Quattro veterani della guerra in Vietnam decidono di ritornare, dopo oltre 40 anni, nelle foreste del sud est asiatico dove hanno combattuto, dove sono sopravvissuti e dove hanno visto morire il loro capo squadra, Norman detto "Stormin", con cui formavano il gruppo dei "Five Bloods": cinque soldati americani di colore uniti come fratelli. Lo scopo del viaggio è ritrovare un tesoro che avevano seppellito in un luogo nascosto ed i resti del loro amico. Ma, una volta nella giungla vietnamita, ritroveranno anche i fantasmi del passato. Il 23-esimo "joint" di Spike Lee è un lungo e ambizioso monologo storico, politico e sociale che affronta quei temi scottanti da sempre cari al grande regista: questione razziale, integrazione ed effettiva parità di diritti (ovvero di fatto oltre che di nome). Lee si riferisce, come sempre, agli afroamericani d'America a cui appartiene e di cui è sempre stato il più strenuo paladino, ma il discorso potrebbe essere tranquillamente esteso ad altre razze, altre discriminazioni ed altre parti del mondo. Ufficialmente Da 5 Bloods potrebbe essere catalogato come "film di guerra", per via dei flashback ambientati nel 1971 dove si combatte (e si muore) nella giungla (con i medesimi attori che interpretano i loro personaggi giovani pur essendo ultra sessantenni, come a dire che il tempo non è mai passato e che loro quella giungla non l'hanno mai davvero lasciata). E "film di guerra" anche perchè si parla del Vietnam, che fa da sfondo, teatro "vivente" e pericoloso dell'azione e dei ricordi del passato. Ma è, allo stesso modo, un film d'avventura, un dramma, un buddy movie e come dimenticare i numerosi momenti da commedia, cinici e divertenti. Stiamo parlando, quindi, di una commistione di generi, di toni e di registri narrativi, per un risultato energico, non sempre a fuoco e non sempre calibrato, ma denso di momenti degni di essere ricordati. Tra citazioni, dialoghi irresistibili, situazioni al limite e sequenze tragiche ci sono un po' tutti i marchi di fabbrica dell'autore (persino il discorso a muso duro in macchina da presa, rivolgendosi al pubblico), in un film in cui c'è davvero tanto, e forse troppo. D'altra parte con il cinema di Spike Lee è praticamente impossibile annoiarsi, semmai il problema è quello contrario, ovvero un lavoro di cesello per tenere a freno gli eccessi senza finire in overflow. Ma il vero cuore dell'opera, che risulterà comunque per tutti gradevole, appassionante e piacevole, è sempre quello della questione razziale, che l'autore ci getta addosso a modo suo attraverso raffiche di domande (troppo grandi per avere una risposta), battute al fulmicotone, filmati d'epoca, brani di discorsi storici, slogan stampati su berretti, su t-shirts o su elmetti militari. Tante domande per cui ne potremo scegliere solo una, in rappresentanza: quale futuro per i neri d'America (e quindi, per l'America)? Ascoltando le cronache quotidiane che arrivano da oltre oceano siamo ancora molto lontani (purtroppo) da una reale speranza di distensione. Nel cast c'è anche il compianto Chadwick Boseman, insieme a Jonathan Majors, Clarke Peters, Mélanie Thierry, Norm Lewis e Jean Reno. Ma il più bravo di tutti è lo scatenato Delroy Lindo, praticamente irresistibile.
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