Peppino è un nano dalle tendenze
omosessuali, che fa il tassidermista sul litorale casertano ed ha loschi
rapporti con la camorra. Un giorno incontra il giovane Valerio e lo prende a
lavorare con sé, dando inizio ad un’ambigua amicizia. Valerio sembra
affascinato dalla personalità dell’uomo e dalla sua sicurezza economica, grazie
alla quale i due si concedono notti brave con donne disponibili. Ma tra i due
ben presto s’inserisce Debora, conosciuta durante una trasferta a Cremona, per
la quale Valerio perde la testa, provocando la gelosia di Peppino. Questo cupo
noir di provincia, ammirevole per la capacità di coniugare l’azione con le
atmosfere e la critica sociale con il disegno dei personaggi, rappresenta il
punto di svolta nella carriera di Garrone, il film che lo ha imposto alla
critica e al pubblico collocandolo tra le eccellenze autoriali italiane. Girato
quasi interamente nel famigerato Villaggio Coppola sulla Domiziana, all’ombra
della camorra campana, è una storia maledetta dal potente fascino oscuro che ci
parla di desiderio, di venerazione, di sesso e di violenza, sullo sfondo di una
periferia abusiva posta ai margini della civiltà. Lo sguardo del regista è
lucido e tagliente, la messa in scena è asciutta, l’estetica è ammaliante e la
fotografia ricca di contrasti incornicia perfettamente questo film nero,
rendendo tetre anche le sequenze diurne girate in esterni. Le atmosfere malate,
i personaggi ruvidi, le musiche stranianti, le scene surreali, tutto
contribuisce alla creazione di un mondo sordido che ci affascina, ci inquieta e
ci respinge nello stesso tempo. Straordinaria la caratterizzazione data da Ernesto
Mahieux al diabolico Peppino, un folletto di viscida cattiveria ed un villain di alto spessore, mentre Valerio
Foglia Manzillo ed Elisabetta Rocchetti completano il cast principale. E’
notevole la capacità del regista di dirigere gli attori, di saper giocare sui
sottintesi, sul sordido e sull’implicito, per costruire personaggi notevoli,
come quello di Peppino, la cui arte manipolatoria e la cui rabbia repressa gli
conferiscono un’aura indimenticabile. Ispirato a un reale fatto della cronaca
romana (la vicenda del “nano di Termini”), il film supera gli argini della
pellicola di denuncia per addentrarsi nei territori delle grandi tragedie
d’autore a sfondo sociale, in quel cinema tenero e crudele che fu di Pasolini,
tanto per fare un nome altisonante. Tra noir
e melodramma, Garrone mette in scena, con sorprendente abilità, l’impasse esistenziale di un’umanità ai
margini, in cui le ambientazioni spettrali da incubo urbanistico confinano con
gli abissi tortuosi della psiche ed i sentimenti hanno il gusto acre delle
contaminazioni chimiche, quelle dei prodotti usati da Peppino per impagliare i
suoi animali, come suprema illusione di poter fermare l’attimo e di sfuggire
alla morte.
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