mercoledì 30 agosto 2017

Somewhere (Somewhere, 2010) di Sofia Coppola

Johnny Marco è una star del cinema americano che vive una vita all'insegna del lusso e dei divertimenti sregolati tra la suite del prestigioso hotel Chateau Marmont di Hollywood, dove abita, automobili potenti, un via vai di ragazze disponibili, festini con alcool e droghe e fans adoranti. Il suo dorato torpore viene scosso dall'arrivo di Cleo, la figlia undicenne frutto di un matrimonio fallito, con la quale il nostro non ha mai avuto un vero rapporto. Il tempo trascorso insieme alla ragazzina provoca uno scossone emotivo nell'uomo, che inizia a interrogarsi su sè stesso, sulla sua vita e sul suo ruolo nel mondo. E anche per il viziato e privilegiato attore arriva il momento di porsi la domanda fatidica: cosa farò da grande ? Il quarto lungometraggio di Sofia Coppola (che lo ha scritto, prodotto e diretto) è un sottile dramma psicologico che ci parla di vuoto interiore, di alienazione esistenziale, di adolescenza ritardata fino all'inverosimile per una condizione di invidiabile benessere economico che consente di evitare lo scontro con la vita vera, smarrendosi tra agi, vizi e piaceri materiali. Il mondo descritto della regista è un non luogo, un limbo surreale, un labirinto di solitudini solo apparentemente scintillante, ma che nasconde profondi disagi e amarezze inconfessabili. Questo non luogo, in cui i protagonisti si muovono sospesi come pesci in un acquario, è in bilico tra il ritratto sarcastico di un ambiente (Hollywood) e l'analisi di un personaggio simbolico che rappresenta il prototipo di uomo occidentale benestante e superficiale. Il non luogo, efficacemente tratteggiato dall'autrice con un'estetica a metà tra il soffuso e il patinato, si trova inevitabilmente "somewhere", da qualche parte, ma altrove rispetto al sentire comune. Affascinante, malinconico, ipnotico, minimale, è un film di suggestioni e di sguardi, di fragilità e di incertezze, ellittico nella sua ambiguità narrativa, impervio nella raffigurazione della noia, tenero nell'evoluzione del rapporto umano tra Johnny e Cleo, con un padre inadeguato ma anche imbarazzato di fronte alla figlia, a cui si approccia con la dolcezza antica di un innamorato. Il finale aperto, che si ricollega idealmente all'inizio ma in modo nettamente diverso (il girotondo senza senso diventa un percorso rettilineo), intende suggerire che, in fondo, l'importante è il viaggio e non la meta, perchè nella vita tutti dobbiamo andare da qualche parte, anche se non sappiamo esattamente dove. Carico di elementi autobiografici, di una scarna essenzialità e di uno stile basato sulla ripetizione insistita, è il film più importante e riuscito della Coppola che non si è mai dimostrata finora così libera e audace nella sua visione. Nel cast citiamo Stephen Dorff, Elle Fanning, Michelle Monaghan e uno stuolo di brevi cameo di attori (di cui parecchi italiani) come Laura Chiatti, Benicio del Toro, Jo Champa, Nino Frassica, Maurizio Nichetti e Valeria Marini. Presentato in concorso alla 67° Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia, l'opera fu premiata con il prestigioso Leone d'oro al miglior film (non senza contestazioni) dalla giuria presieduta da Quentin Tarantino.

