Nella
Chicago del proibizionismo il gangster irlandese John Rooney dirige con
fermezza i suoi loschi affari, come il gioco d’azzardo e il contrabbando di
alcolici, avvalendosi di uomini fidati come Mike Sullivan, spietato sicario
verso cui nutre un affetto “paterno”. Ma tutto cambia quando il figlio
adolescente di Sullivan, Michael junior, ignaro delle attività criminali di suo
padre, lo vede commettere un omicidio insieme al depravato Connor Rooney,
figlio violento e scapestrato del boss. Per timore che il piccolo Sullivan
possa parlare il truce Connor ne uccide la madre e il fratello più piccolo,
provocando la reazione violenta di Sullivan e dando inizio a una sanguinosa
faida interna alla banda. In disperata fuga col suo unico figlio superstite, Mike
Sullivan, cercherà in tutti i modi di salvarlo da un atroce destino. Noir manierista di Mendes, che adatta
per il grande schermo una graphic novel
di Max Allan Collins, spostandone l’azione dall’Irlanda agli Stati Uniti degli
anni ’30. Lussuoso nella confezione estetica ma gelido nel tono narrativo,
questo cupo film gangsteristico si ispira chiaramente ai moderni classici della
tradizione, con un occhio particolare ai capolavori di Coppola e di Leone.
Anche se non aggiunge nulla di nuovo al genere è diretto con indubbia eleganza,
è sontuoso nell’imponente ricostruzione d’epoca e si avvale di un cast stellare
(Tom Hanks, Paul Newman, Jude Law, Jennifer Jason Leigh, Daniel Craig, Stanley
Tucci e il piccolo Tyler Hoechlin) e di alcune sequenze magnifiche come il
massacro notturno sotto la pioggia battente. Eppure qualcosa sembra
costantemente mancare ad un film tanto imponente quanto freddo, che predilige
l’aspetto lirico a quello strettamente criminale, come un intimo dramma
esistenziale (consumato nel rapporto padre figlio durante il simbolico viaggio
di espiazione e redenzione) travestito da cinema di genere. Mantenendo una
certa distanza dai suoi protagonisti l’autore gira con compostezza, alternando
la potenza degli splendidi campi lunghi sugli sterminati spazi della provincia
americana agli stretti primi piani sulle espressioni dei personaggi, per
rimarcarne la connotazione psicologica. Ma, probabilmente, il lato debole
dell’opera risiede propria in questa sua natura ibrida, e non del tutto riuscita,
di viaggio interno ad un legame profondo come quello tra un genitore e un
figlio, collocato in una dimensione di brutale violenza di cui i Sullivan e i Rooney
rappresentano i poli opposti, secondo la tipica divisione manichea tra bene e
male. Nel cast spiccano un intenso Paul Newman, nell’ultima interpretazione
della sua leggendaria carriera, e un inquietante Jude Law, il cui sinistro
personaggio (il fotografo della morte) è uno di quelli che restano maggiormente
impressi. Tom Hanks, al suo primo ruolo da “cattivo”, si limita ad una
performance dignitosa, ma appare a volte troppo monocorde nel suo tono
perennemente trattenuto. Il film ha avuto sei nomination agli Oscar ma ha vinto
solo quello per la fotografia di Conrad L. Hall.
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