sabato 28 dicembre 2013

L'ultimo dei Mohicani (The Last of the Mohicans, 1992) di Michael Mann

Durante la guerra dei sette anni, nel 1757, anche le colonie americane vengono investite dal conflitto con inglesi e francesi che si combattono per la supremazia sui territori e le tribù indigene che scelgono da che parte schierarsi. L'inglese Nathan, adottato dalla tribù dei Mohicani con il nome di "Occhio di Falco", lotta per una pacifica convivenza tra coloni e nativi ma dovrà presto arrendersi a causa dell'escalation inarrestabile della guerra. Il suo destino sarà segnato dall'incontro con il maggiore Heyward, a cui il nostro accetterà di far da guida attraverso i boschi del North Carolina per condurlo in salvo insieme alle giovani figlie di un colonnello inglese. Grande avventura epica sentimentale dal ritmo incessante e dal piè veloce, esattamente come il carismatico protagonista interpretato da Daniel Day-Lewis che corre agile tra i fitti boschi del Nord America sulle note di una travolgente colonna sonora. Più che un affresco storico Mann fa un sontuoso film d'azione basato sulla bellezza delle immagini, sulla splendida fotografia del nostro grande Dante Spinotti che esalta gli straordinari scenari naturali delle Blue Ridge Mountains (Carolina del Nord), sulle atmosfere selvagge, sul ruvido fascino di Day-Lewis e sull'incedere frenetico dettato dalle musiche di Randy Edelman e Trevor Jones. Volutamente frettoloso sugli aspetti storico politici e sulla psicologia dei personaggi, il film mette al centro la storia d'amore tra la bella inglese e l'impavido "selvaggio" e garantisce un vigoroso intrattenimento fino al finale struggente che chiarisce senso e titolo dell'opera. Per amanti dell'avventura selvaggia.

Voto:
voto: 4/5

The Rocky Horror Picture Show (The Rocky Horror Picture Show, 1975) di Jim Sharman

Musical trasgressivo, variopinto e "godereccio", felicemente tratto dall'omonima versione teatrale, di grande successo in Gran Bretagna, dal regista Jim Sherman e dal cantante-attore Richard O'Brien. Dopo una certa diffidenza iniziale il film divenne presto un CULT per tantissimi giovani che, per l'occasione, inaugurarono una serie di mode più stravaganti della pellicola stessa: come quella di riunirsi in gruppi, travestiti con i costumi di scena, per rivedere il film più e più volte, cantando tutte le canzoni in sala. Forse non molti sanno che il termine "cult", oggi abusato, venne coniato proprio per questo film e per la fenomenologia popolare che ne derivò. Tra eccessi, citazioni, parodie e sprazzi di sregolata genialità, il film di Sharman è un'opera briosa e vitale, che gioca abilmente con generi fortemente codificati come horror e sci-fi (dissacrandoli) e mette in scena un chiassoso trionfo del kitsch, del pop e del glam all'insegna di un provocatorio edonismo sessuale come contro risposta alle mentalità repressive e puritane della "vecchia" cultura dominante. E' un film profondamente figlio del suo tempo, i favolosi 70's, colorati, ribelli e trasgressivi di cui l'ambiguo Dottor Frank-N-Furter (straordinariamente interpretato da Tim Curry) rappresenta una delle icone pop più autentiche. Da menzionare, ancora, le splendide canzoni di Richard O'Brien, che appare nel ruolo del gobbo Riff Raff, le visionarie scenografie e la presenza di una giovane Susan Sarandon, nei panni della vergine che sarà iniziata ai piaceri del sesso dallo stravagante mentore, Frank-N-Furter. A suo modo è una pietra miliare, da riscoprire già solo per il suo valore storico culturale.

