giovedì 30 settembre 2021

No Time to Die (2021) di Cary Joji Fukunaga

Cinque anni dopo l'arresto del suo peggior nemico, Blofeld, James Bond ha rotto la sua relazione con Madeleine ed ha lasciato il servizio segreto di Sua Maestà per ritirarsi a vita privata in Giamaica. Ma il passato torna a bussare alla sua porta sotto le sembianze dell'amico Felix Leiter, agente della CIA, che lo vuole accanto a sè in una cruciale missione per ritrovare un geniale scienziato rapito da un folle terrorista, Lyutsifer Safin, un tempo membro della SPECTRE e adesso a capo di un'organizzazione entrata in possesso di un'apocalittica arma biologica, che potrebbe sterminare gran parte della popolazione mondiale. Dopo diverse peripezie Bond ritorna a Londra, dove trova una nuova agente donna che ha preso il suo posto come 007 e rincontra anche Madeleine, il cui doloroso passato sembra avere sinistri legami con il nuovo nemico Safin. A sei anni di distanza dal deludente Spectre (2015) di Sam Mendes, dopo una produzione lunga e travagliata prima a causa delle indecisioni di Daniel Craig a riprendere il ruolo di 007, poi per il clamoroso addio di Danny Boyle (che decise di mollare tutto poco prima dell'inizio delle riprese per divergenze creative con la EON Production, detentrice dei diritti del personaggio) e infine per la pandemia di covid-19 che ne ha fatto slittare di continuo l'uscita, il 25-esimo capitolo della longeva saga di James Bond (il quinto e ultimo dell'era Craig) ha visto finalmente la luce con la regia di Cary Fukunaga, che ha anche collaborato alla sceneggiatura insieme agli abituali (e fidati) Neal Purvis e Robert Wade. E' difficile parlare in maniera esaustiva di questo Bond-25 senza fare spoiler sulla trama e sul finale. Ma, visto che fare rivelazioni che rovinerebbero la visione dei lettori sarebbe ancora più grave, mi limiterò ad un discorso più ampio e generalizzato sui 5 episodi del periodo Craig, che hanno cambiato radicalmente la saga elevandola ad un successo commerciale mai raggiunto in precedenza e portando il personaggio su percorsi nuovi, coraggiosi, inesplorati, rendendolo più cupo, più tormentato, più fragile, più brutale, più romantico, in una parola: più umano, e, quindi, molto più sfumato e interessante. I cinque Bond con Daniel Craig hanno alzato decisamente l'asticella della qualità, dello spessore, dell'introspezione e dello scandaglio emotivo-psicologico, stabilendo un precedente di notevole eccellenza che sarà difficile superare e con cui il successore dovrà inevitabilmente fare i conti. Un'impresa difficile, non solo per l'attore (o l'attrice?) che sarà scelto come futuro 007, ma anche per l'intero team tecnico-creativo che dovranno decidere che direzione intraprendere, cosa inventarsi di nuovo dopo questi 5 film e che futuro dare ad una saga nata nel lontano 1962 e ancora amatissima dal pubblico. L'era Craig è stata all'insegna di un brillante reboot che ha fatto reset di tutto quanto visto in precedenza, ripartendo daccapo, con un Bond ancora acerbo appena promosso agente "doppio 0"  e che è stato poi ampiamente sviscerato e messo a nudo durante i diversi capitoli. L'intera miniserie degli ultimi 5 film è stata all'insegna di un profondo restyling, giocato sul filo dell'equilibrio tra il rispetto della tradizione e una modernità sempre più accentuata, con cambiamenti radicali, fino a divenire addirittura iconoclasti rispetto ai consolidati cliché che hanno cementato nel tempo la mitologia della saga e del personaggio. In tal senso questo No Time to Die rappresenta la chiusura ideale, inevitabile, struggente e sicuramente epocale di questa progressiva iconoclastia, che qui viene spinta all'enfasi massima in maniera sorprendente e che ha reso James Bond sempre più umano e sempre meno super eroe, arrivando a toccare in questo malinconico last waltz punte melodrammatiche mai viste prima, ovviamente senza mai dimenticare le grandi scene d'azione, il glamour, le ambientazioni esotiche, le belle donne e i tocchi (misurati) di ironia british. A parte l'epilogo di grande effetto, risultano particolarmente riusciti lo straordinario prologo a Matera a tutta azione, l'incontro con la nemesi Blofeld ed il segmento cubano, con una Ana de Armas che buca lo schermo e che, probabilmente, poteva anche essere utilizzata meglio e più a lungo. Bene anche la Nomi (novella 007) di Lashana Lynch, così così la Bond-girl principale di Léa Seydoux (anche se questo termine appare ormai desueto e poco sensato, e non solo per la spinta ideologica del #me_too) ed il villain di Rami Malek, un po' troppo convenzionale e non molto approfondito. Non senza un pizzico di emozione ci congediamo dal James Bond di Daniel Craig che mancherà molto a tutti i fans della saga e la cui grandezza apparirà ancora più chiara nei decenni a venire. Adesso sarebbe poco elegante mettersi a fare ipotesi, scommesse e pronostici sul futuro di 007, l'unica cosa certa, come promesso ogni volta a fine titoli di coda, è che "James Bond ritornerà". Staremo a vedere come, quando e con quali nuove idee narrative.

