sabato 17 aprile 2021

L'altra faccia del vento (The Other Side of the Wind, 2018) di Orson Welles

Jake Hannaford, un vecchio e grande regista americano da tempo decaduto, torna a Hollywood dopo un lungo esilio in giro per l'Europa, per realizzare il suo ultimo film, il suo testamento artistico, un'opera a base di violenza e sesso intitolata The Other Side of the Wind. Ma la lavorazione è complicata e procede tra mille difficoltà: mancano i fondi, le idee, tante scene sono ancora da girare e l'attore protagonista si è dileguato a sorpresa. Una storica amica del regista organizza una festa per celebrarne i 70 anni. Hannaford decide di mostrare in anteprima il suo film incompleto agli invitati (giornalisti, amici, star del cinema) e di filmare in presa diretta tutto quello che accade nel party-evento, in una lunga notte che diventa il simbolo di una vita, di una carriera e di una leggenda. Orson Welles è stato il più grande regista della storia del cinema, un genio assoluto, tormentato, megalomane e "maledetto", in eterno conflitto con i produttori (specialmente quelli americani) che hanno sempre osteggiato i suoi film per fredde logiche commerciali, non riuscendo a capire l'altezza della sua visione, effettivamente troppo avanti e troppo oltre per "quei tempi". Ma, probabilmente, per tutti i tempi. Non è difficile pensare che accadrebbe lo stesso anche oggi, perchè i geni, in quanto tali, sono gioco forza condannati a rimanere soli, ad essere odiati o amati ma giammai capiti. E questo non fa che alimentarne ulteriormente il mito, scolpendoli a fuoco nell'immaginario collettivo. The Other Side of the Wind è uno dei diversi progetti incompiuti del grande autore americano e uno degli ultimi a cui ha lavorato. Tra il 1970 e il 1976 Welles si è dedicato attivamente a questo film, tra ritardi, indecisioni, stravolgimenti e cambi di direzione, con tantissime bobine di materiale girato ed un montaggio parziale, curato da lui stesso, di circa 50 minuti. Con lui collaborarono il suo sodale Peter Bogdanovich, la sua donna Oja Kodar e attori illustri come John Huston, che è anche il protagonista del film. Poi i lavori si interruppero per il consueto problema dei finanziamenti terminati (spada di Damocle di tutta la carriera dell'autore) e il materiale rimase bloccato in Francia, tra beghe e controversie legali sui diritti d'autore. La morte del regista nel 1985 sembrò mettere la parola fine ad ogni speranza di vedere la pellicola terminata. L'uso del verbo "sembrare" è quanto mai appropriato visto che, nel 2010, il regista Peter Bogdanovich (allievo prediletto e grande amico di Orson Welles) decise di rimettere mano al girato per terminare il film, anche in memoria di una promessa fatta al suo Maestro. Tra ulteriori impedimenti e ritardi la situazione si è sbloccata definitivamente nel 2014, grazie all'intervento salvifico di Netflix, e "l'ultimo film di Orson Welles" ha visto finalmente la luce, presentato in anteprima mondiale al Festival di Venezia, il 31 agosto 2018, per essere poi distribuito worldwide  sulla famosa piattaforma di streaming. Confesso di essermi accostato a questa visione animato da forti sentimenti contrastanti: l'emozione di poter assistere ad un evento epocale, la soddisfazione per il completamento di un'opera artistica, l'ansia di una possibile delusione (vista l'inevitabile altezza delle aspettative) e, soprattutto, il timore che questo non fosse "realmente" un film di Welles (dato che 72 minuti di montaggio ed il cruciale "final cut" sono stati realizzati da Bogdanovich), ma "semplicemente" un film "alla Welles". Che, scusate se è poco, non è la stessa cosa. E per quanto il buon Bogdanovich avesse più volte dichiarato di aver seguito alla lettera le istruzioni lasciate per iscritto dal Maestro, il timore di una fredda operazione commerciale non degna del genio del suo creatore non mi abbandonava. Per questo motivo ho esitato (e atteso) a lungo prima di decidermi alla visione, perchè, come si dice: "scherza coi fanti e lascia stare i santi". Ma, per fortuna, i miei timori si sono dissipati ben presto ed un lungo applauso ideale (e anche qualche lacrima di sincera emozione) hanno accompagnato gli end credits. Un film-evento, un film-mito, un film-testamento, un capolavoro. Il lascito di una vita straordinaria e di una carriera senza precedenti, nè eguali. The Other Side of the Wind è l'immenso lascito artistico-spirituale di Orson Welles, uno stupefacente film autobiografico (il suo personale 8 ½) che tutto contiene e tutto abbraccia, tra immagini psichedeliche, estetica pop-art, invenzioni di fantasia superiore, ipnotica magia visiva, erotismo conturbante, sperimentazioni ardite, malinconiche auto-citazioni, omaggi colti, riflessioni filosofiche, metafore esistenziali, sequenze memorabili, ironia tragica. Hannaford/Huston è ovviamente Welles stesso (e nessun altro attore sarebbe stato degno di interpretarlo con codesto carisma) e la storia raccontata nel film è quella (verosimile) del film stesso, in una straniante e magnifica commistione tra arte e vita. Tutte le ossessioni del Maestro sono presenti nel film (e nel film nel film): il senso di morte, la vita trasfigurata oniricamente attraverso il filtro magico della macchina da presa, la critica al sistema hollywoodiano, la ricostruzione "a posteriori" (leggi, "indagine") della personalità di una figura "bigger than life" attraverso eventi non lineari, lo sperimentalismo d'avanguardia, la magia del cinema che tutto può e tutto soccorre (il juke-box che suona senza corrente), i rapporti umani contrastati (quello tra Hannaford e Otterlake/Bogdanovich è di beffarda potenza allegorica), il disincanto esistenziale, l'anticonformismo provocatorio (l'amore omosessuale di Hannaford per il suo attore), l'adorazione per la donna, il sesso come supremo atto rivoluzionario (la scena del rapporto sessuale in macchina, con una Oja Kodar che sprizza erotismo da ogni dove, è da antologia del cinema). Hannaford è Welles, ma è anche Welles secondo John Huston, perchè il leggendario attore ci mette indubbiamente anche un po' di sè stesso nel dar vita al titanico e ingombrante personaggio. Ma Hannaford è anche ciò che Welles avrebbe voluto essere (e che in gran parte è stato, mi sento di aggiungere) e ciò che rappresenta nell'immaginario dei cinefili: un demiurgo, un mago, un incantatore, un alchimista, un sognatore, capace di plasmare la materia e la stessa vita trasformandola in cinema, buggerando così la morte. Ed è questo il senso profondo, e fortemente simbolico, dell'ultima parte "off-the-record": Hannaford decide di filmare in presa diretta tutto ciò che avviene nella fatidica festa, per trasformare la vita in arte, per diventare lui stesso (per sempre) cinema. E ci sentiamo di affermare, senza possibilità di smentita, che Orson Welles, genio maledetto, ci è riuscito davvero.
 
Voto:
voto: 5/5

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