venerdì 22 settembre 2023

Il sol dell'avvenire (2023) di Nanni Moretti

Giovanni è un regista italiano che sta affrontando un momento di impasse. Sposato da lungo tempo con Paola, produttrice di tutti i suoi film, sembra non accorgersi che sua moglie vive da tempo una forte crisi matrimoniale e sta pensando di lasciarlo. Le sue vicende personali sembrano sovrapporsi, a tratti, con quelle del film che sta girando, ambientato nel 1956 e con protagonista Ennio, giornalista de "L'Unità" e segretario di una locale sezione del Partito Comunista Italiano di un quartiere periferico romano, proprio mentre l'esercito sovietico invade l'Ungheria per reprimere nel sangue i moti rivoluzionari esplosi a Budapest. E, esattamente come gli eventi storici e politici del suo film, anche la vita di Giovanni sembra andare a rotoli: sua moglie medita il divorzio e decide di produrre un film "di genere" di un giovane regista esordiente a lui totalmente antitetico, sua figlia Emma si lega sentimentalmente ad un uomo che potrebbe essere suo nonno, il produttore francese dell'opera in corso (Pierre) dice di aver finito i soldi e gli consiglia di rivolgersi a Netflix e la sua bizzosa attrice protagonista (Vera) vuole a tutti i costi improvvisare una sotto-trama sentimentale nella pellicola, contravvenendo alle sue direttive. Per non soccombere alla cupezza del momento, Giovanni si rifugia totalmente nel potere immaginifico e salvifico dell'arte. Fin dall'annuncio del titolo (bellissimo, potente, nostalgico, evocativo e dolcemente simbolico) sono stati in molti a scommettere che questo nuovo film di Nanni Moretti (il suo 14° da regista) avrebbe avuto un significato particolare ed una posizione strategicamente importante nell'ambito della sua filmografia. Dopo averlo visto molti altri hanno insinuato che questo potrebbe essere addirittura il suo ultimo lavoro dietro la macchina da presa, il suo testamento ed il suo commiato dal pubblico. Interrogato più volte in merito, il Nanni nazionale, notoriamente schivo e a disagio durante le interviste, ha categoricamente smentito con un sorriso sardonico. Staremo a vedere. Intanto è innegabile che Il sol dell'avvenire sia un magnifico compendio ed un grottesco carosello di tutti i temi morettiani, divertito e divertente, più rasserenato che polemico, talvolta autocompiaciuto, attraversato da una sottile malinconia e da un tenero rimpianto per la fine di un'epoca (storica ma soprattutto politica), escheriano nel formalismo strutturale di molte sequenze e riccamente cinefilo attraverso una miriade di omaggi e di citazioni: da Fellini a Kieslowsky, da Ophüls a Demy, passando per i Taviani, Cassavetes, Landis e persino Tarantino (la rilettura fantastica della storia attraverso il potere visionario del cinema). Senza dimenticare l'altrettanto ampia schiera di autocitazioni delle sue opere precedenti, l'omaggio ai suoi attori passati e presenti e l'ironica persistenza delle sue personali ossessioni divenute, nel tempo, autentici marchi di fabbrica: lo sport, la politica, le canzoni di musica leggera, l'avversione per la violenza esplicita sul grande schermo, la concezione romantica e dogmatica di cinema autoriale, la crisi della sinistra, la difesa della cultura "classica" contro la nuova volgare barbarie dell'ignoranza tecnologica, il conflitto tra morale e ideologia, la dimensione privata intersecata con quella pubblica. Ma possiamo senz'altro affermare che, stavolta, a tutti questi elementi se ne aggiunge un altro, non meno importante, anzi forse addirittura più importante: la vitale necessità di continuare a sognare un mondo migliore, di credere che un cambiamento sia possibile e di perdersi, eroicamente, nell'utopia come atto estremo di fede pur di non innalzare la bandiera bianca di resa. Con il solito cast di fedelissimi (lo stesso Moretti, Silvio Orlando, Margherita Buy, con l'aggiunta di volti nuovi come Barbora Bobulova, Mathieu Amalric e Valentina Romani), con l'espressiva fotografia di Michele D'Attanasio e con le musiche di Franco Piersanti (accompagnate dalle consuete hits italiane che l'autore dispensa sempre nelle sue pellicole), il film è un po' favola impegnata e un po' resoconto personale, impreziosito dall'uso creativo del metacinema (il film nel film o il film sognato) e da alcune sequenze irresistibili, che saranno un sollucchero per i fans del regista ed un tormento per i suoi detrattori (su tutte quella, memorabile, della lunga filippica dimostrativa contro la violenza esibita nei film, senza dimenticare l'acida stilettata inferta all'invasione delle piattaforme di streaming). Ma il tutto è ben corroborato da una ventata nuova e fresca, che sa di chiosa di un periodo e che si esplica nel metaforico tourbillon finale che si apre ad uno spiraglio di speranza, o, forse, di chimerica illusione. Ma con un sorriso stampato sul volto, senza dimenticare nessuno e senza lasciare nessuno indietro. Evocando un nuovo giorno e un nuovo sole, più gentile e più giusto, sullo sfondo eterno dei Fori Imperiali e in uno sventolio di bandiere rosse.