Voto:
voto: 4/5

lunedì 16 dicembre 2013

La vita di Adele (La Vie d'Adèle - Chapitres 1 & 2, 2013) di Abdel Kechiche

Il vincitore di Cannes 2013 è una storia d'amore carnale e sensuale che lascia poco all'immaginazione dello spettatore immergendolo nella vita delle due protagoniste: due ragazze lesbiche che condividono un intenso momento di vita. Il maggior difetto del film è la durata: tre ore sono davvero eccessive per una storia del genere e, soprattutto, per uno stile come quello di Kechiche (che qui esaspera ulteriormente la sua estetica): un approccio "documentaristico" in cui il verismo/Nouvelle Vague diventa esposizione ossessiva e "maniacale" di dettagli in primo piano. Dettagli (volto, occhi, bocca, parti del corpo, anche intime) funzionali alla totale "messa a nudo" (sia in senso esplicito che figurato) della protagonista, l'intensa Adèle Exarchopoulos, con il suo sguardo languido e smarrito. Il film è costruito su di lei, è una sorta di diario in presa diretta della sua vita o meglio, di quella parte, magica e terribile, del percorso umano (il passaggio dall'adolescenza alla maturità) nella quale si (e ci si) esplora alla ricerca della propria via. E la ricerca di Adele è, principalmente, sessuale perchè il sesso è sì ricerca del piacere ma è anche comprensione (ed affermazione) della propria identità rispetto al mondo che ci circonda. Dal punto di vista registico non ci sono virtuosismi, la macchina da presa "bracca" Adele/Exarchopoulos scrutandola dettagliatamente per rimandarci tutte le sue sensazioni in tempo reale con approccio quasi "scientifico". Diventiamo quindi parte della sua ricerca, delle sue esperienze, della sua crescita sessuale e delle sue relazioni. Se il prologo è preparatorio, la parte centrale è stupenda nella sua voluttuosa intensità: in essa il gioco di sguardi e primi piani diventa fertile e vitale espressionismo sensuale che non può lasciare indifferenti. Adele, letteralmente, "esplode" dallo schermo in un orgasmo liberatorio perchè sembra aver trovato la sua via nel mondo. Più debole e canonica la parte finale, principalmente perchè iper-dilatata, anche se l'epilogo ritrova forza. L'altra protagonista, Léa Seydoux, è anch'essa magnifica, ammaliante, trasgressiva, luminosa, conturbante nello sguardo e nella fisicità. Quando il blu svanisce (dai capelli di Emma) appassisce anche la passione e, quindi, l'amore. Pur non essendo un capolavoro in senso assoluto e pur peccando di ridondanza espressiva, questo film possiede personalità e fascinazione, si eleva ampiamente sopra la media e si farà di certo ricordare.

Voto:
voto: 4/5

Gravity (Gravity, 2013) di Alfonso Cuarón

La dottoressa Ryan Stone, alla sua prima vera missione nello spazio, e l'esperto astronauta Matt Kovalsky, all'ultimo volo prima della pensione, vedono trasformarsi una "passeggiata" spaziale di routine in una catastrofe, a causa di una pioggia di detriti che li investe, danneggiando seriamente il loro Shuttle e mandandoli alla deriva nel vuoto con un cavo che li mantiene collegati. Avvolti dal silenzio e con l'ossigeno in esaurimento i due dovranno lottare disperatamente per la loro salvezza in un ambiente ostile in cui la vita è impossibile. Blockbuster d'autore, tecnicamente eccellente, con immagini splendide e notevoli virtuosismi registici: nei movimenti di macchina ma anche nella continua ricerca di inquadrature ad effetto. Ad una prima parte notevole per impatto visivo, patos ansiogeno e ritmo narrativo, fa seguito una seconda più  "intimista" che dovrebbe tracciare il senso dell'opera che, tra l'altro, risulta ben chiaro fin dal titolo (la gravità è la forza che ci attrae verso la terra). Ma qui il film di Cuaron, che vuol essere un inno alla vita ed alla lotta disperata dell'uomo per trovare il suo cammino senza arrendersi mai, rivela le sue debolezze dovute alla sua anima hollywoodiana e, quindi, alla necessità di un finale edificante. Ed ecco che il viaggio cosmico si fa metafora di un altrettanto travagliato, e pericoloso, percorso interiore verso l'accettazione dei propri traumi, con inevitabile moralismo dietro l'angolo. In fin dei conti resta un film di buona fattura tecnica ma anche un indubbio passo indietro rispetto al precedente I figli degli uomini. Ottimo il cast con i divi Sandra Bullock e George Clooney a loro agio nei rispettivi ruoli. L'Academy ha adorato il film, assegnandogli ben 7 Oscar: miglior regia, fotografia, montaggio, montaggio sonoro, effetti speciali, colonna sonora e sonoro.

