Vittorio, orafo vicentino, persegue un
ideale di donna con morboso integralismo, ossessionato dall'estrema magrezza. La giovane commessa Sonia, conosciuta tramite un annuncio su una
rivista per cuori solitari, rimane irretita dal lato oscuro dell’uomo e accetta
di compiacerlo in un “gioco” dapprima eccitante ma poi sempre più estremo, con
evidenti implicazioni psicopatologiche. La donna si sottopone a una dieta
ferrea e, per amore di Vittorio, inizia a perdere peso in modo vertiginoso,
fino ad arrivare a pesare solo 40 chilogrammi. Sarà l’inizio di un’ossessione che
travolgerà entrambi. Ispirandosi al romanzo “Il cacciatore di anoressiche” di Marco Mariolini, Garrone porta
sullo schermo un cupo dramma antropologico di matrice psicoanalitica sul tema
dei rapporti “malati” e delle incomprensibili simbiosi che scattano tra due
psicologie in determinate condizioni, portandole su un terreno di incontro/scontro
sessuale ai margini, dove convergono molteplici aspetti dell’io erotico:
feticismo, sadismo, masochismo, trasgressione, dominazione. Il morboso rapporto
tra Vittorio e Sonia diventa emblema del dark
side della provincia italiana, tipicamente ipocrita nella sua facciata
conformista, ma anche ricettacolo di pulsioni nascoste e di antiche repressioni,
pronte a sconvolgere l’opinione pubblica quando vengono a galla. I due
personaggi sono entrambi profondamente infelici e disperatamente soli, tutti e
due sono schiavi di un tarlo interiore che sfocia nel malessere psicologico,
sebbene in forme opposte: attivo e dominatore lui, passiva e succube lei.
Girato con uno stile rigoroso e con stringata densità narrativa, Primo amore ha una prima parte
impeccabilmente inquietante nella sua lucida progressione, in cui l’occhio
registico scava implacabile nella psiche dei personaggi con un puntiglio più
entomologico che voyeuristico. Il fine della ricerca del regista non è solo
l’analisi di un rapporto insano o la denuncia di un problema serio come quello
dell’anoressia, ma, allo stesso modo, il tentativo, quasi alchimistico, di mettere a
nudo la sottile relazione tra carne e mente, tra spirito e materia, la
quintessenza dell’idealizzazione erotica. Quello che Vittorio cerca di fare con
Sonia è un processo vicino a quella purificazione vagheggiata dagli scultori
rinascimentali che ricercavano la forma pura, la bellezza intrinseca già
presente nella foggia grezza di marmo, eliminandone le parti superflue con
l’utilizzo certosino dello scalpello. Allo stesso modo la figura di Sonia
possiede l’aura mistica del martire che cerca di annullare sè stesso attraverso
la sofferenza, in nome di un ideale superiore che confina con il delirio
ascetico. La prossimità stridente di questi concetti spirituali con l’evidente natura
sessuale del film è il suo punto di forza migliore, perché gli conferisce una
fertile e stimolante ambiguità ideologica che nasce dal contrasto tra elementi solo
in apparenza eterogenei, ma invece intimamente collegabili vista la connessione
tra psiche ed Eros, con l’ombra di Tanathos in perenne incombenza. Peccato
che, nella seconda parte, l’opera perda forza e patos, abbracciando una ricerca
esasperata della carnalità ed una ripetitività rituale del “gioco” tra i due,
che finisce per anestetizzare l’interesse dello spettatore. Ciò provoca un
senso di distacco, con qualche caduta nel ridicolo involontario che indebolisce
l’ambiguo apparato allegorico messo in piedi nella fase iniziale. In ogni caso
Garrone conferma il suo istintivo talento autoriale, il suo sguardo cupamente introspettivo e la sua capacità di dirigere gli
attori che qui danno il meglio di sé: dal tenebroso Vitaliano Trevisan all’intensa
Michela Cescon che, quasi sempre nuda in scena, si è concessa con ammirevole
dedizione alla causa del film. La sequenza più riuscita è quella della gita in
barca, in cui i due amanti riflettono sul loro rapporto ossessivo e l’occhio
registico decide di sfumarne i volti, trasformandoli in anonimi fantasmi in
balia di un male di vivere profondo, di cui il sesso costituisce solo la punta
dell’iceberg.
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