Voto:
voto: 4/5

Io capitano (2023) di Matteo Garrone

Seydou e Moussa sono due ragazzi senegalesi di Dakar, da sempre ossessionati dal sogno di evadere dalla loro squallida realtà e di tentare il "grande viaggio" verso l'Europa, per potersi costruire un avvenire migliore e dar seguito alla loro speranza di diventare delle star nel mondo della musica. Nonostante i pareri contrari dei familiari e la messa in guardia da parte di saggi conoscenti incontrati durante la raccolta di informazioni, i due giovani, animati dal fuoco dell'età verde e dalla forza dell'incoscienza, decidono ugualmente di partire di nascosto, dando fondo a tutti i loro risparmi accumulati nel tempo proprio per questo scopo. Ma la loro grande avventura verso la "terra promessa" si rivelerà molto diversa da come se l'aspettavano, assumendo fin da subito connotazioni tragiche e dolorose. Finiti nelle mani dei trafficanti di esseri umani, criminali senza scrupoli e senza morale, i nostri dovranno affrontare pericoli, privazioni, abusi, violenze e umiliazioni: dall'infuocato deserto del Sahara alle disumane carceri libiche, dai ghetti di attesa "terra di nessuno" al mar Mediterraneo, l'ultimo e più periglioso ostacolo che li separa dal grande sogno, con la vita e la morte costantemente appese in bilico come su una lama di rasoio. Questo potente dramma di denuncia sociale di Matteo Garrone, scritto dal regista stesso insieme a Massimo Gaudioso, Massimo Ceccherini e Andrea Tagliaferri, è nato da un'idea dell'autore romano dopo aver letto un fatto di cronaca reale sulla terribile esperienza vissuta da alcuni migranti africani, un racconto che lo ha colpito fin da subito nel profondo. Girato nei luoghi reali, con attori autoctoni non professionisti che hanno recitato in lingua wolof (una delle tante lingue ufficiali parlate in Senegal), in arabo o in francese, Io capitano è un realistico apologo sul delicato ed attualissimo tema umanitario dei migranti, pensato fin dall'inizio come un affilato controcanto rispetto a tutto quello che sappiamo e che siamo abituati a vedere sull'argomento. Garrone spariglia le carte e ribalta gli stereotipi, con un'operazione coraggiosa che affonda le radici nella cronaca ma non dimentica di guardare all'arte. E, in questo caso, l'arte è quella propria del grande regista italiano, già dispensata largamente in una filmografia ricca di capolavori, la cui tipica astrazione contemplativa si colloca a metà strada tra la dura essenza dei fatti, il territorio surreale del Mito (in questo caso l'Odissea omerica) e quello della favola nera, con personaggi archetipali e simbolici o momenti onirici che ribaltano i cliché della materia affrontata e si fanno portatori di un messaggio umanitario di matrice universale, secco e denso, privo di enfasi retorica ma, piuttosto, attraversato da lampi visionari che rendono le immagini indimenticabili, imprimendole a fuoco nella memoria. Non a caso i due protagonisti non scappano da guerre o da situazioni di miseria insostenibile, ma preferiscono abbandonare il loro umile "nido" familiare, pieno di amore, di empatia, di protezione, ma anche di scarsità di prospettive, rischiando la loro vita pur di rincorrere il sogno di un futuro diverso e, forse, migliore. E lo stesso si può dire della scena dello scafista, più umano di tanti suoi simili, che consegna un telefono satellitare ai naviganti disperati, in modo da poter contattare una organizzazione umanitaria di soccorso in caso di necessità. O, ancora, sulla quasi sorprendente assenza di tempeste durante la fatale traversata. Il concetto che Garrone pone alla base di questo crudo racconto, narrato con lucidità e purezza, senza ampollosità né pietismi, senza sermoni morali o intenti polemici, lasciando da parte la politica ma abbracciando pienamente un dignitoso spirito solidale, è quello di invertire il punto di vista tipico delle storie sui migranti, offrendoci in presa diretta e con passaggi che guardano al romanzo documentaristico, la totale prospettiva di chi parte, di chi lascia la propria casa per fare il viaggio della vita, con il miraggio delle coste siciliane al di là del mare. Gli stilemi tipici del regista sono, saggiamente e pudicamente, ridotti al minimo, quasi come un atto di deferenza nei confronti della grande tragedia che sta raccontando e dei tanti che perdono la vita ogni giorno, in mare o nelle sabbie del deserto, poveri corpi anonimi dimenticati da tutti e rispetto ai quali si preferisce far finta di non sapere. Ma, anche se distillate col contagocce, le fugaci sequenze garroniane lasciano il segno ed esplodono come lampi memorabili (la donna soccorsa nel deserto da Seydou, l'apparizione magica della "città" luminosa tra i flutti notturni del Mediterraneo, lo straordinario finale in campo stretto sull'improvvisato capitano), bagliori di vera arte in uno scenario di morte e desolazione. Lodevole l'interpretazione spontanea e veemente dei due giovani attori protagonisti, Seydou Sarr e Moustapha Fall, che si sono donati anima e corpo al progetto con una partecipazione di ammirevole realismo. Presentato in concorso al Festival di Venezia, il film ha ottenuto mèsse di consensi da parte di pubblico e critica ed è stato meritatamente premiato con il Leone d'Argento alla regia per Matteo Garrone e con il Premio Marcello Mastroianni per l'esordiente attore senegalese Seydou Sarr. Scelto come rappresentante italiano ai Premi Oscar 2024 c'è da sperare che non si fermi e che il suo viaggio possa continuare. Fino alla "terra promessa".

