Frammenti sparsi della biografia del
leggendario magnate Howard Hughes, figura emblematica del Sogno americano.
Erede di una ricca famiglia di petrolieri, produttore cinematografico,
imprenditore, regista, aviatore, inventore di avveniristici modelli di
aeroplano e proprietario della compagnia aerea TWA. La sua personalità
complessa e tormentata, tra genio e dannazione, fobie e lati oscuri, ci viene
raccontata attraverso le vicende essenziali di un ventennio della sua intensa
vita. Dai tumultuosi amori con le grandi dive di Hollywood alle tormentate
lavorazioni cinematografiche per film ambiziosi come Gli angeli dell’inferno o scandalosi come Il mio corpo ti scalderà. Dai rocamboleschi incidenti aerei (a cui
è sempre miracolosamente scampato) alle inchieste parlamentari per
finanziamenti illeciti, con accuse di corruzione, fino alla trionfale
autodifesa vincente davanti alla commissione giudiziaria presieduta dal
ringhioso senatore Brewster (a sua volta manipolato dai rivali in affari di Hughes).
Il primo biopic di Martin Scorsese,
su un personaggio simbolo del capitalismo americano e perfettamente affine alla
sua sensibilità artistica, è un film imponente, colossale nella ricostruzione
d’epoca e tecnicamente sopraffino, ma con poco cuore e poca anima. Un gigante
dai piedi d’argilla, un grande circo delle meraviglie a cui manca la fiamma, il
ruggito, il genio del grande Maestro newyorkese. Le scene memorabili non
mancano ma la grandiosità dell’opera aumenta il senso di delusione e la
percezione di un’occasione mancata. C’è tanto ma non abbastanza, c’è troppo ma
non nelle giuste direzioni e l’autore appare a tratti pavido nella
demistificazione del sogno americano, mentre invece eccede in sequenze truci, e
di dubbio gusto, per evidenziare i lati oscuri, le paranoie e le spigolosità
del personaggio. Sia chiaro che non si può affatto parlare di agiografia, ma
numerosi aspetti negativi di Hughes sono omessi o banalizzati, le connessioni
drammatiche tra il suo aspetto pubblico e quello privato si limitano
all’analisi superficiale e le dive d’epoca vengono ritratte come flebili figure
ornamentali (tranne la
Katharine Hepburn di Cate Blanchett). Forse anche per colpa
di una sceneggiatura a tratti lacunosa emerge più volte la sensazione di
un’opera innocua, con poco mordente e scarsa personalità, uno spettacolo
opulento costruito appositamente per incontrare il gusto dell’Academy. E, non a
caso, la pellicola ebbe undici nomination agli Oscar 2005 vincendo cinque
premi: attrice non protagonista a una Cate Blanchett tutta moine e gridolini
(in un’interpretazione assai manierata e sopravvalutata), fotografia, costumi,
montaggio e le splendide scenografie dei nostri Dante Ferretti e Francesca Lo
Schiavo. Leonardo DiCaprio, in una performance memorabile, forse la migliore
della sua carriera, avrebbe senz’altro meritato il premio, ma dovette
arrendersi al mimetico Jamie Foxx di Ray.
Completano il cast stellare Alec Baldwin, Gwen Stefani, Kate Beckinsale, John
C. Reilly, Jude Law, Alan Alda, Ian Holm e Danny Huston. Questo film inamidato
e pachidermico non va oltre lo spettacolare intrattenimento. Francamente troppo
poco per un Maestro come Scorsese.
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