Voto:
voto: 4/5

L'amante giovane (Nous ne vieillirons pas ensemble, 1972) di Maurice Pialat

Jean, cineasta di mezza età dal carattere spigoloso, è sposato con Françoise e ha una relazione con la giovane Catherine, bella e paziante, che ne tollera le intemperanze per amore. Ma l'uomo tratta sempre  peggio la ragazza, proiettando su di lei la rabbia e le delusioni del matrimonio fallito con Françoise. Stanca del rapporto sfiancante a senso unico, Catherine decide di troncare la relazione. Melodramma introspettivo di rigoroso realismo e di lucida analisi psicologica, straordinario nel disegno dei personaggi e nella messa in scena non convenzionale all'insegna di un originale minimalismo. Costruito sui dialoghi e sui silenzi, sui gesti e sugli sguardi, è un racconto autobiografico carico di pulsioni trattenute sull'inesorabile deterioramento di un rapporto sentimentale che spiazza per lo sguardo cinico e atipico dell'autore, che riesce a sorprenderci ad ogni svolta narrativa. Nel gioco al massacro tra i due amanti, che appaiono figure specularmente opposte eppure complementari nei momenti armoniosi, con lui autoritario, nevrotico e autodistruttivo e lei sensuale, comprensiva e sottomessa, l'autore realizza un affresco dolente delle imperfezioni umane, vivisezionandone gli aspetti più intimi, le asperità deteriori, le depressioni profonde, i risentimenti repressi, gli slanci erotici e gli impulsi sadici. Attraverso sequenze magistrali per costruzione geometrica e tensione emotiva (come quella in cui Jean in automobile osserva Catherine attraverso lo specchietto retrovisore), Pialat riesce a rendere con plastica suggestione simbolica il senso di allontanamento sentimentale tre i due amanti, opponendolo alla prossimità fisica. L'amante giovane è un film complesso, sfuggente e bellissimo di un regista talentuoso e purtroppo misconosciuto, che merita assolutamente il recupero e la visione. L'attore Jean Yanne fu premiato al 25º Festival di Cannes per la migliore interpretazione maschile.

Voto:
voto: 4/5

martedì 29 agosto 2017

Alfredo, Alfredo (Alfredo, Alfredo, 1972) di Pietro Germi

Alfredo Sbisà, timido bancario di provincia, si innamora, si fidanza e convola a nozze con la bella Mariarosa. Ma dopo il matrimonio la ragazza amplifica i suoi difetti, rivelandosi ossessivamente possessiva e sessualmente vorace, portando il nostro allo sfinimento psicofisico. Quando Mariarosa rimane incinta inizia la psicosi da iperprotezione del nascituro e Alfredo viene mandato a dormire in cantina, riottenendo un po' della sua perduta indipendenza. L'incontro con lo spirito libero Carolina, di cui diventa rapidamente l'amante, restituisce ad Alfredo la gioia di vivere, fino a quando la gravidanza della moglie non si rivela il frutto di una fissazione isterica. Per paura di ripiombare di nuovo nel precedente strapazzo sessuale e di perdere i contatti con Carolina, l'uomo diventa ardente attivista della causa divorzista alla vigilia del relativo referendum per confermare la legge che consente lo scioglimento dei matrimoni. Grazie alla vittoria dei favorevoli al divorzio, Alfredo coglie la palla al balzo per rompere il legame con l'assillante Mariarosa. Ma, una volta tornato scapolo, la liberale Carolina si fa sotto con discorsi matrimoniali. L'ultimo film del grande Pietro Germi è un'esilarante commedia acida sui temi del matrimonio, del divorzio e dell'amore libero, particolarmente di moda negli anni '70 grazie ai rapidi mutamenti di costume favoriti dai venti di ribellione sessantottini. Brioso, agile e spigliato, il film è però anche una parabola amara sui rapporti di coppia e sull'ipocrisia che regola la presunzione di eterna fedeltà, in cui il naturale pessimismo dell'autore sul genere umano assume la forma di una astiosa misoginia. Molto ispirato il trio di interpreti principali, con la presenza eccellente del divo americano Dustin Hoffman (convinto dal ben noto carisma di Germi a partecipare alla produzione) a cui si affiancano le brillanti Stefania Sandrelli e Carla Gravina. Immancabile la presenza del fidato Saro Urzì, attore feticcio del regista, nei panni del padre di Mariarosa. Interamente girato ad Ascoli Piceno e raccontato in flashback mentre Alfredo è in tribunale in attesa del divorzio da Mariarosa, il film ebbe un buon successo di pubblico e si aggiudicò il David di Donatello come miglior pellicola italiana dell'anno.

La frase:
- "Dove sei ? Cosa fai ?"
- "Sono qui, sul cesso, a fare la cacca!"