Voto:
voto: 4,5/5

Colpo di fortuna (Coup de chance, 2023) di Woody Allen

Jean e Fanny appaiono a tutti come la coppia perfetta: belli, innamorati, felici e benestanti. Vivono in una lussuosa dimora in un elegante quartiere di Parigi, dove lui è un imprenditore di mezza età, di gran classe ma con qualche lato oscuro nel suo passato, e lei è una splendida ragazza con quasi metà dei suoi anni, che lavora in una casa d'aste. L'incontro casuale tra Fanny e Alain, un vecchio e fascinoso compagno di liceo da sempre invaghito di lei, che adesso fa lo scrittore bohémien, provoca uno scossone nel mondo interiore della donna, che inizia a mettere in discussione la sua vita e a riscoprire antiche emozioni che credeva dimenticate. L'opus numero 51 della straordinaria e prolifica carriera di Woody Allen regista (invero composta da 50 lungometraggi più un episodio del film corale New York Stories del 1989) è un dramma sentimentale che vira nel thriller e nel noir, privo di momenti comici, ideato e scritto (come sempre) dallo stesso Allen, magnificamente fotografato da Vittorio Storaro (alla sua quinta collaborazione con l'autore newyorkese), ambientato a Parigi e girato (per la prima volta nella filmografia del regista) interamente in lingua francese. Diretto con stile asciutto e tocco essenziale, ben interpretato dai quattro attori principali (Lou de Laâge, Valérie Lemercier, Melvil Poupaud e Niels Schneider) e carico di atmosfere autunnali, è un piccolo compendio di temi alleniani, nuovamente rivisitati fedelmente alla coerente estetica dell'autore: la difficoltà dei rapporti di coppia, l'importanza fondamentale del caso nelle nostre vite, il conflitto tra ragione e sentimento e, ultimo ma non meno importante, il dark side della "bella società" declinato attraverso l'atavica formula "delitto e castigo". Pur in maniera meno evidente, Allen non rinuncia a citare altri suoi tipici marchi di fabbrica: l'amata New York da cui è stato costretto a "esiliare" cinematograficamente (evocata con nostalgico affetto nei racconti di Fanny e Alain), le nevrosi esistenziali e di coppia (tutte presenti nel personaggio di Fanny) o l'omaggio ad una delle sue "muse", Diane Keaton, su cui il personaggio di Aline (la diffidente e ficcanaso madre di Fanny) è chiaramente modellato. Quello che però manca del tutto è il lampo di genio, lo scatto inaspettato, la battuta fulminante o il climax drammatico o beffardo che ci ricorda perchè Allen è Allen e perchè viene unanimemente considerato come uno dei più grandi registi americani di sempre. Il film arriva al suo emblematico finale con geometrico fatalismo, procedendo in chiaroscuro senza particolari alti o bassi e risultando, in definitiva, meno ispirato e meno folgorante delle migliori opere di Allen, lasciando la netta sensazione di un tenue rimpasto d'autore più malinconico che arguto. Presentato in anteprima, fuori concorso, all'80° Festival di Venezia è stato accolto freddamente dalla critica d'oltre oceano (ormai quasi interamente ostile all'autore per i noti trascorsi giudiziari e scandalistici), ma decisamente meglio dal pubblico presente alla rassegna e dai critici europei. La "vecchia" Europa è ormai, da lungo tempo, il solido feudo culturale in cui Allen ha ricostruito l'ultima fase della sua carriera artistica, eternamente avversa a Hollywood ma con la "sua" amata New York sempre nel cuore.

