Agli inizi del ‘900 un remoto angolo
della provincia americana è sconvolto da un misterioso omicida seriale che
uccide giovani donne. Tutte le vittime hanno in comune un handicap fisico o
psichico. In una grande villa isolata vive la signora Warren, l’anziana padrona
di casa, insieme ai suoi due figli maschi ed al personale di servizio, tra cui
la giovanissima Helen, divenuta muta in seguito ad un trauma. La sventurata
Helen non immagina che il killer è sulle sue tracce. In un ideale viaggio nella
storia del cinema thriller questo film di Robert Siodmak rappresenta una tappa
obbligata, nonché uno dei precursori e dei maggiori innovatori per atmosfere,
situazioni e trovate visive divenute poi, negli anni a venire, autentici
stereotipi di questo tipo di cinematografia. Diciamo subito che questa
pellicola non ha “inventato” il serial killer cinematografico, che si era già
visto nel capolavoro M
il Mostro di Dusseldorf di Fritz Lang. Tuttavia è indubbio il suo ruolo
di archetipo nella codifica di numerosi stilemi che oggi inconsciamente
accettiamo e ricerchiamo in un’opera ascrivibile al genere psico-thriller. Tratto
dal romanzo “Some must watch” di
Ethel Lina White, il film paga un indubbio dazio agli occhi dello spettatore
moderno, specie se poco affine ai vecchi classici in bianco e nero o abituato a
ben altri shock visivi. Infatti i momenti di tensione, che all’epoca divennero
celeberrimi e ne decretarono il grande successo, appariranno sicuramente
attenuati, prevedibili o addirittura ingenui ad una visione odierna. Va anche
detto che il film indulge spesso nel melodrammatico o nell’eccessiva verbosità,
e vi sono delle situazioni al limite del camp,
che sicuramente potranno far sorridere. Anche l’identità dell’assassino è
tutt’altro che imprevedibile e, infatti, non è su questo che si fonda la
suspense della vicenda. Tuttavia l’opera ha tantissimi meriti “storici” a
cominciare da ambientazioni e situazioni che hanno fatto scuola: la grande
casa, le enormi stanze vuote, i silenzi, la notte di tempesta, la cantina
oscura, la candela che si spegne nel buio, il senso di disagio accresciuto dal
mutismo della protagonista, la vittima braccata dall’assassino in uno scontro chiaramente
impari. E poi vanno citate le tecniche di ripresa dell’assassino attraverso i
particolari: i guanti neri o l’occhio in primo piano che spia. Trovate che hanno
fatto epoca, elementi fondanti che hanno contribuito a decretare il successo
del genere thriller. Ma il massimo tocco di genio è nella scelta di mostrarci
la soggettiva dell’assassino, facendoci vedere le cose secondo la sua
percezione distorta. Memorabile la sequenza (che ha reso celebre il film) del
killer nascosto nel buio che spia la ragazza muta mentre si guarda allo
specchio. La giovane Helen ci appare senza bocca, sottolineando il suo handicap
per come viene percepito dagli occhi del maniaco. In tanti hanno poi utilizzato
questo tecnica con risultati straordinari, da Mario Bava a Brian De Palma, da
Dario Argento a Michael Powell, solo per citarne alcuni. Il direttore della
fotografia, Nicholas Musuraca, è lo stesso del fenomenale Il
bacio della pantera (e si vede!). Le atmosfere gotiche e l’estrema cura
della confezione tecnica, in accordo all’abilità “germanica” del regista, sono
gli ulteriori pregi di questo grande classico del genere, una pietra miliare in
cui l’estetica padroneggia e supera il contenuto effettivo.
La frase: “Adoro
le donne quando piangono. È una cosa che piace sempre agli uomini: li fa
sentire superiori.”
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