Nel 1864 il giovane Ludwig Wittelsbach sale sul trono di Baviera con
il nome di Ludwig II. Animato da uno spirito romantico, idealista e
appassionato dell’arte e del bello, Ludwig s’ispira ai sovrani rinascimentali e
dona risalto e considerazione al compositore Richard Wagner, facendogli
assumere un ruolo di spicco presso la sua corte. Osteggiato dai suoi
consiglieri ed emarginato dal governo dopo la sconfitta nella guerra
franco-prussiana, il nostro si abbandona ad una vita da esteta utopista, deluso
dai tradimenti e amareggiato per l’amore non corrisposto per la cugina
Elisabetta, moglie dell’imperatore d’Austria. Perso tra comportamenti
stravaganti e amori omosessuali, Ludwig finirà esautorato per infermità mentale
e morirà in circostanze misteriose, annegato in un lago insieme al suo medico
di fiducia. Ultimo capitolo della “trilogia tedesca” di Visconti, è un maestoso
dramma introspettivo sull’identità sfuggente di un visionario anacronistico
tormentato dal suo stesso estetismo, un cigno impazzito innamorato di splendide
utopie, un Amleto in guerra contro il conformismo di corte, schiacciato dal
peso della Storia e dalla sua innata inclinazione all’austera decadenza. Molti
hanno voluto vedere nel dolente personaggio di Ludwig una proiezione ideale del
regista stesso, una sorta di autobiografia inconfessata e ciò potrebbe spiegare
l’evidente “rapporto” conflittuale e problematico che il Maestro milanese
dimostra nei confronti del protagonista nel corso del film. Il percorso di Ludwig
appare come un mistico calvario onirico, le cui stazioni sono i fallimenti di
un sognatore forsennato, sospeso tra ambizione smodata, impeto passionale e
sofisma formale. La vita infausta e bizzarra dell’ultimo re di Baviera diventa
l’emblema della decadenza europea, raffigurata da Visconti con stile
operistico, alto senso tragico ed un sontuoso formalismo decorativo. Tuttavia
il trionfalismo scenografico, il monumentale estetismo e l’opulenza ornamentale
non risultano mai artificiosi e autoreferenziali, perché l’opera possiede una
veemente anima tragica, una dolente teatralità che mette in scena
l’esaltazione, la follia e la disperazione attraverso il paradosso di una vita
dedita all’arte che finisce per smarrire le sue coordinate, al punto che non è
più possibile distinguerle tra loro. Vita e arte si sovrappongono e si
confondono in un delirio di struggente malinconia, in cui l’irrequietezza
sessuale rappresenta la trasgressione disperata. Quello che però rende il film
più debole rispetto ai precedenti della “trilogia tedesca” è il senso di
stanchezza che traspare, a tratti, dalla sua narrazione rapsodica, dalla
prolissità di certe sequenze didattiche e dalla piattezza dei personaggi
secondari. Probabilmente troppo lungo (quattro ore nella versione originale,
poi ridotte a tre in quella distribuita nelle sale) e troppo aulico nella sua
ridondanza, viene considerato il testamento storico dell’autore e si avvale di
interpretazioni eccellenti, specialmente da parte del protagonista Helmut
Berger e di un’elegante Romy Schneider nei panni (a lei congeniali)
dell’imperatrice d’Austria. Bravi anche Silvana Mangano e Umberto Orsini,
mentre Trevor Howard, nel ruolo di Wagner, appare un po’ spaesato. Viscontiano
fino al midollo, può essere usato come manifesto di pregi e difetti del suo
autore.
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