Voto:
voto: 3,5/5

Serafino (Serafino, 1968) di Pietro Germi

Il giovane solare e spensierato Serafino Fiorin, pastore del gregge del gretto zio Agenore e della mite zia Gesuina, viene congedato anzi tempo dal servizio di leva perchè mentalmente ritardato e torna beatamente tra i monti del suo paesello abruzzese. Nonostante il suo fare da tonto, il nostro ha grande successo con le donne e intrattiene simultaneamente una relazione con la cugina Lidia e la prostituta Asmara. Dopo la morte prematura della zia Gesuina, Serafino, che era il nipote prediletto, eredita tutti i suoi averi e diventa improvvisamente ricco. Mentre il giovane spende e spande con maldestra generosità, il suo benessere economico lo fa diventare oggetto di attenzione di tutto il paese, che intende approfittarsi della sua inettitudine. Intanto l'avaro zio Agenore prima riesce a farlo interdire (per paura che dilapidi tutto il patrimonio ereditato) e poi pretende il matrimonio riparatore con la figlia Lidia, dopo aver scoperto la tresca tra i due. Ma Serafino è imprevedibile nella sua scanzonata spontaneità e sorprenderà tutti i compaesani. Divertente commedia rurale a metà strada tra l'elogio della semplice vita campagnola e il sarcastico dileggio della stessa, attraverso una graffiante satira sociale che mette sulla graticola l'ipocrisia bigotta e la rapace meschinità della piccola provincia paesana. Il contrasto tra l'idilliaca bellezza naturale del piccolo borgo agreste e la miseria morale dei suoi abitanti, in cui Serafino è il solo spirito puro perchè rimasto infantile nonostante l'età adulta, appartiene inequivocabilmente allo stile caustico del regista genovese. Tuttavia il tono è disinvolto e leggero, in accordo all'indole del protagonista, e la pellicola inciampa spesso in un becero folclorismo. Nel cast svetta uno sciolto ed efficace Adriano Celentano, capace di dar vita a un irresistibile Serafino, a parte il macchiettistico tentativo di emulazione del dialetto abruzzese. Accanto a lui citiamo Ottavia Piccolo, Francesca Romana Coluzzi, Saro Urzì e Gino Santercole. Il film ebbe un ottimo successo di pubblico, soprattutto grazie all'appeal di Celentano, il cui nome sul cartellone è stato sempre una garanzia per gli incassi al botteghino nazionale. Della colonna sonora di Carlo Rustichelli è rimasta la canzone "La storia di Serafino", cantata dal popolare "molleggiato" ed entrata poi a far parte delle sue hits.

Voto:
voto: 3/5

Il ferroviere (Il ferroviere, 1956) di Pietro Germi

La travagliata vita di  Andrea Marcocci, macchinista delle ferrovie, lavoratore instancabile, uomo burbero con il vizio dell'alcool e una situazione familiare piena di contrasti. La figlia Giulia, da lui spinta a sposare un uomo che non ama, partorisce un figlio morto e, in collera con il padre, si dà a una vita dissoluta. Il figlio maggiore Marcello, sfaticato e coinvolto in loschi affari, dopo i continui litigi decide di lasciare la casa paterna e seguire il suo destino. Solamente la moglie e il figlio minore Sandro restano sempre dalla parte del capofamiglia. L'investimento accidentale di un suicida, che si butta sotto le ruote del treno, e un disastro ferroviario sfiorato, provocano un'inchiesta ai danni di Andrea, che viene abbandonato persino dai suoi colleghi che lo accusano di essere un crumiro. Duramente provato nella psiche e nel corpo, il nostro si abbandona al bere e alle donne di malaffare, fino ad ammalarsi seriamente di cuore. Memorabile e intenso dramma proletario tratto da un racconto autobiografico: "Il treno" di Alfredo Giannetti, autore anche della sceneggiatura insieme a Luciano Vincenzoni e Pietro Germi, che, oltre a dirigere il film, interpreta anche magnificamente il ruolo del protagonista. La lucida potenza dell'affresco sociologico della forza lavoro salariale italiana degli anni '50 è di enorme impatto emotivo, grazie alla straordinaria capacità dell'autore di raccontare i problemi e le contraddizioni del paese attraverso uno spaccato ambientale per poi farlo diventare collettivo, con un'analisi introspettiva di magistrale pregnanza. Per quanto alcuni critici ci abbiano voluto vedere tracce di moralismo sentimentalistico da libro "Cuore", Il ferroviere è il più alto risultato del Germi neorealista, un capolavoro sospeso tra analisi sociale, melodramma familiare, crudo verismo, tragedia esistenziale, calda compassione, delicata poesia e sincera commozione. Il regista si conferma un fuoriclasse come narratore popolare di elevato spessore contenutistico e di fiero impegno civile, sempre in sintonia con i sentimenti del pubblico ed i mutamenti sociali del paese. Tra i tanti temi affrontati nella pellicola vanno ricordati: la difficile condizione del proletariato, le lotte sindacali, la disgregazione dell'antico modello di famiglia patriarcale dovuta al rapido cambiamento dei costumi e alla maggiore flessibilità degli atavici principi morali, i conflitti intergenerazionali, il contrasto tra tradizione e progresso. In una società ormai protesa verso il boom economico e percorsa da fremiti di emancipazione e rinnovamento, il vecchio ferroviere Andrea Marcocci incarna quell'ideale di uomo all'antica ("col risvolto dei pantaloni", per usare le parole di Germi) ormai obsoleto, reazionario, ingombrante e incapace di adeguarsi alle frenetiche trasformazioni che avvengono intorno a lui. E in tal senso va letto il finale, da alcuni accusato di compiacimento melodrammatico: il tramonto di un'epoca, di un modello sociale e di un'idea di vita. Il grande successo di pubblico diede ragione al regista e dimostrò che, a volte, il gusto popolare riesce a guardare più lontano della critica colta, per via della maggiore libertà da sovrastrutture ideologiche. Nel cast, oltre al protagonista Pietro Germi, vanno citati Sylva Koscina, Luisa Della Noce, Saro Urzì e Carlo Giuffré. Questo film è per molti versi accostabile, per intenti, tematiche e cuore narrativo, ad un altro capolavoro che uscirà quattro anni dopo: Rocco e i suoi fratelli di Luchino Visconti.

