Shandurai è una giovane ragazza africana
che studia medicina a Roma e lavora come cameriera, in cambio di una stanza
dove alloggiare, presso un prestigioso e antico palazzo che affaccia sulla
scalinata di Trinità dei Monti. Il proprietario dell’immobile è Mr. Kinski, un
inglese stravagante, musicista solitario che vive per il suo pianoforte ed è
segretamente innamorato della donna. Quando Shandurai scopre che l’uomo ha
venduto tutti i suoi beni per ottenere la liberazione del marito, prigioniero
politico in un regime dittatoriale africano, si rende conto di provare qualcosa
per lui e gli si concederà in una notte d’amore. Ma il marito di lei, appena liberato,
suonerà al campanello della porta il mattino dopo. Piccolo grande film di
Bertolucci, tratto dal racconto “The
Siege” di James Lasdun, inizialmente nato come prodotto televisivo ma poi,
fortunatamente, convertito per il grande schermo. Passato in sordina per la sua
natura “minimal”, è invece un autentico
gioiello, un melodramma raffreddato che lavora per sottrazione, che preferisce
sottintendere anziché mostrare, con un ammirevole pudore che oscilla tra
l’eroico e l’erotico. Elegante nella messa in scena, curato in ogni minimo
dettaglio, ammirevole nelle interpretazioni dei due protagonisti (David Thewlis
e Thandie Newton), è, in fin dei conti, l’ennesimo racconto di due disperate
solitudini, che vivranno la loro storia al riparo delle quattro mura di un
appartamento. Ma stavolta il grande regista parmense rinuncia del tutto
all’erotismo torbido e all’esibizione carnale, in favore di una messa in scena
sfumata, intima, raffinata, costruita sul non detto, sul gioco di sguardi e di
silenzi, su inquadrature di volti, di corpi, di oggetti e di scorci che
“parlano” attraverso associazioni istintive, sensoriali, sotterranee,
utilizzando il linguaggio forbito del cinema d’avanguardia. Con personalità
artistica e vigore creativo Bertolucci costruisce abilmente un film ricco e
basato sugli opposti, su mondi diversi che riescono a comunicare tramite
suggestioni “divine” come la musica, la sensualità, il sentimento. Geniale
l’utilizzo espressivo degli spazi scenici per sottolineare l’evoluzione del
rapporto tra i due protagonisti: dalle architetture verticali della prima parte
si passa alla sinuosità concentrica delle scale, continuamente in evidenza
nella seconda. E ancora ritorna il tema, caro al regista, del “dentro” (la casa
nido che custodisce i sentimenti inespressi) e del “fuori” (una Roma solare, ma
anche l’Africa con tutto il suo carico di dolorose ingiustizie). Intenso ed
ammaliante, generoso di invenzioni ricercate e di sequenze stupende, è il
miglior film dell’ultima parte della carriera dell’autore, un’opera intima che
trasuda libertà ed esuberanza artistica. Assolutamente da non perdere.
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