Voto:
voto: 3/5

Zodiac (Zodiac, 2007) di David Fincher

San Francisco, 1969. Un misterioso serial killer, che si fa chiamare Zodiac, uccide spietatamente bersagli casuali nella zona della Bay Area e sfida apertamente la polizia con una serie di lettere deliranti e messaggi cifrati. Dopo cinque vittime e due feriti miracolosamente sopravvisuti continuerà la sua corrispondenza con i giornali locali fino al 1974, per poi sparire nell'ombra. Due giornalisti ed un detective indagarono a lungo sul caso, arrivando a mettere in gioco la loro vita privata e professionale pur di svelare l'identità del misterioso omicida, ma senza risultati definitivi. L'inafferrabile Zodiac è ancora oggi senza un nome, sebbene il caso non sia ancora stato ufficialmente chiuso. Ma, dopo la morte del maggiore indiziato, le indagini versano in una situazione di stallo. Il film è tratto dai racconti del giornalista Robert Graysmith (interpretato da Jake Gyllenhaal) che ha coltivato un'autentica ossessione per il caso Zodiac ed i suoi tanti misteri, dedicandovi gran parte della sua vita ed è narrato attraverso il suo punto di vista. Dodici anni dopo il grande successo di "Seven", l'ottimo David Fincher, uno dei migliori registi contemporanei, ritorna al thriller con lo splendido "Zodiac", ingiustamente passato in sordina rispetto al suo grande valore. Il risultato è un eccellente film inchiesta, dal ritmo compassato, esteticamente sontuoso e dalla concezione prossima al cinema classico. "Zodiac" è un thriller unico nel suo genere, atipico ed anti-spettacolare, più attento allo scandaglio psicologico dei personaggi ed agli effetti dell'operato dell'assassino sulle loro vite, che all'azione tipica delle pellicole sui serial killer. Il misterioso Zodiac resta sempre fuori fuoco, ineffabile minaccia incombente, rispetto alla maniacale opera di ricerca e decodifica compiuta dai tre protagonisti: i giornalisti Robert Graysmith (Jake Gyllenhaal) e Paul Avery (Robert Downey Jr.) ed il detective Dave Toschi (Mark Ruffalo). Insomma è soprattutto un film su un'ossessione che una classica crime story. Nonostante i tanti dialoghi ed una certa lunghezza, il film avvince fino alla fine, immergendo totalmente lo spettatore nell'assillante caccia compiuta dai protagonisti, contro tutto e tutti. Fincher ci regala un'altra regia magistrale con uno stile sobrio e pregevole, con una fotografia straordinaria, con la perfetta ricostruzione ambientale e con la sapiente direzione di un cast molto ispirato. Alcune sequenze, come il delitto sul lago o quello nel taxi, sono autentiche perle cinematografiche. Film imperdibile, assolutamente consigliato a tutti gli amanti delle pellicole di qualità lontane dagli stereotipi hollywoodiani. Un'autentica chicca del film è la scena in cui due dei protagonisti vanno al cinema a vedere "Dirty Harry" (1971) (in italiano "Ispettore Callaghan: il caso Scorpio è tuo") di Don Siegel con Clint Eastwood protagonista assoluto. Forse non tutti sanno che il killer del film di Siegel, Scorpio, fu ispirato da Zodiac e dalle sue nefaste azioni, che, in quegli anni, colpirono enormemente la fantasia popolare e l'opinione pubblica americana.