Voto:
voto: 3,5/5

mercoledì 29 settembre 2021

Il tocco del male (Fallen, 1998) di Gregory Hoblit

John Hobbes, efficiente detective della squadra omicidi di Filadelfia, vede finalmente morire nella camera a gas un pericoloso serial killer, Edgar Reese, da lui arrestato tempo prima dopo una lunga caccia, che per lui era diventata una vera ossessione. Ma poco dopo l'esecuzione di Reese i delitti ricominciano, in modalità molto simili ai precedenti, per mano di uno squilibrato che sembra nuovamente sfidare Hobbes attraverso una serie di tracce lasciate sulla scena del crimine. Indagando sulle scoperte di un suo predecessore, che aveva investigato a lungo su casi simili per poi sparire nel nulla, il sempre più angosciato Hobbes inizia a sospettare che dietro a questo incubo ci sia qualcosa di diabolico di natura non umana. Truce horror mefistofelico di Gregory Hoblit, scritto da Nicholas Kazan e arricchito da un sontuoso cast, che annovera grandi attori quali Denzel Washington, Donald Sutherland, John Goodman e il compianto James Gandolfini. La prima metà del film è decisamente interessante, misteriosa, inquietante e carica di suspense oscura. C'è poi una sequenza centrale di forte impatto (che resta sicuramente impressa nella memoria) dopo la quale l'arcano viene svelato e la pellicola perde forza, inerpicandosi su sentieri narrativi impervi e virando decisamente verso suggestioni horror più convenzionali, artificiose e prevedibili (con l'idea di base particolarmente debitrice dell'affascinante predecessore L'alieno (The Hidden, 1987) di Jack Sholder). Da salvare l'epilogo e il tormentone del brano "Time Is on My Side" dei Rolling Stones come leitmotiv dell'ineffabile assassino. Alcuni, non senza forzature, hanno voluto vedere nel film una metafora delle grandi paure, "contagiose" e isteriche, di fine millennio. Ma tutto è troppo superficiale e grossolano per volergli attribuire un significato così allegoricamente sottile, come dimostrato dall'escalation di stereotipi della seconda tranche dell'opera in cui la narrazione, i sottotesti psicologici e i personaggi vengono maldestramente fagocitati dall'azione.
 
