Max Cady è un sadico stupratore che si è
fatto 14 anni di carcere per aver violentato una giovane donna. Alla sua uscita
di prigione va a cercare il suo avvocato, Sam Bowden, che durante il processo,
a causa di antipatie personali, ha omesso delle prove documentali che avrebbero
portato a una pena più mite nei suoi confronti. Cady ha giurato di fargliela
pagare e inizia a perseguitare Bowden e la sua famiglia, composta dalla bella moglie
Leigh e dalla figlia adolescente Danielle. Inizialmente le azioni di disturbo
operate da Cady restano nei limiti della legalità ma, ben presto, l’uomo rivela
la sua natura di violento psicopatico e darà il via ad un aberrante gioco di
morte, con un duello all’ultimo sangue tra lui e la famiglia Bowden. Tratto dal
romanzo “The Executioners” di John D.
MacDonald, questo cupo thriller agghiacciante è la prima vera incursione di Scorsese
nel cinema “di genere”. E’ anche il remake di Il promontorio della paura (1962) di J. Lee Thompson, di cui Scorsese
decide di riportare sullo schermo i protagonisti, Martin Balsam, Gregory Peck e
Robert Mitchum, affidandogli un piccolo ruolo che, nel caso di Peck e Mitchum,
ribalta quello precedente. E’ un film su commissione, spettacolare,
angosciante, a volte plateale e con tutti i limiti derivativi di un genere
fortemente stereotipato ed abusato. Eppure la mano del grande regista si vede e
lo eleva ben al di sopra dei suoi consimili grazie alla sapiente costruzione
drammatica, alla fervida ambiguità tematica ed alla torbida carica erotica che
gli conferisce un fascino oscuro solitamente inusuale in prodotti di questo
tipo. In tutta la prima parte (la migliore) l’autore gioca abilmente con lo
spettatore nel presentarci due personaggi ugualmente spregevoli, Cady e Bowden,
al punto che, spesso, si è portati a parteggiare per il primo. Questo processo
di inconscia “simpatia” per il cattivo rimanda direttamente a grandi maestri,
come Kubrick o Peckinpah, che hanno fatto scuola nella cinematografia della
violenza, donandole uno spessore autorevole e delle implicazioni
psicoanalitiche di grande valenza simbolica. La memorabile scena, che ammicca
alla favola di “Cappuccetto rosso”, in cui il diabolico Cady “seduce”
psicologicamente la giovane Danielle, acerba e maliziosa, è il climax emotivo del film e gli conferisce
una malia sinistra e disturbante che suscita non poche vertigini morali nello
spettatore. Peccato che la seconda parte scivoli nell’esasperazione dei toni e
negli eccessi violenti, con le tipiche esagerazioni hollywoodiane di un cattivo
indistruttibile che non muore mai, proprio come il rimorso che egli
rappresenta. Dunque abbiamo luci e ombre in un film disomogeneo, ma, quando si
vede la mano del regista, ci troviamo di fronte a puro godimento cinefilo. Nel
grande cast, tra Robert De Niro all’apice del suo istrionismo fisico, Nick
Nolte in sordina e Jessica Lange costantemente spaurita, spicca la conturbante
Juliette Lewis, candidata all’Oscar come non protagonista. Le musiche del film sono
le stesse (rielaborate) dell’originale, composte dal leggendario Bernard
Herrmann, storico collaboratore di Hitchcock. E come omaggio al grande maestro
del brivido, Scorsese ci regala dei “colti” titoli di testa identici a Psycho.
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