Voto:
voto: 4,5/5

Aurora (Sunrise, 1927) di Friedrich W. Murnau

Dopo essere stato sedotto da una femme fatale di città, un campagnolo decide di annegare la moglie, in modo da sbarazzarsene, ma sul più bello, non ne è in grado. Arrivati in città, i due si riconciliano e trascorrono momenti sereni e allegri che rievocano una seconda luna di miele. Sul tragitto di ritorno, vengono colti da una burrasca, e la moglie risulta dispersa. Viene poi tratta in salvo da un pescatore, e infine l'Uomo e la Donna si dichiarano amore con il sorgere del sole. Primo film di Murnau in terra americana, e il risultato è strepitoso: un film espressionista tedesco girato a Hollywood. La prima parte del film è puro noir, a tratti terrificante, paradossalmente in qualche frangente anche più di Nosferatu. Il corpo centrale del film invece si caratterizza per un cambio netto di tono, da commedia tipicamente hollywoodiana mentre il finale apparentemente tragico si risolve con un happy ending ancora nel classico stile americano. La fotografia è sublime, come il montaggio calibrato alla perfezione, mentre si trovano pochissime didascalie per essere un film muto: effettivamente la potenza delle immagini parla benissimo da sè. La sequenza dove il marito viene "abbracciato" dallo spirito maligno dell'amante è tanto visionaria quanto stupefacente. Insomma, la visionarietà di Murnau al servizio di una storia di riconciliazione "universale" in un film che mescola la ricerca espressionistica dell'immagine controllata, dallo stile tipicamente tedesco, con la drammaturgia melodrammatica tipicamente hollywoodiana, dando vita ad una delle massime vette del cinema muto. Vinse tre Academy, tra cui miglior film, alla prima cerimonia degli Oscar del 1927 in cui esistevano due categorie distinte: miglior film e produzione artistica e miglior produzione (in cui vinse "Ali" di William A. Wellman). Queste due categorie furono abolite già dall'anno successivo per dar vita a quella unica ed attuale di Miglior Film. Una menzione speciale alle musiche di Hugo Riesenfeld che ormai formano un corpo unico con questo capolavoro di Murnau, che compare anche in un breve cameo nel finale del film. Quest'opera viene anche ricordata per l'enorme quantità di pellicola girata (Murnau era anche un tecnico molto preparato ed esigente ed era famoso per le sue continue sperimentazioni sulle immagini), poi pesantemente ridotta in fase di montaggio.

Voto:
voto: 5/5

Smoke (Smoke, 1995) di Wayne Wang, Paul Auster

"Smoke" è un film stupendo e, purtroppo, non molto conosciuto, ma che merita ampiamente la visione. E' un film corale, diviso in 5 parti, ciascuna con un diverso personaggio protagonista, ma con un unico baricentro: la tabaccheria di Auggie (un superbo Harvey Keitel) che fa da collante alle varie vicende e detta i tempi del racconto. La narrazione non procede in modo lineare ma a cerchi concetrici, con molti dialoghi e situazioni vagamente surreali. Il film deve qualcosa al modello altmaniano ma si distacca totalmente dai suoi toni solitamente amari in favore di una lievezza e di un'eleganza che fu tipica della grande tradizione della screwball comedy di Hawks, più che di Capra o Cukor. E' un film agile e raffinato, con dei personaggi irresistibili quanto improbabili, che scaldano il cuore e toccano le corde sincere dei sentimenti, ma senza alcun sentimentalismo di maniera. A un certo livello è una pellicola dalla sensibilità più europea che americana. Consigliatissimo a tutti gli amanti del buon cinema di qualità, non solo ai cinefili.