Voto:
voto: 2,5/5

Silent Hill (2006) di Christophe Gans

La giovane Rose è disperata perchè sua figlia Sharon ha una strana e grave malattia che si manifesta attraverso sonnambulismo e terribili allucinazioni su cui i medici non sanno fornire rimedi o spiegazioni. Tutte le visioni della bambina sembrano ricondurre a Silent Hill, una misteriosa cittadina disabitata del West Virginia abbandonata dalla popolazione dopo un terribile incendio. Contro la volontà del razionale marito, Rose decide di partire per il remoto villaggio fantasma portando sua figlia con sè. Inquietante horror di Christophe Gans, scritto da Roger Avary (sì, proprio lui! L'ex sodale di Tarantino, premio Oscar nel 1995 come cosceneggiatore del mitico Pulp Fiction) e ispirato all'omonimo videogioco giapponese di grande successo negli Stati Uniti. Credo sia giusto fare tre premesse: 1) non sono un esperto di videogiochi e non conosco affatto quello in questione; 2) i fans integralisti del gioco si sono divisi rispetto al film, giudicandolo generalmente fedele in termini di ambientazioni e suggestioni, ma non nella trama; 3) non ritengo che la "fedeltà" sia un requisito essenziale per la buona riuscita, visto che si sta parlando di cinema e quindi di un mezzo completamente diverso che, in generale, dovrebbe godere di una propria autonomia e libertà creativa. Detto questo, Silent Hill è un prodotto notevole, soprattutto dal punto di vista visivo, di grande fascino oscuro, evocativo e spaventoso nelle atmosfere arcane, visionario e ricco di invenzioni angosciose, capaci di mescolare abilmente l'horror psicologico (più raffinato e sottile) con quello macabro, basato su scene orripilanti e creature mostruose. La sua migliore qualità è quella di riuscire ad edificare un mondo di suoni e di immagini che turba, affascina, coinvolge e provoca una totale immersione dello spettatore nel suo sembiante da incubo, virando spesso anche nel fantasy più puro. I suoi difetti sono l'eccessiva lunghezza e il finale tortuoso, appesantito da lambiccate spiegazioni che sarebbe stato meglio evitare. Scegliendo invece un approccio più ambiguo e coraggioso poteva essere un'opera ancora migliore, ma anche così va annoverata tra le originali eccellenze del genere horror del primo decennio del millennio nuovo. Da segnalare il buon cast (in cui citiamo Radha Mitchell, Sean Bean e la piccola Jodelle Ferland) e le ipnotiche musiche della colonna sonora di Akira Yamaoka e Jeff Danna, riprese pari pari dal videogioco. Consigliato per gli amanti del mistery minaccioso o dei mondi da incubo.
 
Voto:
voto: 3,5/5

Pitch Black (2000) di David Twohy

Un'astronave finita in avaria per i danni subiti attraversando un campo di asteroidi, è costretta ad atterrare su un pianeta desertico sconosciuto che, a causa dei suoi tre soli, presenta temperature elevatissime. Tra i sopravvissuti a bordo ci sono una donna esperta pilota (Carolyn Fry) ed un pericoloso assassino (Riddick) che doveva essere condotto in un carcere di massima sicurezza. Mentre i superstiti cercano di riparare i danni alla nave per abbandonare prima possibile l'inospitale pianeta, uno strano fenomeno di eclissi fa allineare tra di loro i tre soli, provocando il calare improvviso di una notte lunga e cupa. Immersi nelle tenebre gli uomini dell'equipaggio si rendono conto di non essere da soli e scoprono una terribile minaccia nascosta nel buio. Questo piccolo film di horror fantascientifico di David Twohy, girato a basso costo, senza particolari pretese e con il tono di un vigoroso "B-movie", è diventato immediatamente un cult alla sua uscita, suscitando subito le simpatie del pubblico e il gradimento della critica, e risultando, non senza sorpresa, uno dei migliori sci-fi prodotti nella prima metà degli anni 2000. Per quanto possa ricordare tante cose uscite in precedenza, riesce a ritagliarsi la sua fiera originalità attraverso delle buone idee, un paio di notevoli invenzioni, delle ambientazioni di grande suggestione, un "cattivo" antieroe di robusto spessore (Riddick), la sagace costruzione della suspense, l'aspetto spaventoso delle creature antagoniste e l'abilità di utilizzare a proprio vantaggio un elemento orrorifico primordiale come il buio. Memorabile la sequenza dell'eclissi, in cui i mostruosi abitanti del remoto sistema compaiono in scena per la prima volta. Al personaggio di Riddick, interpretato con torva ambiguità dal palestrato Vin Diesel, saranno poi dedicati altri due film successivi sempre con la coppia Twohy-Diesel. Oltre al famoso divo di Fast & Furious va segnalata anche la presenza di Radha Mitchell, che ci offre una performance intensa e di forte presenza scenica.

