre volte dal
cinema d’autore, diventa qui il motore dell’azione ma non ne costituisce il
cuore principale. Vinterberg è, infatti, principalmente interessato a ritrarre
il perverso meccanismo con cui la società cinicamente e sommariamente condanna,
al verificarsi di determinati eventi, distruggendo la vita del proprio
sventurato bersaglio in nome di facili dogmi (“i bambini dicono sempre la
verità”) e di morboso cinismo, tramutando in un lampo il pettegolezzo in sicuro
verdetto di colpevolezza. Lucas diventa quindi, rapidamente, il vicino scomodo,
il nemico da abbattere, l’infame da allontanare, l’agnello sacrificale
ricettacolo dei vizi e delle ombre di un’intera comunità, solo apparentemente impeccabile.
Questo dramma teso e cupo, diretto con lucido rigore e sapientemente
“asciugato” da ogni enfasi ridondante, è interamente poggiato sulle spalle
(larghe) dell’ottimo Mads Mikkelsen, meritatamente premiato al Festival di
Cannes come miglior attore, che qui ci regala un’interpretazione intensa e
misurata di straordinario spessore. Il suo atteggiamento sempre controllato e
pietoso nei confronti della piccola accusatrice ha qualcosa a metà strada tra
l’adorabile e l’inquietante ed il finale del film, solo apparentemente
conciliatorio, pone l’accento sulla scioccante capacità dei moralisti di
passare dall’accanimento al senso di colpa, ponendo la medesima sbrigativa
veemenza sia nella postuma consolazione che nell’infausta lapidazione. E l’immagine
di chiusura sancisce inequivocabilmente come i cattivi sentimenti, quali diffidenza
e propensione al losco, siano assai duri a morire, e come la “caccia” del
titolo originale resti sempre aperta nei confronti delle vittime sacrificali.
Con tutti i canoni ed i pregi del cinema nordico, questa vibrante denuncia
sociale “a fari spenti” di Vinterberg meritava forse miglior sorte all’Oscar
per il miglior film straniero del 2014, in cui venne battuto dal nostro La
grande bellezza, sicuramente più sfarzoso dal punto di vista della
tecnica cinematografica ma, probabilmente, meno compatto ed efficace.
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