Marion
è una scrittrice newyorkese di mezza età sposata con un medico. Un giorno
scopre che attraverso una parete può origliare le sedute di uno studio
psicanalitico nell’appartamento attiguo e, curiosa, inizia ad ascoltare. S’immedesima
nelle confessioni della più giovane Hope e finisce per identificarsi con lei,
entrando in crisi di coscienza e mettendo in discussione tutta la sua vita.
Questo splendido dramma da camera, austero e rigoroso, è il film più
bergmaniano di Allen, che si ispira anche esteticamente al grande Maestro
svedese a cominciare dalla bella fotografia ocra, curata dal suo storico
collaboratore Sven Nykvist. Passato inopinatamente in sordina alla sua uscita,
poco amato dalla critica e incompreso dal pubblico, è in realtà uno dei più
alti risultati raggiunti dal regista americano nella sua carriera, una solenne
riflessione sull’esistenza come inevitabile compromesso tra l’io e il mondo
esterno, densa di amaro disincanto ma anche di limpida serenità, che offre alla
vicenda una luce di speranza. Pacato e risoluto, complesso e affascinante, denso
e profondo, scava nella psiche dei personaggi e “costringe” lo spettatore a
riflettere, a mettersi in gioco, mirando alla creazione del medesimo processo
d’identificazione che avviene tra i personaggi di Marion e Hope (il cui nome ha
un evidente valore metaforico). Dal punto di vista formale ci troviamo davanti
a un capolavoro: scritto con incredibile finezza, solido nell’impianto
narrativo (in bilico tra intelletto e istinto) e sontuoso nella confezione
estetica di preziosa impaginazione. Il personaggio di Marion, interpretato con
ammirevole intensità da Gena Rowlands, è una delle più riuscite figure
femminili nella ricchissima galleria di donne alleniane ed è lei che incarna
l’io narrante dell’autore in un film comunque pieno di elementi personali, a
cominciare dalla coprotagonista Mia Farrow che durante le riprese era incinta
del primo figlio biologico del regista. Questo film sussurrato e autunnale
possiede delle atmosfere magiche e la semplicità pregnante delle grandi opere,
e conferma l’assoluto talento di Allen nella rielaborazione artistica dei
propri miti cinematografici e delle proprie ossessioni personali. La
riflessione di Marion sulla natura dei ricordi è uno dei momenti memorabili
dell’opera, che si apre ad una molteplicità di spunti e considerazioni che
coinvolgono lo stesso spettatore in prima persona. L’altra donna invocata dal
titolo è quella nostra parte interiore che spesso scegliamo d’ignorare, non a
caso Allen per tutta la prima parte ce ne offre soltanto la voce, salvo poi
svelarla oltre la metà del film. Ma il nome allegorico (Hope) non viene mai esplicitamente
pronunciato ma compare soltanto nei titoli di coda. Completano il cast Ian Holm
e Gene Hackman, che lascia il segno con un’apparizione tanto breve quanto intensa.
Da recuperare assolutamente.
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