Voto:
voto: 4,5/5

Il cammino della speranza (Il cammino della speranza, 1950) di Pietro Germi

In un piccolo paese siciliano la chiusura di una solfatara fa perdere il lavoro a tante persone, mandando le relative famiglie in mezzo alla strada. Il losco faccendiere locale Ciccio si offre di aiutarli, promettendo l'espatrio clandestino in Francia dietro il compenso di ventimila lire ciascuno. Durante il lungo viaggio della speranza il truffatore si dilegua a Roma, dopo un litigio con l'animoso Vanni che provoca l'intervento della polizia. I poveri emigranti ricevono il foglio di via e l'ordine di tornare al loro paese, ma molti di loro decidono di rischiare, continuando il viaggio piuttosto che ripiombare nella miseria più nera da cui sono fuggiti. Tra stenti, tensioni interne al gruppo e storie d'amore che nascono, i disperati arrivano al confine con la Francia dove vengono bloccati dai finanziari, in attesa di prendere una decisione sul loro destino. Epopea degli umili di Germi sotto forma di melodramma neorealista dai toni epici, tratto dal romanzo "Cuore negli abissi" di Nino Di Maria. Per quanto non sempre equilibrato e talvolta eccessivo nelle sue ridondanze folcloristiche, è una veemente e appassionata denuncia del problema della disoccupazione postbellica e della difficile condizione sociale del meridione d'Italia, tenuto regolarmente al di fuori dai progressi economici del resto del paese. Lucido nella messa in scena di una miseria rabbiosa, qua e là retorico nelle sue indulgenze sentimentali, vale soprattutto come dolente documento d'epoca e come nobile testimonianza storica di un'Italia meschina, affamata, vilipesa e calpestata. Questi fatti tragici accadevano appena 70 anni fa e dovrebbero far riflettere tutti coloro che li hanno dimenticati troppo in fretta e adesso sbandierano intransigente ostilità rispetto al complesso fenomeno dell'immigrazione dal così detto "terzo mondo". Premiato con l'Orso d'argento al Festival di Berlino e osteggiato dalle istituzioni che lo ritenevano latore di un'immagine eccessivamente degradante per il "belpaese", non è collocabile tra i capolavori del regista ma merita assolutamente la visione per i tanti momenti di grande cinema e le numerose sequenze memorabili (specialmente nella prima parte siciliana che è di un realismo crudo e scioccante). Tra i membri di spicco del cast ricordiamo Raf Vallone, Elena Varzi, Saro Urzì e Franco Navarra. Splendide le musiche di Carlo Rustichelli e Franco Li Causi, con menzione speciale al celeberrimo inno popolare siciliano "Vitti 'na crozza", composto da Li Causi, che divenne famoso a livello nazionale grazie a questo film.