Voto:
voto: 3,5/5

La seduzione del male (The Crucible, 1996) di Nicholas Hytner

Salem, Massachusetts, 1692. Un gruppo di giovani ragazze del posto, guidate dalla esaltata Abigail Williams, si radunano nel bosco di notte e si danno a danze forsennate intorno al fuoco, pronunciando stravaganti incantesimi d'amore. Il motivo di tale comportamento bizzarro, sotto la guida della manipolatrice Abigail, è dare sfogo alla frustrazione che provano a causa della loro realtà bigotta, oppressiva e intollerante, succube di estremismo religioso e di severo maschilismo, in cui le donne sono ridotte al ruolo di serve senza alcun potere decisionale. La "festa" notturna viene però notata dal rigido Pastore del villaggio, che scatena subito un putiferio contro le ragazze, accusandole di stregoneria, idolatria del demonio e convocando un reverendo esperto in materie oscure. Sarà l'inizio di un sinistro gioco di menzogne, sospetti, vendette e atrocità varie, durante il quale i più furbi e i più influenti useranno la potente arma della superstizione e del fanatismo per liberarsi dei propri nemici. Fosco dramma storico di Nicholas Hytner, tratto dal romanzo "Il crogiuolo" del celeberrimo drammaturgo Arthur Miller (che ha anche scritto la sceneggiatura della pellicola), a sua volta ispirato alla reale vicende delle "streghe" di Salem che rese tristemente famosa la piccola città della Contea di Essex, al tempo delle colonie britanniche in Nord America, facendola entrare stabilmente nell'immaginario popolare come luogo di suggestione diabolica, spesso citata in molta letteratura e cinematografia dell'orrore dei secoli successivi. Come il racconto di Miller, il film costruisce con rigoroso realismo un cupo scenario di cieca ignoranza, faziosità morale, ipocrisia puritana e settarismo religioso, per realizzare un veemento manifesto ideologico contro ogni forma di intolleranza e di prevaricazione commesse dall'uomo a danno di altri uomini, in nome di una qualsivoglia dottrina restrittiva. Il libro di Miller, scritto negli anni '50, era ovviamente rivolto al clima politico da "caccia alle streghe" che si viveva negli Stati Uniti durante l'oscuro periodo del maccartismo, utilizzando metaforicamente il passato per accusare il presente ed evidenziare come nulla fosse poi troppo cambiato. E' evidente che questo fondamentale passaggio politico viene del tutto perso dal film, uscito negli anni '90 e, quindi, in uno scenario sociale completamente diverso. Eppure, nonostante tutto, il perverso meccanismo tramite cui il potere utilizza i dogmatismi come strumento di repressione dei suoi oppositori, non è mai sparito e risulta sempre in qualche modo attuale, a livelli diversi. Scritta egregiamente e recitata con puntigliosa efficacia dall'ottimo cast (che annovera nomi come Daniel Day-Lewis, Winona Ryder, Paul Scofield, Joan Allen e Bruce Davison), la pellicola è austera, inquietante e un po' macchinosa, con un finale che eccede nella retorica melodrammatica. Poco apprezzata dal pubblico per la sua lentezza, ottenne tiepidi riscontri critici alla sua uscita, finendo rapidamente nel dimenticatoio. Ebbe due nomination agli Oscar 1997: miglior attrice non protagonista (Joan Allen) e migliore sceneggiatura (Arthur Miller).
 
Voto:
voto: 3/5

martedì 28 settembre 2021

My Beautiful Laundrette - Lavanderia a gettone (My Beautiful Laundrette, 1985) di Stephen Frears