Voto:
voto: 4/5

Ladri di biciclette (1948) di Vittorio De Sica

Nella Roma del secondo dopoguerra Antonio, che ha faticosamente ottenuto un lavoro come attacchino di manifesti per il cinema, subisce il furto della sua bicicletta mentra sta incollando il poster di "Gilda". L'uomo è disperato perchè, senza la bicicletta, non può più lavorare e sarà licenziato, con enorme danno per lui e per la sua famiglia. Aiutato dal piccolo figlio Bruno, inizia una disperata ricerca attraverso le strade di una Roma gretta e indifferente, scontrandosi con la miseria morale della gente. Vinto dallo sconforto, l'uomo decide di rubarne una a sua volta, ma sarà preso da una folla inferocita e salvato solo dal commovente intervento del figlio. Capolavoro indiscusso del neorealismo italiano e massimo risultato artistico conseguito dalla "coppia" De Sica-Zavattini. Incanta e commuove ancora oggi per la sua toccante sincerità, per come riesce a ritrarre vizi e virtù di un doloroso quotidiano, la Roma popolare del secondo  dopoguerra, trasfigurandoli in autentica poesia. Lo sguardo di De Sica è carico di pietà, ma non lesina critiche, anche aspre, al contesto sociale ed antropologico. Tra le tante sequenze alte di questo monumento del cinema mondiale, è memorabile quella nell'osteria con il gioco di sguardi tra il bambino ricco ed il bambino povero (lo straordinario Enzo Staiola che interpreta Bruno): il drammatico confronto tra due classi sociali filtrato attraverso la magia e l'innocenza dell'infanzia. De Sica ha ritratto magistralmente la lotta di classe senza bisogno di parole, nello sguardo autentico dei bambini. Autentica epopea degli umili, dura, commovente, amara, ma non priva di un soave alone di speranza per quel futuro tutto da costruire, a mani nude.

Voto:
voto: 5+/5

Rocco e i suoi fratelli (1960) di Luchino Visconti

La famiglia Parondi, poveri emigranti a Milano dalla Basilicata, è composta dalla madre Rosaria ed i suoi quattro figli maschi: Rocco, il più saggio, che fa il garzone in una stireria, Simone, il più scapestrato, che cerca di sfondare nella boxe, Ciro, operaio, e Luca, il minore, che aiuta la madre a casa. Simone perde la testa per la bella Nadia, prostituta abituata alla bella vita, ma quando lei s'invaghisce di Rocco scoppierà la tragedia. E la famiglia sarà disgregata. E' il più audace tra i film del Maestro Visconti, a metà strada tra dolente affresco sociale e melodramma di costume. Mette in scena abilmente passioni, contrasti, ardori e piccole meschinità di una famiglia meridionale emigrata a Milano che cerca disperatamente di ritagliarsi il suo spazio, non solo sociale ed economico ma soprattutto morale, nella grande metropoli lombarda negli anni del boom economico. Ricco di scene madri e sopra le righe, ebbe molti guai con la censura ma fu un grande successo di pubblico. E' uno dei capolavori del grande regista, che colpisce soprattutto per come evidenzia la crisi e la caduta dei vecchi ideali di famiglia patriarcale (qui paradossalmente incarnati dalla vecchia madre) di fronte al nuovo che avanza inesorabile ed ai "vizi" mondani della vita in città, che possono abbattere di colpo, con il fascino ammaliante del peccato, i valori dell'antica cultura contadina. Come ritratto di un periodo storico cruciale per il nostro paese è intenso, lucido, straordinario. La drammatica sequenza dell'Idroscalo, a lungo bersagliata dalle "forbici" censorie, è tra le più famose e tragiche del cinema italiano. Nel cast spiccano Renato Salvatori e Annie Girardot, che mettono in ombra il protagonista Alain Delon, mentre una giovane Claudia Mori fa una piccola comparsa come lavandaia. Fu premiato al Festival di Venezia con il Gran Premio della Giuria.

Voto:
voto: 5/5