Durante la Seconda guerra mondiale, una coppia ebrea affida il proprio figlio, Joska, ad un'anziana parente che vive in una remota zona rurale dell'est europeo, nel tentativo di salvarlo dai rastrellamenti nazisti. Ma quando la donna muore improvvisamente, il piccolo Joska si trova a vagare in una terra di nessuno ostile e violenta, in balia di una popolazione brutale, ignorante, superstiziosa e perversa. E a questo si aggiunge la crudeltà dei soldati (russi o tedeschi) in un mondo da cui sembra svanita ogni barlume di umanità. Terzo lungometraggio di Václav Marhoul, tratto dal racconto omonimo di Jerzy Kosinski e ispirato (come da esplicita ammissione del regista), per estetica e tematiche, a L'infanzia di Ivan di Andrej Tarkovski. Girato in un bianco e nero fortemente contrastato, è un tragico racconto di formazione nei modi di un'odissea disperata attraverso gli orrori e la follia della guerra, di cui si avverte la presenza mefitica in ogni fotogramma e della quale ci vengono mostrati gli aberranti effetti su un campionario di umanità barbara e feroce. La guerra diventa, in questo caso, la condizione ideale per liberare quel lato oscuro, quegli istinti bestiali, quella sadica perversione già presente, in fieri, in molti strati della società. Un male assoluto che cova sotto la cenere e che attende solo il contesto storico "adeguato" per poter esplodere come una tempesta. E', dunque, un film estremamente crudele e pessimista sulla natura umana, carico di momenti atroci e disturbanti (ancor più perchè l'oggetto di tale violenza è un bambino, quindi un essere innocente a prescindere), che lo rendono sicuramente non adatto agli spettatori sensibili. Ma è, anche, un'opera di grande potenza visiva, di sopraffina eleganza stilistica e di forte valenza simbolica: una via crucis dolorosa in un insensato campionario di malvagità, dove la religione non è un conforto ma un ulteriore strumento di prevaricazione dei forti sui deboli e l'ignoranza è la culla ideale in cui allevare gli aspetti più diabolici dell'animo umano. Il contrasto stridente tra la cornice (sontuosa) e il quadro (di orripilante degrado morale) produce un effetto di stordente vertigine nello spettatore, che esce duramente scosso dalla visione del film, ma con la consapevolezza di aver assistito ad un'opera di raggelante autorevolezza. L'assoluta mancanza di empatia della pellicola viene stilisticamente sostenuta anche dalla scelta di una lingua "inventata", una sorta di esperanto slavo artificialmente ricreato, per aumentare il senso di straniamento ed estremizzare la delocalizzazione del racconto. Le scene di abusi e perversioni sessuali hanno causato non poche polemiche durante l'anteprima al Festival di Venezia. Il titolo si riferisce ad una scena cruciale in cui un uccello viene dipinto di bianco e poi lasciato libero. Ma il suo vecchio stormo lo uccide perchè non lo riconosce come un proprio simile. Un'allegoria spietata di uno dei temi cardine dell'opera: l'ottusità di un mondo greve popolato da miserabili bruti, schiavi di superstizioni, tribalismo e cattiveria. Un mondo atterrito da ciò che non conosce, che vede un nemico da abbattere in ogni "diverso" ed è pronto a calpestare il più debole in nome di questo. Argomenti scottanti, importanti e quanto mai attuali ancor oggi, purtroppo. Nel film compaiono, in piccoli ruoli, anche due famose star come Harvey Keitel e Stellan Skarsgard. Gli unici due personaggi con un briciolo di compassione. E' un film difficile, inevitabilmente destinato ai cinefili "coraggiosi".
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