Emmi, anziana donna delle pulizie, vedova
e sessantenne, sposa Alì, immigrato marocchino più giovane di vent’anni. La
relazione suscita lo scandalo generale e tutti si rivoltano contro la donna,
figli, amici e colleghi. Questo intenso melodramma di Fassbinder, da alcuni
considerato una sorta di “remake” di Secondo
amore (1955) di Douglas Sirk (il suo regista preferito), è una riuscita
commistione di critica sociale e romanzo sentimentale, sospeso tra masochismo,
tenerezza e crudeltà. I temi affrontati sono molteplici: l’amore nella terza
età, il razzismo, il pregiudizio, il relativo concetto di normalità, i rapporti
di classe e il diritto alla felicità che ogni essere umano dovrebbe avere
garantito. Tuttavia, come spesso accade in Fassbinder, le tematiche non vengono
sviscerate in modo paradigmatico o dimostrativo, ma sono incastonate nelle immagini,
ne sono parte integrante, in una stretta connessione tra concetto e visione. Il
feticismo visivo dell’autore si esplicita attraverso il simbolismo pregnante
degli oggetti (stipiti, porte, finestre) che incorniciano l’azione e rimarcano il
dualismo spettatore/personaggio attraverso l’antitesi voyeurismo/vittimismo.
Senza mai essere conciliante il regista utilizza l’artificio delle strutture
scenografiche per porre in risalto le emotività narrative, quasi sempre giocate
sul filo dell’implosione, salvo poi venire puntualmente ribaltate nello
spiazzante epilogo, attraverso la perfida legge del contrappasso. La scena
madre del film è quella in cui Emmi, temporaneamente abbandonata da Alì, si abbandona
a un’accorata dichiarazione d’amore per il giovane marocchino nella sudicia autorimessa,
in presenza dei suoi colleghi tedeschi. In questa sequenza, apparentemente
melodrammatica, Fassbinder sottolinea la duplice emarginazione di entrambi i
personaggi utilizzando come elemento di contrasto uno sfondo lercio che vieta
ogni possibile pensiero di intimità. Il contesto diventa quindi il contrappunto
schematico di uno stato interiore, la negazione del comodo approccio
didascalico in favore di un più fertile sfalsamento simbolico che nega la
possibilità di una conclusione certa. La critica ufficiale è solita considerare
La paura mangia l'anima uno dei film
più semplici del regista, un’opera minore non all’altezza dei suoi capolavori.
Invece contiene tutti gli elementi tipici del suo cinema, è forte di
un’intensità spiazzante, di una sincerità disarmante e di una tensione empatica
finemente depurata e mai ricattatoria. E’ un’opera potente che sancisce il
totale abbandono dell’autore al culto dell’immagine, alla sua forma sfuggente e
al suo potere allegorico. Il film fu premiato al Festival di Cannes con il
Premio Speciale della Giuria.
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