A Londra un giovane pachistano di famiglia benestante, Omar, apre una lavanderia a gettoni, la rimoderna e ben presto gli affari iniziano ad andare a gonfie vele. Di tendenze omosessuali, Omar ha sempre avuto un debole per Johnny, un suo ex compagno di scuola, un simpatico sbandato squattrinato coinvolto con una banda di teppistelli da strada. Johnny accetta di lavorare alle dipendenze di Omar e abbandona la sua gang di balordi. Ma l'amore che sboccia e l'invidia dei bulli compagni di Johnny porteranno guai. Raffinato drama-comedy di Stephen Frears, scritto dal drammaturgo anglo-pachistano Hanif Kureishi e interpretato da un'affiatata squadra di attori, in cui spicca un giovane (ma già bravissimo) Daniel Day-Lewis. E' un film brioso e divertente, squisitamente elegante, ma anche caustico, intelligente, sottilmente pungente nei confronti della società inglese durante il governo di Margaret Thatcher, di cui vengono evidenziate l'ipocrisia moralistica, la discriminazione etnica, il classismo politico e quel magmatico sottobosco di culture, razze, pulsioni, movimenti, religioni, ideologie e tendenze diverse che, spingendo prepotentemente dal basso, annunciavano venti di cambiamento. Tra serio e faceto, con dialoghi vivaci e personaggi coloriti, questo film di compatta semplicità riesce a stuzzicare, a far sorridere e a far riflettere, senza mai eccedere nei toni o sforare nella farsa gratuita, ma tratteggiando uno spaccato metropolitano emblematico con ricchezza di toni, leggerezza inventiva e critico cinismo. Insieme al coevo (e ben più conosciuto e apprezzato) Camera con vista (A Room with a View, 1985) di James Ivory, è il film che ha rivelato al mondo l'immenso talento recitativo di Daniel Day-Lewis. Una candidatura agli Oscar per la miglior sceneggiatura originale (di Hanif Kureishi).

Voto:
voto: 3,5/5

In Bruges - La coscienza dell'assassino (In Bruges, 2008) di Martin McDonagh

Due killer professionisti irlandesi, Ray e Ken, vengono spediti in "vacanza" forzata a Bruges dal loro boss, a causa di un "lavoro" finito male. Ray è giovane, ansioso e tormentato da sensi di colpa, Ken è maturo, eccentrico e curioso. Mentre il primo si chiude in un cupo isolamento, annoiato dalla città che trova insopportabile nei suoi ritmi compassati, il secondo si appassiona alle sue atmosfere fiamminghe, alla sua arte gotica e trascorre le giornate visitando chiese e musei con grande entusiasmo. L'incontro  con una ragazza misteriosa e la telefonata tanto attesa del boss spezzeranno la loro routine di turisti per caso, ma in un modo imprevisto. Frizzante commedia nera scritta e diretta dall'esordiente anglo-irlandese Martin McDonagh, è uno stravagante noir ironico giocato sui contrasti: tra i diversi generi che il regista riesce a mescolare con abilità e tra il tono austero di secolare quiete della splendida città belga (la "Venezia del Nord Europa", che più di uno scenario è un autentico "protagonista" aggiunto) e la coscienza straziata dei due personaggi principali, in particolare il tenebroso Ray interpretato da un ottimo Colin Farrell. E' un mordace film di amicizia virile, quasi del tutto privo di azione ma mai noioso, fondato sulle atmosfere malinconiche, sui dialoghi brillanti, sul sapiente lavoro di scrittura di tutti i personaggi che rende interessanti i comprimari quasi quanto i protagonisti, sulla tensione narrativa che nasce dai conflitti interiori, sul nonsense del male, sulla ricerca disperata di "qualcosa" che si trova ovunque e in nessun luogo, sul senso di morte opprimente che aleggia nascosto e, last but not least, sugli ammiccamenti citazionisti al polar francese (da cui viene ripreso pari pari il tema della solitudine esistenziale del killer). Forse a causa della sua scarsa convenzionalità, dei suoi tocchi stranianti e della violazione di molti stereotipi del genere crime commerciale (a cui quest'opera non appartiene), il film è passato generalmente in sordina, poco conosciuto e poco apprezzato dal pubblico, ma non è sfuggito all'attenzione di alcuni critici europei dal palato fino. Il solido cast è completato da Brendan Gleeson, Ralph Fiennes e Clémence Poésy. Una nomination agli Oscar per la migliore sceneggiatura originale di Martin McDonagh.
 
