Nell’Irlanda
degli anni ’60 tre ragazze ritenute colpevoli di atti licenziosi vengono
mandate in un convento gestito dalla Madre superiora Bridget, per poter espiare
i rispettivi peccati. Bernadette è un’orfana un po’ civettuola che attira le attenzioni
dei maschi, Rose è una ragazza madre e Margaret è stata violentata dal cugino
durante un matrimonio. Nel monastero, che ben presto si rivelerà una dura prigione,
le tre giovani donne subiscono umiliazioni, maltrattamenti, vessazioni fisiche
e psicologiche e vengono sfruttate come lavandaie non retribuite. Tenteranno
più volte la fuga, ma non tutte saranno in grado di superare la terribile
esperienza e rifarsi una vita. Cupo dramma storico, di chiara matrice dickensiana,
che intende denunciare, con aspro realismo e veemente fermezza, la vergogna
delle così dette “case Magdalene”, istituti femminili realmente esistiti in
Irlanda, quasi sempre guidati da religiose, che accoglievano donne giudicate
“immorali” dalla società perbenista del tempo. Lo scopo degli istituti (il cui
nome deriva dalla devozione a Maria Maddalena) era quello di redimere le
“peccatrici” e favorirne il reinserimento sociale, ma, in realtà, dietro questa
facciata di bigotto fanatismo si nascondevano sordide storie di soprusi, sopraffazione
e violenza a danno delle malcapitate. Il tema centrale dell’opera, sviluppato
con feroce accanimento visivo, è la descrizione di un microcosmo totalitario in
cui, favorito dalle condizioni di isolamento e dalla certezza dell’impunità, il
potere può dare libero sfogo alla propria barbarie in nome della fede. Interessante, in
tal senso, la distorsione del concetto di carità cristiana in affilato stumento
di tortura, utilizzato con lucido sadismo per annientare la dignità umana ed
affermare l’empio dominio dei forti a danno dei deboli. Ma il regista non
risparmia i suoi strali alla connivente società puritana dell’epoca, la cui
pavida ipocrisia moralistica costituiva l’humus ideale per il clima tirannico delle
“case Magdalene”. In tal senso il film,
che alla sua uscita fece infuriare non poco gli ambienti cattolici, è ben più
di un acido libello anticlericale e può essere letto come dolente atto d’accusa
verso un sistema sociale ben più ampio, che getta parecchie ombre sulla civiltà occidentale degli anni '60. L’evidente impianto a tesi dell’opera ne costituisce
anche il punto debole, specialmente quando l’autore, trasportato dal suo
intento polemico, finisce per esagerare in compiacimenti morbosi, esagerando nell’esplicitazione dei rituali violenti del convento-prigione.
Non di meno il film resta un’opera potente, scioccante e necessaria, premiata (non senza polemiche)
con il Leone d’Oro al Festival del Cinema di Venezia del 2002. Memorabile la
sequenza in cui la sofferente Margaret recita il Padre nostro inginocchiata al
cospetto della sua aguzzina.
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