Voto:
voto: 3/5

giovedì 21 settembre 2023

Assassinio a Venezia (A Haunting in Venice, 2023) di Kenneth Branagh

Il detective Poirot, stanco di una vita di brillanti indagini vissuta sempre all'ombra della morte, si è ritirato in esilio volontario a Venezia per trascorrere in pace i giorni che gli restano, assoldando un ex poliziotto come guardia del corpo personale per tenere lontani gli invadenti clienti potenziali che non gli danno tregua. Una sua vecchia amica, Ariadne Oliver, famosa scrittrice di romanzi gialli che sembra aver perso il suo tocco magico, gli fa visita per coinvolgerlo in una seduta spiritica che si tiene nella notte di Ognissanti in un lugubre palazzo veneziano, che si dice infestato dai fantasmi di sfortunati bambini che vi hanno trovato la morte durante un'antica epidemia di peste nera, e la cui proprietaria è adesso una bella signora inglese, Rowena Drake, ex soprano che ha perso l'amata figlia in un tragico e misterioso incidente. Nonostante qualche iniziale reticenza, Poirot accetta di partecipare all'evento con lo scopo di smascherare la celebre medium Joyce Reynolds, che lui, alla luce del suo annoso scetticismo e della sua arguzia intellettuale, ritiene essere un'abile millantatrice che si approfitta del dolore altrui. Ma durante la notte, con i numerosi partecipanti costretti gioco forza nella vecchia residenza a causa di una tempesta epocale che impazza all'esterno, una serie di incredibili avvenimenti mettono a dura prova l'incredulità del nostro investigatore e, quando ci scappa puntualmente il morto, Poirot si vede costretto a tornare in pista per guidare l'indagine e far luce sui terribili eventi. In attesa di un'alba ristoratrice. Terzo capitolo della "saga" su Hercule Poirot, sempre diretto e interpretato da Kenneth Branagh e nuovamente scritto da Michael Green, adattando stavolta (invero molto liberamente) un romanzo poco conosciuto di Agatha Christie, "Hallowe'en Party" del 1969, pubblicato in Italia con il titolo "Poirot e la strage degli innocenti". L'ambientazione letteraria originale (la nebbiosa brughiera inglese) viene spostata nella suggestiva location veneziana, puntualmente rappresentata con un approccio molto all'americana, mentre la collocazione temporale (il 1947) viene invece rispettata. A parte questo il film trae solo alcuni spunti guida dalla vicenda narrata dalla Christie, ma poi se ne discosta ampiamente, inserendo anche elementi e citazioni da altri romanzi della famosa giallista britannica. Il risultato finale è un film cupo e inquietante, che flirta apertamente con l'horror gotico e cede il passo al classico giallo whodunit solo nella seconda parte; un'opera sostanzialmente in linea con le due precedenti portate in sala dall'autore, con un ricco cast che, oltre all'istrione Branagh con immancabili baffi posticci, annovera Kelly Reilly, Michelle Yeoh, Tina Fey, Jamie Dornan, Camille Cottin e anche il nostro Riccardo Scamarcio, e che è concepita all'insegna di un intrattenimento superficiale e sempliciotto, annegando il fascino classico del mondo della Christie in uno stile più svelto e moderno. Le ambientazioni tetre da ghost story e le atmosfere gotiche sono il punto di forza della pellicola, ma gli effetti spaventosi si soffermano ai cliché del genere e l'intreccio giallo risulta un tantino tortuoso, così come la sua risoluzione appare affrettata e schematicamente riduttiva. L'interessante tentativo di umanizzare sempre di più il protagonista Poirot, soffermandosi sul suo passato, sui suoi demoni interiori e sui suoi tormentati dubbi ben celati sotto una facciata di raggelante logica, risulta più velleitario che centrato, perchè il Branagh regista lavora troppo di sciabola e poco di fioretto, evitando puntualmente le sfumature sottili. Sono da lodare le suggestive musiche angoscianti composte dalla violoncellista islandese Hildur Guðnadóttir, già premiata con l'Oscar per il suo lavoro nel fortunato Joker (2019) di Todd Phillips.

