Tre
personaggi. Tre storie dolorose e tre vite estreme che s’intersecano in un
dedalo di amore, morte, vendetta e riscatto. Cristina perde il marito e le due
figlie in un tragico incidente stradale e piomba in un incubo di droga e
depressione. Jack è un pregiudicato che ha fatalmente investito e ucciso i
familiari di Cristina e, corroso dal pentimento per aver omesso il soccorso,
sconta due anni di carcere e diventa un fanatico religioso. Paul è un
professore di matematica con una grave malattia cardiaca a cui viene
trapiantato il cuore del defunto marito di Cristina ed è ossessionato dalla
ricerca della persona a cui deve la vita. Paul e Cristina s’incontrano,
s’innamorano e pianificano la morte di Jack, per punirlo della sua colpa.
Vibrante dramma antropologico costruito sull’intreccio di destini, autentica
ossessione del regista messicano, e coniugato tra presente e passato grazie ad
un montaggio frastagliato (in forte odore di autocompiacimento manieristico)
che costringe lo spettatore ad un continuo andirivieni tra i frammenti
narrativi che compongono la dolorosa vicenda (ma dopo un po’ ci si abitua ed il
“gioco” diventa anche interessante). Tanti i temi gettati nel caldorone
esistenziale di questa tortuosa apologia delle coincidenze: agonia, redenzione,
fede, destino, predestinazione, libero arbitrio, senso di colpa, ritorsione.
Alla fine non tutto quadra e si rischia più volte il cedimento narrativo o
l’enfasi concettuale, ma gli attori sono bravissimi e le loro interpretazioni
lasciano il segno e toccano ripetutamente cuore (e pancia) dello spettatore. In
ordine decrescente di bravura: Naomi Watts, Benicio del Toro, Sean Penn. I
primi due sono stati meritatamente nominati agli Oscar 2004 come miglior
attrice protagonista e miglior attore non protagonista ma sono stati battuti,
nelle rispettive categorie, da Charlize Theron e Tim Robbins. Completano il
grande cast Charlotte Gainsbourg, Eddie Marsan, Melissa Leo e Danny Huston. Iñárritu
è un regista di grande talento che a volte indulge in barocchismi ampollosi o
inutili prolissità e questo suo primo film americano, che ha fortemente diviso
la critica tra osannanti e detrattori, ricade proprio in questi casi. La
fotografia livida e la messa in scena convulsa, che assecondano quasi
naturalmente il montaggio ondivago dell’opera, causano un voluto straniamento
nel pubblico (ma questo è un punto di forza per i suoi sostenitori), ma
lasciano anche il sospetto che cotanto esercizio di stile serva a celare
qualche magagna narrativa. Il titolo allude ai presunti “21 grammi” che un corpo
umano perderebbe subito dopo aver esalato l’ultimo respiro e che
corrisponderebbero, secondo alcuni fanatici dell’esoterismo new age, al “peso dell’anima”.
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