Vita pubblica e privata di Silvio Berlusconi nel periodo compreso tra il 2005 e il 2009, ovvero il tramonto del suo lungo impero politico e di quel "movimento" ideologico, mediatico, sociale e di costume che viene solitamente definito "berlusconismo". Quando il regista Paolo Sorrentino ha annunciato di voler realizzare un film su Berlusconi, figura emblematica e catalizzante della storia recente italiana, in molti sono rimasti perplessi e si sono posti la naturale domanda: è davvero necessario? Che altro si potrà mai dire di nuovo, di interessante, di originale su un personaggio così famoso, discusso, controverso, amato e odiato, adulato e criticato, scimmiottato e vilipeso, specchio scintillante e opaco (a seconda dei punti di vista) di vizi e virtù della nostra "italietta" carica di contraddizioni? Affidandosi alle spalle larghe del suo attore feticcio, Toni Servillo, ancora una volta abilissimo nell'indossare una "maschera" nazional-popolare rimanendo sempre in bilico sull'orlo tra la macchietta e la credibilità, il regista napoletano si è avventurato in questo ginepraio biografico, probabilmente fuori tempo massimo, avvalendosi di un cast di prim'ordine in cui, bisogna riconoscerlo, tutti sono bravi: dal mattatore Servillo all'intensa Elena Sofia Ricci, da Fabrizio Bentivoglio ad Anna Bonaiuto, senza dimenticare quel grande professionista di Ugo Pagliai e persino Kasia Smutniak, che dimostra di avere il physique du rôle per interpretare "l'ape regina". L'unica nota stonata appare invece il solito inespressivo ed onnipresente Riccardo Scamarcio, nei panni di Sergio Morra. Come suona evidente già dal titolo quest'ottavo lungometraggio di Sorrentino, più che un film su Berlusconi, è un film sul "berlusconismo", e sui berlusconiani (i "loro" del titolo). E qui si gioca, con graffiante ironia, sulla dicotomia loro-noi e, quindi, su quell'ipocrisia tutta italiana secondo la quale tantissimi, in quegli anni, si chiedevano chi mai potesse votare per Berlusconi, quasi "vergognandosi" di averlo fatto loro stessi, abbagliati dalle promesse affabulatrici di un uomo di successo, abilissimo nell'alimentare il suo stesso mito, fino a diventare il modello del desiderio dell'italiano medio. Un uomo capace come nessun altro di "vendere" sè stesso a tutti noi, come in una televendita delle sue reti commerciali. Il film ci mostra dunque tutto quello che ci aspettiamo e che già sappiamo, mettendo in risalto, per tutta la sua prima metà, quel triste e scellerato "circo" di nani, ballerine, adulatori, faccendieri, parassiti, ruffiani e lacchè che vivevano all'ombra del cavaliere, per accaparrarsi avidamente fugaci lampi di luce riflessa o le briciole dell'opulento baccanale. L'idea di far entrare in scena Berlusconi/Servillo dopo quasi un'ora (tra l'altro in una sequenza di indubbio effetto comico farsesco), dopo che questi era stato costantemente nominato ed evocato tramite l'appellativo "LUI", è stata sicuramente vincente. Tutta la parte iniziale del film ne ha giovato, assumendo una prospettiva sarcasticamente originale. Peccato che poi tutto diventi più canonico e prevedibile, con troppe scene cabaret e troppa sarabanda di "veline" nude, scadendo spesso nel kitsch e nell'eccesso clownesco. Si salvano però gli scarti surreali, impreziositi dallo stile del regista che è sempre visivamente insigne, e il dialogo-confessione con la Lario che costituisce il cuore politico del film. Il finale "cristologico" sullo sfondo delle macerie del terremoto dell'Aquila appare invece di un effettismo esasperato. In sala è stato inizialmente distribuito diviso in due parti, poi successivamente riunite in un unico film. E la domanda iniziale ritorna, più che mai pertinente dopo la visione: era davvero necessario?
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