Voto:
voto: 2,5/5

giovedì 14 settembre 2023

As bestas: La terra della discordia (As bestas, 2022) di Rodrigo Sorogoyen

Una coppia di francesi, Antoine e Olga, si trasferisce in un piccolo villaggio di campagna della Galizia spagnola, dove acquistano una fattoria per dedicarsi all'agricoltura eco-sostenibile e si dedicano alla rimessa in sesto di vecchi ruderi diroccati, con l'idea di aprire un agriturismo. Ma i rozzi abitanti locali non vedono di buon occhio i nuovi arrivati, in particolare la famiglia del rude Xan si dimostra estremamente ostile verso i due, specialmente dopo che Antoine esprime un voto contrario all'installazione di un grande impianto eolico nella zona, facendo così perdere ai residenti nativi la speranza di poter trarre un lauto guadagno economico dall'operazione. In breve l'atteggiamento di Xan e di suo fratello diventa sempre più minaccioso, dando origine ad un'autentica faida di cui sarà sempre più difficile controllare gli esiti. Il sesto lungometraggio dello spagnolo Rodrigo Sorogoyen, da lui anche scritto insieme a Isabel Peña, è un cupo dramma socio ambientale con risvolti da thriller, che denuncia apertamente la xenofobia atavica spesso radicata in luoghi dominati da arretratezza di vedute, gretta ignoranza e chiusura ideologica, ispirandosi ad un tragico fatto di cronaca realmente avvenuto nel 2010 nel villaggio galiziano di Santoalla a danno della coppia di olandesi formata da Martin Albert Verfondern e sua moglie Margo Pool (a cui la pellicola viene espressamente dedicata nei crediti finali). Con una regia asciutta e rigorosa ed una sottile carica di tensione strisciante, che aleggia minacciosa fin dalla prima emblematica sequenza della "Rapa das Bestas" (antica tradizione galiziana secondo cui alcuni uomini, detti "aloitadores", affrontano a mani nude i cavalli bradi per sottometterli e rasare loro la criniera), Sorogoyen tratteggia un lucido e amaro apologo sulla natura umana e sulla selvaggia brutalità ancestrale ad essa intrinseca, pronta a liberarsi con effetti drammatici in presenza di particolari condizioni (storiche, sociali, contestuali), in cui morale, comprensione e benevolenza vengono ottenebrate da ottuse logiche tribali. Attraverso una lunga serie di immagini semplici quanto potenti nel loro denso simbolismo, l'autore mette in scena un piccolo trattato visivo sull'homo homini lupus, sulla paura del "diverso" e dello "straniero", sullo scontro di classe tra mondo rurale e mondo intellettuale, senza mai smarrire la compattezza tematica e la finezza concettuale. E se i personaggi maschili sono, in gran parte, relegati nell'alveo di quella ferina bestialità invocata fin dal titolo, sono le figure femminili a rappresentare saggezza, sensibilità e resilienza, in accordo a quel cinema naturalistico, fatto di sentimenti e di contrasti, tipico dello stile del regista spagnolo. Da sottolineare anche la graffiante critica rivolta alle forze dell'ordine, inadeguate ed ignave, incapaci di sintonizzarsi fin da subito sulla gravità del problema più volte denunciato dai coniugi francesi, addirittura da loro "accusati", tra le righe, di aver favorito l'ostilità degli autoctoni grazie ad un presunto atteggiamento di superiorità culturale e intellettuale. Da lodare altresì le musiche di Olivier Arson, la fotografia di Álex de Pablo e le intense interpretazioni del cast principale, tra cui citiamo Marina Foïs, Denis Ménochet, Luis Zahera e Marie Colomb.