Voto:
voto: 3,5/5

lunedì 28 agosto 2017

In nome della Legge (In nome della Legge, 1949) di Pietro Germi

Sicilia, 1948: Guido Schiavi, giovane magistrato di poca esperienza è inviato come pretore in un paese dell'entroterra per combattere la mafia locale. Accolto con ostilità e diffidenza da tutti tranne che dal giovane Paolino, il funzionario si trova subito coinvolto in un'indagine per omicidio che si dimostra impervia a causa della diffusa omertà dei cittadini, tutti sottomessi al potente barone Lo Vasto, padrone della solfatara che dà lavoro all'intero paese. Quando il barone decide di chiudere la miniera, Schiavi si batterà come un leone per far rispettare la legge e cercare di salvare tante famiglie dalla disoccupazione. Straordinaria, spettacolare e avvincente opera di Germi, tratta dal romanzo autobiografico "Piccola pretura" del magistrato Giuseppe Guido Lo Schiavo, capace di fondere magistralmente la denuncia sociale, l'impegno civile, la testimonianza storica e il dramma d'azione poliziesco. Il regista si conferma narratore di classe sopraffina nel mantenere in equilibrio i toni, gli umori e le contaminazioni di questo film vigoroso ed entusiasmante che è girato esteticamente come un western fordiano (con evidenti ammiccamenti al capolavoro assoluto Sfida infernale). Al posto delle desertiche vallate del vecchio West ci sono gli scenari aspri e infuocati delle aree interne siciliane, la lotta tra mafiosi e difensori della legge sostituisce quella tra banditi e sceriffi, il personaggio di Guido Schiavi sembra ricalcare a tratti quello di Wyatt Earp, con l'interpretazione di Massimo Girotti che spesso imita quella di Henry Fonda nei silenzi e negli sguardi fissi in macchina da presa. E' anche un film storicamente importante nella nostra cinematografia in quanto magnificamente "primo". Primo film nostrano a parlare esplicitamente di mafia (intesa come organizzazione criminale, mentalità atavica e connivenza sociale) e primo "western" italiano del periodo post bellico (il primo in assoluto fu Una signora dell'Ovest (1941) di Carl Koch). Il finale fortemente ambiguo costò aspre critiche al regista per la presunta rappresentazione "romantica" del fenomeno mafioso, regolato da regole tribali e concetti di onore discutibili ma, al tempo stesso, degni di rispetto per l'assoluta "fede" che gli adepti ripongono in essi. Tutto questo va però a confermare il coraggio, la libertà creativa e la personalità artistica di un autore tra i più grandi del nostro cinema, capace di scrivere pagine indimenticabili nella storia della "settima arte". Da elogiare l'intero cast, che annovera Massimo Girotti, Charles Vanel, Saro Urzì, Camillo Mastrocinque, Jone Salinas e Umberto Spadaro. Nonostante le polemiche (talvolta strumentali) il film ebbe un notevole successo di pubblico e va annoverato senza alcun dubbio tra i capolavori di Germi.