Voto:
voto: 3,5/5

Frozen river - Fiume di ghiaccio (Frozen River, 2008) di Courtney Hunt

Nella zona di confine tra lo stato di New York e il Quebec canadese, la tenace Ray, lasciata dal marito in pessime condizioni economiche con due figli da crescere e le rate di una casa prefabbricata da pagare, si arrangia come può tra lavoretti saltuari e mille difficoltà. L'incontro con Lila, una giovane pellerossa della comunità dei Mohawk che trasporta clandestini nascosti nel bagagliaio della sua auto, introducendoli abusivamente negli Stati Uniti attraverso il percorso ghiacciato del fiume San Lorenzo, la convince ad entrare nel losco giro, per disperato bisogno di denaro. Questo glaciale dramma d'ambiente, scritto e diretto dall'esordiente Courtney Hunt, è un falso thriller a sfondo sociale che analizza, con rude realismo e dolente rigore, un microcosmo antropologico femminile di reietti che vivono ai margini dell'opulento capitalismo americano, in un luogo remoto e ostile, fatto di sentimenti contrastati e di paesaggi di sterminata desolazione, in perfetta sintonia con l'animo delle protagoniste: aspro, selvaggio e indomito. E' un piccolo film indipendente, lontanissimo dagli stereotipi di Hollywood, girato in poco tempo con un budget esiguo, ma forte di una sceneggiatura solida, una precisa idea narrativa, un tono incisivo e un'attrice eccellente come Melissa Leo, il cui volto fiero e segnato dalle rughe del tempo echeggia quella vecchia America dei pionieri che non si piega e lotta con veemenza contro le ostilità ambientali. Insignito del Gran Premio della Giuria al Sundance Film Festival (la vetrina ideale per un prodotto di questo tipo) e candidato a due Oscar per la migliore attrice (Melissa Leo) e la migliore sceneggiatura (Courtney Hunt), riflette senza seriosità o patetismi su temi importanti come la dignità umana, lo sfruttamento dei più sfortunati, l'intimo senso di umana solidarietà che si può generare tra persone di etnia, estrazione e storia completamente diverse, e, ovviamente, il problema dell'immigrazione (che qui viene trasferito dalla tipica frontiera messicana, fin troppo "saccheggiata" dal cinema recente, alle immense distese ghiacciate del grande nord). Di grande spessore anche l'interpretazione della nativa americana Misty Upham, prematuramente scomparsa a soli 32 anni in circostanze tragiche e ancora poco chiare.
 
Voto:
voto: 3,5/5

lunedì 27 settembre 2021

Silkwood (1983) di Mike Nichols

Karen Silkwood, operaia in una fabbrica dell'Oklahoma che tratta pericolosi materiali radioattivi, è una donna libera e coraggiosa che decide di battersi per i diritti dei lavoratori come lei che rischiano ogni giorno la vita a contatto con sostanze letali. Quando si rende conto di essere stata contaminata dal plutonio, Karen diventa una sindacalista militante e si batte per la tutela della salute degli operai, indagando per conto suo su illeciti e carenze da parte dei padroni della fabbrica che avrebbero messo a rischio la sanità fisica dei dipendenti. Le sue scoperte e la sua azione ardimentosa la metteranno nel mirino dei poteri forti. Indignato e caustico dramma biografico di Mike Nichols, ispirato alla vera storia di Karen Silkwood, e diretto dal regista all'insegna di una lucida sobrietà espressiva che denuncia senza vittimismi, analizza senza retorica e mette in risalto le interpretazioni degli attori (tutti bravissimi), da Meryl Streep a Kurt Russell, da Cher a Craig T. Nelson. E' un film solido e impegnato dalla parte dei più deboli, che argomenta con cognizione di causa e pertinenza dei fatti senza effettismi, evitando strepiti di matrice populistica, ma andando dritto al nocciolo della questione: il potere economico che difende i suoi interessi mettendo a rischio l'incolumità dei lavoratori. Ha molti meriti, tra cui quello, non indifferente, di essere uno dei rari film d'oltreoceano che si assume il rischio di entrare in fabbrica e mettersi nella prospettiva della classe operaia. Ebbe 5 candidature agli Oscar (tra cui la regia di Nichols e le due attrici) e diede alla straordinaria Meryl Streep, fuoriclasse assoluta e senza tempo, la quinta nomination della sua leggendaria carriera (al momento sono ben 21 in totale e credo che non sia ancora finita qui). E' il miglior film del regista del decennio degli 80's ed è consigliatissimo agli amanti del cinema di impegno civile.
 
Voto:
voto: 3,5/5