A Calais la famiglia Laurent appartiene all'alta borghesia francese. Il patriarca Georges è il fondatore di un'impresa edile passata nelle mani della figlia e del nipote, che devono affrontare il problema di un incidente in un cantiere in cui un operaio ha perso la vita. E mentre i Laurent si accapigliano tra insoddisfazioni, risentimenti e interessi egoistici, la società intorno a loro, popolata da immigrati e rifugiati, è alle prese con problemi di sopravvivenza quotidiana e riconoscimento della dignità civile. Il 12° lungometraggio di Michael Haneke è un cupo dramma sociale, depotenziato nello stile scarno ma crudelmente definitivo nelle sue conclusioni, all'insegna di una raggelante misantropia. L'affresco fornitoci, di una società europea vacua e decadente, è acido e inquietante: da un lato i ricchi, viziati e depressi, che vivono come alieni al di fuori della realtà e sembrano votati unicamente al trastullo o all'auto-disfacimento e, dall'altro, la disperata "giungla" periferica dei profughi senza terra che inseguono il miraggio della Gran Bretagna al di là del mare. Il tema comune è quello del fallimento, evidentemente simboleggiato dal crollo strutturale nel cantiere e già contenuto nella perfida antifrasi del titolo. E la realtà filmata attraverso un "occhio" elettronico esterno (in questo caso il cellulare della ragazzina o la telecamera di sorveglianza), tipica "ossessione" del regista austriaco, appare stavolta come mero prolungamento di una crisi sistemica. Una crisi che non riguarda solo la società e i suoi valori, ma anche il cinema stesso. Meno ispirato e meno potente del solito, è un film di riflessione e di transizione, forse verso un'altra fase della carriera di Haneke. Il ricco cast (con Isabelle Huppert, Jean-Louis Trintignant, Mathieu Kassovitz e Toby Jones) è, come al solito, impeccabile e al servizio della glaciale visione del regista. Le sequenze più alte sono quelle relative al mare, in particolare l'epilogo è una riuscita effige della poetica hanekiana.
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