lunedì 8 novembre 2021

It - Capitolo due (It Chapter Two, 2019) di Andy Muschietti

Derry, 2016. Sono passati 27 anni dai tragici eventi del primo film, i perdenti sono cresciuti, hanno lasciato la città, si sono rifatti una vita altrove, hanno dimenticato ogni cosa di quella incredibile estate del 1989, ma conducono tutti un'esistenza difficile, tra scelte sbagliate, rimorsi e un intimo senso di frustrazione. Soltanto Mike Hanlon è rimasto sul posto a vigilare, come aveva promesso, e quando sente la notizia di una coppia di giovani omosessuali picchiati da una banda di bulli, con uno dei due gettato nel fiume e poi fatto a pezzi da un essere misterioso, capisce che IT è tornato e che è giunto il fatidico momento di tornare in azione. Mike richiama telefonicamente tutti i suoi vecchi compagni e gli ricorda il giuramento di sangue sottoscritto insieme tanti anni prima. Le dolorose memorie del passato riaffiorano impietosamente e tutti i perdenti, tranne il più fragile Stan che si toglie la vita, tornano a Derry per affrontare di nuovo il mostro della loro infanzia, che ancora alberga da qualche parte nella loro anima, in un'ultima decisiva sfida all'ultimo sangue. Due anni dopo il grande successo di pubblico e critica del primo capitolo, esce, attesissimo, in sala, il secondo episodio, sempre diretto dall'argentino Andy Muschietti, scritto da Gary Dauberman, con un budget produttivo molto più alto e con l'arduo compito di chiudere degnamente le fila del discorso, completando l'adattamento del romanzo omonimo di Stephen King. Ma, purtroppo, il risultato è molto deludente, quasi fallimentare, per un film ambizioso, difficile, macchinoso, lungo, a tratti anche pesante, e carico di difetti. I maggiori problemi di questa parte seconda sono essenzialmente tre. Innanzi tutto la scelta di rinnegare quanto fatto nel film precedente (interamente dedicato alla parte adolescenziale dei perdenti): stavolta non si racconta solo dei perdenti adulti e del confronto decisivo con IT ma si abbraccia lo stile del romanzo, mescolando la vicenda odierna (ambientata ai giorni nostri) con una serie continua di flashback degli anni '80, riprendendo nuovi episodi dei protagonisti adolescenti. Tutto questo spiazza lo spettatore, carica troppo il processo narrativo e finisce per mettere in ombra i protagonisti adulti, perchè tutti risultano più deboli e meno brillanti del corrispettivo giovanile. E non mi riferisco soltanto ad un discorso legato all'attore, ma anche alla scrittura del personaggio, ulteriormente esaltato dal senso di nostalgica fascinazione evocato dal potere della memoria. La scelta del regista è stata coraggiosa, forse dettata dalla convinzione che un horror ambientato oggi sia meno potente di uno ambientato nel passato, ma si è rivelata un boomerang deleterio perchè ha, di fatto, eclissato la versione adulta dei perdenti e dei rispettivi nuovi attori. Persino un'interprete magnifica come Jessica Chastain, brillante e magnetica in tutto quello che fa, appare impacciata e fuori parte, messa all'angolo dalla luminosa Sophia Lillis che interpreta la giovane Beverly Marsh. Il secondo difetto è il senso di deja-vu, prepotente e inesorabile: questo film non fa mai paura, il Pennywise di Bill Skarsgård sembra uno stanco riciclo di quello precedente e, a parte il consueto abuso di jump scares, il livello di horror risulta non pervenuto. La terza magagna, ovvero il colpo di grazia definitivo, è (manco a dirlo) il finale, ovvero il nodo cruciale (e atavico) di tutta la questione. Chi conosce il romanzo sa perfettamente quanto sia controverso, arzigogolato, per molti deludente e praticamente impossibile da filmare, l'epilogo della vicenda con le sue iperboli fantasy. Era proprio su questo punto che tutti i fans del testo letterario attendevano al varco Muschietti per capire come se la sarebbe cavata. Il regista conviene sulla infilmabilità del finale di King e infatti ha saggiamente deciso di cambiarlo, inventandone un altro e cercando di mantenersi fedele allo spirito dell'originale. Una missione quasi impossibile e puntualmente fallita, perchè la sua risoluzione finale è ugualmente debole, astrusa e forzata, e con una realizzazione visiva che oscilla tra il kitsch e il ridicolo. Ma qualcosa da "salvare" c'è: un simpatico cameo di Stephen King che prende in giro sè stesso per la sua ("leggendaria") capacità di sbagliare i finali dei suoi racconti migliori. Probabilmente anche Muschietti dovrebbe fare una auto-ironia del genere, sarebbe audacemente liberatorio e fortemente terapeutico. E anche molto di moda in quest'epoca di eccellenti coming-out.
 
Voto:
voto: 2/5

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