Voto:
voto: 4/5

mercoledì 13 settembre 2023

Pusher - L'inizio (Pusher, 1996) di Nicolas Winding Refn

A Copenaghen Frank è uno spacciatore che sguazza nel sottobosco criminale della capitale danese, circondato da loschi e degni compari anche peggiori di lui. Deciso a dare una svolta alla sua carriera di pusher, convince il serbo Milo a farsi dare a credito una grossa partita di eroina, convinto di smerciarla facilmente e ricavare un cospicuo guadagno, con cui pagare il trafficante e tenere il resto per sé. Ma le cose non vanno come previsto e Frank finisce per perdere sia la droga che i soldi. Si ritrova così, suo malgrado, nel mirino di Milo e della polizia e deve inventarsi rapidamente qualcosa per salvarsi la vita. Interessante esordio registico del danese Nicolas Winding Refn, che ha anche scritto il film insieme a Jens Dahl, con questo thriller crime cupo e crudo, girato in patria a basso costo ma già con una chiara concezione di cinema (nonostante la sua totale mancanza di esperienza sul campo), a metà strada tra l'apologo cinico, la denuncia sociale e il sordido romanzo criminale. Denso, asciutto e serrato nei suoi 105 minuti di durata, il film ci immerge, senza enfasi e senza sconti, nella tetra realtà di un microcosmo di violenza e di miseria morale, un mondo oscuro popolato da personaggi spietati e selvaggi che vivono ai margini della società civile, reietti brutali e maledetti che ormai sembrano avere ben poco di umano. Il racconto si snoda nella settimana infernale e cruciale della vita di Frank, realisticamente calato in ambientazioni torbide e degradate (i quartieri malfamati di Copenaghen, immortalati soprattutto di notte), che sono ben più di un semplice scenario di sfondo, ma diventano quasi una sorta di inquietante personaggio aggiunto. Con uno stile algido e asettico, e con la macchina da presa che ossessivamente pedina il protagonista, ponendo così lo spettatore in sintonia con la sua situazione tragica e disperata, la pellicola scorre tesa e impietosa, offrendo ben pochi ripari emotivi (l'incontro di Frank con la madre, il suo amore per la bella Vic), che hanno anche la funzione in antifrasi di accentuare l'angoscia del presente, lasciando intravedere, in beffardo contrasto, la remota possibilità di una vita alternativa migliore. Bene interpretato da un cast di attori poco famosi ma estremamente credibili (Kim Bodnia, Zlatko Buric, Laura Drasbæk ed un giovane Mads Mikkelsen), il film è stato distribuito nel nostro paese soltanto nel 2007 ed ha avuto due seguiti (sempre diretti da Refn), Pusher II - Sangue sulle mie mani (Pusher II, 2004) e Pusher 3 - L'angelo della morte (Pusher III, 2005), nonché un remake britannico: Pusher (2012) di Luis Prieto.

Voto:
voto: 3,5/5

venerdì 8 settembre 2023

La scomparsa di Alice Creed (The Disappearance of Alice Creed, 2009) di J Blakeson

Due ex detenuti, il giovane Danny e il più maturo Vic, organizzano un piano perfetto per il rapimento a scopo di estorsione di Alice Creed, figlia di un ricco imprenditore. I malviventi approntano per l'occasione una stanza di un appartamento, rendendola una prigione insonorizzata, e studiano nei minimi dettagli ogni mossa per portare a compimento il colpo criminoso. Con un'azione rapida e decisa riescono a sequestrare Alice e la recludono nella camera legata ad un letto. Ma la vittima si dimostra tanto bella quanto scaltra e meno che mai arrendevole, e, grazie alla sua abilità, riuscirà a complicare notevolmente il progetto dei suoi carcerieri, facendo emergere una serie di sorprendenti segreti. Avvincente thriller di suspense scritto e diretto dall'esordiente regista inglese J Blakeson, claustrofobico nelle ambientazioni, torbido nelle situazioni, ambiguo nei sottotesti e costantemente sul filo di una tensione strisciante che lascia presagire verità nascoste e colpi di scena. Forte di una solida sceneggiatura, di dialoghi serrati, di pulsioni che strisciano sotto pelle e delle ottime interpretazioni dei tre soli attori in scena (Gemma Arterton sensualmente grintosa, Eddie Marsan lucidamente intenso e Martin Compston emotivamente tormentato), il film avvince lo spettatore dall'inizio alla fine giocando finemente sulla psicologia dei personaggi e mettendone a nudo gradualmente, attraverso una progressione geometrica di twist, la personalità, le motivazioni, le fragilità ed i lati oscuri. Il rapporto introspettivo, crudele, drammatico e talvolta morboso, che si instaura tra vittima e carnefice ed il beffardo agire del destino, che impunemente si diverte a scompigliare le pianificazioni degli uomini attraverso imprevisti improvvisi, fanno da vibrante contrappunto teorico celato tra le pieghe del racconto, contaminando il genere crime di connotazioni psicoanalitiche. In Italia il film non è mai stato distribuito nelle sale ed è passato in sordina anche dopo la sua uscita in home video, ma meriterebbe il recupero, specialmente da parte degli appassionati del genere. Le riprese in esterni (invero non particolarmente numerose) si sono svolte nella caratteristica cornice geografica dell'Isola di Man, nel mare d'Irlanda.

