Le strade di una grande città (Milano)
sono piene di cadaveri. Sono i corpi di giovani ribelli caduti durante gli
scontri con il braccio armato del vigente regime totalitario, che ne impedisce
persino il seppellimento affinché fungano da macabro monito per eventuali
dissidenti. La gente cammina indifferente attraverso le salme riverse
sull’asfalto in uno scenario da incubo urbano. L’unica che si oppone è la
giovane borghese Antigone, che intende concedere una giusta sepoltura al
fratello, contro il parere dei familiari. Le darà aiuto Tiresia, uno straniero
che parla una lingua ignota e che disegna sui muri della città. La loro
ribellione sarà duramente punita ma farà da esempio per gli altri. Cruda
distopia onirica della Cavani, che trae ispirazione dall’Antigone di Sofocle trasponendolo
idealmente (pur nella sua evidente mitizzazione astorica) nel clima politico
del suo tempo, la Milano
del così detto “autunno caldo”, scossa dagli scontri di piazza, dalle contestazioni
sociali, dalle rivolte giovanili, dagli estremismi politici, dalla lotta
eversiva e da quel clima da guerra civile che poi porterà ai sanguinosi “anni
di piombo”. La matrice colta conferisce all’opera un affascinante alone mitico,
denso di simboli archetipi che assumono un significato universale: la
ribellione contro ogni forma di dittatura in nome della libertà individuale. La
messa in scena è agghiacciante nella sua visionaria brutalità: sarà difficile
dimenticare la panoramica delle strade deserte di Milano cosparse di cadaveri. Immagini
forti per suscitare emozioni forti, in un clima sociale esagitato in cui molti
auspicavano un ritorno alla destra estrema per fronteggiare la minaccia
terroristica. Più che un film politico è un film passionale, anarchico, indignato,
qua e là ridondante nel suo manicheismo “a tesi”, ma anche ricolmo di pietosa
umanità nei confronti delle vittime. Questa allegoria della contestazione
estremizza, brechtianamente, il contrasto tra l’individuo e lo Stato, tra la
morale e la legge, tra pubblico e privato, sottolineando l’impossibile
comunicazione tra i due emisferi divergenti. Per quanto la distorsione onirica
attuata dall’autrice collochi la vicenda in una dimensione priva di precisi
riferimenti storici e temporali, le analogie con la situazione italiana di
quegli anni sono evidenti, al punto che molti hanno parlato di “mitologia
realistica”, di un paradigma sociopolitico che, pur svolgendosi fuori dalla
storia, la compenetra attraverso i suoi emblemi pregnanti. I cannibali a cui
allude il titolo sono i giovani che si ribellano ai dogmi precostituiti e che
ambiscono a riconquistare la vera natura dell’uomo, quella purezza primitiva e
sentimentalmente istintiva che è stata cancellata da anni di norme repressive.
Questo spirito fortemente utopistico, figlio degli ideali sessantottini,
contrasta fortemente con la tragica crudezza delle immagini e con il finale
amaro. Ed è grazie a questo stridente dissidio che la regista intende scuotere
le coscienze degli spettatori per abbattere il muro dell’indifferenza
collettiva, alimentando il disgusto verso gli atteggiamenti dispotici. Nel cast
segnaliamo Tomas Milian, Pierre Clémenti, Britt Ekland, Francesco Leonetti e
molti hanno spesso parlato di una comparsata, mai accreditata, dell’anarchico
Pietro Valpreda, che sarà poi coinvolto nelle indagini per la strage di piazza
Fontana. Suggestive e stranianti le musiche di Ennio Morricone.
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