venerdì 1 aprile 2016

La casa dalle finestre che ridono (La casa dalle finestre che ridono, 1976) di Pupi Avati

Stefano è un giovane restauratore che giunge in un piccolo paesino della “bassa” ferrarese, per occuparsi di un vecchio affresco in una chiesa che raffigura un cruento martirio. Autore del dipinto è Buono Legnani, pittore maledetto del luogo, morto suicida molti anni prima e da sempre accompagnato da una triste fama per le sue abitudini macabre (si dice che amasse dipingere le persone in agonia). Stefano inizia a indagare sull’oscuro passato del pittore e si trova ben presto avvolto in un’atmosfera malvagia, dove non è mai chiaro di chi potersi fidare. Per nulla scoraggiato, nemmeno dopo una serie di efferati omicidi, il giovane è deciso a svelare il terribile segreto che alberga in quei luoghi. Finirà per scoprire un’agghiacciante verità. Non molti conoscono la passione di Pupi Avati, sicuramente più noto per le sue commedie agrodolci o per i film drammatici, per il genere horror. Eppure il regista bolognese ne è un grande fan e si è cimentato più volte con il genere. La più riuscita delle sue opere horror è questo piccolo gioiello del 1976, un vero cult del nostro cinema di genere. La casa dalle finestre che ridono è un film davvero inquietante, fin dall’agghiacciante incipit, che si mantiene in bilico perenne tra il noir, il giallo e l’horror. Non si basa sui temi classici del genere e non ricorre quasi mai all’effetto gore per spaventare: il senso di angoscia proviene invece dalle atmosfere; la “bassa padana”, qui ritratta come solare, priva di nebbie e di foschie, è uno scenario atipico ma perfetto, così come lo sono gli ambigui personaggi che gravitano intorno alla vicenda, di cui non è mai chiara la natura. La bravura di Avati nel creare queste sottili ambiguità fa provare allo spettatore una costante ed imminente sensazione di pericolo, esattamente come avviene al protagonista. Un altro merito del regista è quello di suscitare una strisciante paura inconscia attraverso elementi semplici: ombre, rumori, voci, situazioni non scontate oppure giocando magistralmente su dettagli che l’occhio sembra percepire, senza però riuscire a metterli a fuoco completamente nel dipanarsi dell’intricata vicenda. Con il successivo disvelarsi dei fatti il senso di minaccia incombente aumenta, insieme al carico di morbosità che Stefano riesce a scoprire, mettendo a nudo l’orrore indicibile che si cela in uno squallido contesto di provincia. Tra i momenti topici di questo horror padano vanno sicuramente ricordati la scena dell’ascolto del nastro con la voce del Legnani (davvero spaventosa) o il memorabile finale a sorpresa, che non va assolutamente rivelato per non rovinare la visione. Girato a basso costo e in situazioni di emergenza, proprio durante i giorni del terribile terremoto in Friuli, il film è un raro esempio di prodotto artigianale di buona fattura. Cosa che spinge poi a perdonare le evidenti ingenuità di certe situazioni, la banalità dei dialoghi e gli scivoloni nel trash involontario, delle quali la pellicola non è di certo immune, come quasi tutti i film italiani “di genere” di quel periodo. E’ una delle vette del cinema horror nostrano.

Voto:
voto: 4/5

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