Voto:
voto: 3,5/5

Quando Dio imparò a scrivere (Los renglones torcidos de Dios, 2022) di Oriol Paulo

Nel 1979 la giovane Alice Gould viene ricoverata in un ospedale psichiatrico per il suo stato di pericolosa paranoia, con l'accusa di aver tentato di uccidere suo marito. La lettera di presentazione redatta dal suo medico curante la descrive come una donna molto intelligente, scaltra, bipolare e abile nella manipolazione del prossimo. Alice non ci mette molto ad imporre la sua personalità all'interno della clinica, stabilendo rapporti privilegiati con altri pazienti e con membri del personale sanitario, ma trova sempre un suo scettico antagonista nel primario Samuel Alvar. Lei è convinta di essere una detective privata, ingaggiata da un potente uomo d'affari per indagare sulla misteriosa morte di suo figlio avvenuta tempo prima all'interno della clinica, e introdottasi nella struttura sotto mentite spoglie per scoprire la verità, agendo segretamente dall'interno. Ma le drammatiche esperienze che dovrà affrontare durante il suo ricovero metteranno più volte in discussione ogni cosa, rendendo incerto il confine tra realtà e immaginazione. Questo psico-thriller spagnolo di Oriol Paulo, tratto dal romanzo omonimo di Torcuato Luca de Tena, è un complesso giallo a incastro in bilico costante tra ragione e follia, mondo esteriore e mondo interiore, che strizza l'occhio al fantastico, flirta con l'horror e solletica le emozioni dello spettatore attraverso personaggi ambigui, atmosfere claustrofobiche, continui colpi di scena che ribaltano completamente la situazione ed un intreccio narrativo che, nel finale, diventa cervellotico. E' un mistery inquietante e affascinante, diretto con mano sapiente e stile elegante, forte della notevole interpretazione di Bárbara Lennie (praticamente perfetta nel ruolo della protagonista, enigmatica, ammaliante, tormentata e determinata) e di un cast di supporto di validissimi "comprimari" (tra cui spicca un imponente Eduard Fernández), che però deve scontare una scarsa originalità (le somiglianze con diversi film del passato di questo tipo si sprecano, ma evitiamo di citarli esplicitamente per non rovinare in alcun modo la visione) e alcune svolte della trama macchinosamente forzate, che, sommate alla lunghezza non banale della pellicola (154') potrebbero costringere lo spettatore a complicati "ripensamenti" in merito alla "risoluzione" della trama. Va però anche detto che uno dei twist è di grande effetto e lascia letteralmente di sasso anche il più esperto in materia di thriller deduttivi. Insomma alla fine non tutto quadra alla perfezione, ma quello che quadra è di ottima fattura e di fine suggestione. Il titolo (traducendo letteralmente l'originale, "le linee storte di Dio") si riferisce ad una frase pronunciata dal dottor Alvar, in cui traccia un significativo paragone tra la calligrafia del nostro ipotetico creatore e i malati di mente.

