E' indubbiamente il film più ambizioso di Paolo Sorrentino e lo si
capisce già dall'efficace prologo surreale che ci mostra una Roma "bella
da morire" senza utilizzare gli strumenti oleografici dei "film da cartolina" (alla To Rome with love
per intenderci). Il talentuoso regista napoletano alza il tiro e punta
in alto, facendo i conti con quel coacervo di gloria e vanità, di
lussuria e di miseria, di storia e di folklore che è Roma. Ma è
una Roma atipica, notturna, onirica, decadente, patrizia e cafona, snob e
volgare, come se il regista volesse far rispecchiare nelle torbide
acque tiberine l'Italia di oggi per evidenziarne il vuoto interiore.
Descrivendo la vita vacua e modaiola dei salotti "bene" della Roma
contemporanea, Sorrentino intende mostrare uno specchio grottesco, ma
indubbiamente crudele, della deriva culturale, morale ed ideologica del belpaese.
E la "grande bellezza", invocata dal titolo, non è solamente quella della Città
Eterna, ma anche quell'ideale (astratto)
vagheggiato ed ormai irrimediabilmente perduto da una generazione di
cialtroni edonisti annichiliti dalla "dolce vita" (come chiaramente
espresso da una frase-epitaffio di Servillo/Gambardella che contiene il
senso del film). I rimandi a Fellini sono tanti e non casuali; molte pittoresche
figure di questo film sembrano (ri)emergere pari pari dalle opere del
Maestro di Rimini: i preti, i freaks, le donnone "burrose" e sguaiate,
le suore, via Veneto ed infine il "mostro marino" che omaggia
chiaramente La dolce vita, sebbene questo film sia assai più affine al meno conosciuto Roma del
1972. Certo disturba un po' che l'unico modo per il cinema italiano di
staccarsi dalla sua media sia quello di citare Fellini o di indulgere nel grottesco, ma tant'è. Sorrentino si conferma l'unico regista italiano con uno sguardo
"diversamente diverso", proprio come il suo Jep Gambardella, e conferma
nuovamente il suo enorme talento visionario in alcune sequenze memorabili che non possono passare inosservate (la festa del prologo mostrata come uno scintillante inferno dantesco, l'incontro fugace con Fanny Ardant a via Veneto, la visita notturna alle ville patrizie della nobiltà romana). Ma l'autore conferma, altresì, anche
i suoi difetti congeniti : uno stile
ridondante e sentenzioso che conduce ad un vanesio manierismo autoreferenziale. Insomma ancora una volta il Sorrentino regista
(abilissimo) fa a pugni con il Sorrentino sceneggiatore
(ben più incerto). Il risultato è un film disomogeneo e squilibrato, che oscilla tra il
trash e il poetico, e che alterna momenti altissimi a cadute verticali, come
una parte finale ostica da digerire. Anche la tirannica
ripetizione del medesimo personaggio protagonista (il regista attraverso
l'alter-ego Servillo continua, in pratica, a riproporre se stesso),
ovvero un dandy elitario che si sente superiore agli altri e che
comunica per serafiche sentenze, non favorisce l'indulgenza del giudizio. Va
comunque visto e lodato per la sua estetica sontuosa, per la maestria registica, per i movimenti di macchina funambolici, per i tanti momenti di cinema alto che sono pura arte (merce rara nel panorama odierno del "belpaese") e per l'originalità di uno
sguardo tagliente e politicamente scorretto che si esalta nella sua ridondanza visiva. Lo stridente contrasto tra la "grande bellezza" degli scenari barocchi di una Roma onirica e blasè e la miseria morale dei protagonisti, imbelli fantasmi di un mondo edificato sul vuoto, è la grande forza dell'opera, e produce un potente affresco decadente che emana suggestioni di morte. Più che un film "bello" è un film dotto, necessario, solenne e importante, probabilmente il più importante film italiano degli ultimi anni. Forse qualche taglio ulteriore avrebbe giovato all'esito complessivo, anche se l'autore ne ha presentato una versione estesa, con 30 minuti aggiuntivi, nel 2016. Ha vinto meritatamente l'Oscar 2014 come miglior film straniero.
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