Voto:
voto: 4,5/5

Che ora è? (Che ora è?, 1989) di Ettore Scola

Marcello, avvocato sessantenne ricco, giovanile ed affermato, si reca a Civitavecchia, dove suo figlio Michele, fresco laureato in lettere, timido e umile, sta terminando il servizio militare. L'uomo intende trascorrere una giornata con lui per recuperare il tempo perduto, conoscerlo meglio e cercare di trovare quel dialogo che, per colpa delle sue assenze, non hanno mai avuto. Quando Marcello cerca di ingraziarsi il figlio promettendogli due regali di grande valore materiale (una macchina di lusso e un appartamento signorile a Roma), questi ha una reazione imbarazzata e scostante, preferendo un dono più modesto ma significativo dal punto di vista sentimentale: l'orologio d'argento di suo nonno ferroviere che gli ispira felici ricordi d'infanzia. Nonostante le buone intenzioni del padre, la sua invadenza e la sua scarsa sensibilità finiscono per irrigidire ulteriormente il rapporto, specialmente quando l'uomo cerca di infangare la reputazione della madre di Michele, a cui lui è particolarmente legato, sperando di portarlo dalla sua parte. Intanto le ore passano in fretta e si avvicina il momento del congedo, con Marcello che ha da prendere un treno per Roma. Dramma silente, opaco e umorale sulla difficoltà della relazione padre-figlio e, più in generale, sulla complessa comunicazione intergenerazionale. Il film procede placidamente tra alti e bassi, affidandosi più alla bravura degli interpreti (Marcello Mastroianni e Massimo Troisi, entrambi premiati ex aequo al Festival di Venezia con la Coppa Volpi per la migliore interpretazione maschile) che ad un reale intreccio narrativo. Diversi dialoghi brillanti alternati a momenti di stanca, ma il duetto tra i due protagonisti (e quindi tra due diverse generazioni di attori e due modi totalmente antitetici di recitare) è proficuo e ricco di spunti di interesse. C'è chi ha trovato Troisi troppo legato all'essenza partenopea per un ruolo del genere, ma la sua bravura e la spontaneità della sua mimica sono fuori discussione e vanno al di là dell'idioma. Nel cast figurano anche Anne Parillaud e Lou Castel. La Civitavecchia livida e autunnale è un protagonista aggiunto, arbitro impassibile e indifferente rispetto allo scorrere del tempo.

Voto:
voto: 3/5

La più bella serata della mia vita (La più bella serata della mia vita, 1972) di Ettore Scola

Alfredo Rossi è un industriale romano che esporta illegalmente capitali nelle banche svizzere. A causa di un ritardo trova chiuso l'istituto di credito e non riesce ad effettuare un deposito di cento milioni di lire. Mentre vaga alla ricerca di un albergo viene attratto da una splendida motociclista bionda e si lancia al suo inseguimento con la sua auto di grossa cilindrata. Rimasto in panne per un improvviso guasto al motore in una zona montuosa, il nostro trova riparo in un castello dove viene ospitato per la notte. Qui ritrova la misteriosa bionda, che fa la cameriera nel maniero e dice di chiamarsi Simonetta, e quattro stravaganti magistrati in pensione che, durante la cena, gli imbastiscono uno strano processo, a metà tra il gioco e la sfida. Nonostante qualche titubanza iniziale Rossi accetta la competizione perchè interessato a corteggiare l'avvenente Simonetta che sembra ben lieta della cosa. Durante il dibattimento l'industriale viene riconosciuto colpevole di ogni forma di corruzione, rapacità e persino dell'omicidio del suo predecessore in azienda e i quattro padroni di casa lo condannano a morte senza appello. Ma si tratta davvero di un gioco ? Affascinante commedia surreale che, tra comicità e dramma, si avvale di toni grotteschi ed echi kafkiani per costruire una paradossale satira di costume su certi malcostumi italiani. Non a caso viene scelto come protagonista Alberto Sordi, mattatore insuperabile della commedia all'italiana e maschera di straordinaria versatilità nella rappresentazione simbolica dei vizi del "belpaese". Va però riconosciuto che, in questo caso, la scelta di Sordi, che va sempre sopra le righe con il suo travolgente istrionismo, si è rivelata una nota stonata rispetto alle atmosfere del film, sospese tra il magico, lo straniante, il ridicolo e l'inquietante. Ben più asciutta e calibrata l'interpretazione di quattro vecchie glorie del cinema francese, come Michel Simon, Charles Vanel, Claude Dauphin e Pierre Brasseur, nei panni dei giudici inquisitori. Impossibile non citare altresì la sensuale Janet Agren, così bella da lasciare senza fiato. Particolarmente suggestive le musiche di Armando Trovajoli e le scenografie di Luciano Ricceri. Tratto dal romanzo "La panne. Una storia ancora possibile" di Friedrich Dürrenmatt (ma con un finale completamente diverso e forse addirittura migliore per la sua connotazione fantastica e beffarda), questo film di Scola viene solitamente collocato tra le opere minori dell'autore. Ma, in realtà, trattasi di una sottile ed originale parabola metaforica che ondeggia tra l'assurdo e l'angosciante, una fiaba nera che mescola abilmente il mistery, la denuncia sociale, l'onirico e il metafisico per declamare un roboante e simbolico atto di accusa al "signor Rossi", ovvero all'italiano medio. Scola si conferma un maestro di eclettismo, innovazione e lucida corrosività.

Voto:
voto: 4/5