Voto:
voto: 3,5/5

mercoledì 6 settembre 2023

Oppenheimer (2023) di Christopher Nolan

Nel 1926 Julius Robert Oppenheimer è un giovane studente di fisica presso l'università di Cambridge, brillante, arguto, affascinato dalle teorie di Bohr e dall'emergente meccanica quantistica, di cui sarà uno dei primi e più attivi sostenitori tra gli americani, contribuendo in maniera decisiva alla sua diffusione negli Stati Uniti. Uomo complicato e anticonformista, Oppenheimer ha una vita molto attiva anche al di fuori della scienza, frequentando circoli intellettuali, avvicinandosi all'ideologia comunista, sostenendo la causa politica dei ribelli spagnoli contro il franchismo e impelagandosi in burrascose relazioni sentimentali con belle donne, con le quali riscuote un largo successo. Nel 1942, durante la Seconda Guerra Mondiale, viene messo a capo del team scientifico del "progetto Manhattan", per costruire, nella location segreta di Los Alamos (Nuovo Messico), la prima arma nucleare per un possibile utilizzo bellico contro il nemico nazista o giapponese. Dopo il successo dell'operazione, Oppenheimer diventa famosissimo ma, nel 1954, è costretto a difendersi dalle gravi accuse che lo indicano come spia sovietica per i suoi "pericolosi" trascorsi giovanili. Il suo principale avversario è il potente politico Lewis Strauss, ex direttore della AEC (la Commissione americana per l'energia atomica), che ha sempre visto in lui un personaggio scomodo ed un possibile capro espiatorio dei suoi svariati magheggi. Il primo film biografico di Christopher Nolan è un dramma storico lungo e denso, idealmente diviso in tre parti (la giovinezza, Los Alamos e le commissioni d'inchiesta), liberamente ispirato al racconto "Robert Oppenheimer, il padre della bomba atomica" di Kai Bird e Martin J. Sherwin, da cui lo stesso Nolan ha tratto la ricca sceneggiatura. È un film importante, impegnativo ed elegante, visivamente pregevole, narrativamente dettagliato, concettualmente maturo, storicamente preciso, ideologicamente graffiante nella sua lucida disamina contro il potere (militare, burocratico e soprattutto politico), stilisticamente sopraffino, magnificamente interpretato da un cast stellare e latore di un messaggio eticamente inappuntabile nella sua riflessione caustica sul conflitto tra progresso scientifico e valori morali. Ma è anche un'opera altalenante e non priva di difetti, vedi un montaggio troppo frenetico che rende la prima parte confusa e difficile da seguire (specialmente per gli spettatori poco ferrati con la storia americana di quel periodo e con il gran numero di personaggi implicati nella vicenda) o un utilizzo eccessivamente enfatico del sonoro, che viene usato (stavolta in luogo della colonna sonora) come potente mezzo espressivo, ma risulta talvolta fuori misura. Un altro appunto che si può muovere è l'abuso di effetti didascalici nei momenti visionari, con diverse sequenze che strizzano l'occhio al cinema recente di Terrence Malick, tra cui però va salvata la scena straniante dell'amplesso "in pubblico", che è anche una piacevole novità rispetto allo stile tipico del regista. Il finale, poderoso quanto prevedibile per il suo dovuto senso etico, ha un chiaro sapore didattico, ma è anche inevitabile rispetto alla filosofia anti-sistema che sostiene il film. Due menzioni speciali sono da attribuire: innanzi tutto alla recitazione di alto livello di una grande squadra di attori, in cui spiccano un finalmente ritrovato Robert Downey Jr. (dopo i suoi trascorsi "leggeri" nelle pellicole Marvel), il tormentato protagonista Cillian Murphy, la sempre affidabile Emily Blunt ed una intensa Florence Pugh, che purtroppo viene relegata ad un ruolo marginale per quello che, potenzialmente, era uno dei personaggi più ambigui ed interessanti. E poi non si può non lodare il magistrale lavoro dell'intero comparto tecnico: l'opera è stata girata su supporto IMAX da 70 mm, utilizzando, per la prima volta, sequenze in IMAX con fotografia in bianco e nero, e gli effetti speciali sono stati realizzati prediligendo nettamente sistemi "artigianali" e riducendo al minimo la computer grafica. Il risultato è sontuoso e, per questo, si consiglia la visione del film in una sala attrezzata al meglio per dare più risalto possibile alle tecnologie coinvolte. Gli stilemi usuali dell'autore (il montaggio espressivo, l'uso pregnante del sonoro e la frammentazione temporale) sono ovviamente tutti presenti e stavolta pienamente al servizio della storia, al netto di qualche sporadica indulgenza nell'eccesso autoreferenziale. La pellicola ha riscosso un grande (e per certi versi sorprendente) successo sia commerciale (nonostante il fatto che negli Stati Uniti sia uscito con un "rated R") sia di critica e sarà sicuramente una protagonista di eccellenza ai prossimi premi Oscar del 2024. La Warner Bros. (un tempo abituale major produttrice dei film di Nolan, sostituita dalla Universal dopo l'aspra diatriba con il regista) avrà sicuramente molto da rimpiangere in merito.

Voto:
voto: 4/5