martedì 28 febbraio 2017

Barriere (Fences, 2016) di Denzel Washington

Pittsburgh, anni ’50: Troy Maxson è un netturbino di colore, bellicoso chiacchierone che si batte quotidianamente contro le discriminazioni razziali. Sposato con la devota Rose, ha anche un’amante, un amico inseparabile e due figli contro cui combatte ostinatamente perché non ne condivide le aspirazioni di carriera (uno musicista jazz e l’altro giocatore di baseball). Uomo sfrontato e rancoroso, Troy dovrà presto fare i conti con i suoi errori e con le asperità del suo carattere, mettendosi contro tutti i suoi cari. Intenso dramma familiare diretto e interpretato dal divo Denzel Washington, che ha adattato scrupolosamente l’omonima opera teatrale di August Wilson del 1983, premiata con il premio Pulitzer per la drammaturgia. Curiosamente Wilson viene accreditato anche alla sceneggiatura della pellicola, nonostante sia deceduto nel 2005. L’origine teatrale viene minuziosamente rispettata in un film lungo, verboso e ambientato quasi interamente in uno spazio scenico ristretto: il cortile di casa Maxson dove Troy si adopera in predicozzi e invettive, mentre è intento a tirar su quel recinto, voluto dalla moglie, simbolo materiale delle “barriere” del titolo. Barriere fisiche, barriere sociali, barriere familiari e, soprattutto, barriere esistenziali, perché non è mai chiaro se la recinzione serve a proteggere chi resta dentro o ad escludere chi resta fuori. Su questo sottile gioco ambivalente si costruisce l’intero film, concepito come una lunga sequenza di scene madri, alcune ben riuscite ed altre ampollose. E’ essenzialmente un film di attori: bravo Denzel Washington nei panni dell’esuberante protagonista, bravissima Viola Davis, premiata con l’Oscar alla miglior attrice non protagonista per la sua appassionata interpretazione di Rose Lee Maxson, ago della bilancia di una famiglia allo sbando. La forte connotazione tetrale dell’opera, unita a una messa in scena ripetitiva che ne asseconda la dimensione domestica, ne costituisce, al tempo stesso, il punto di forza e di debolezza. Lodevole l’introspezione psicologica dei personaggi principali, segno di una maggiore maturità registica di Denzel Washington rispetto alle sue due opere precedenti. Nel 2010 Washington e la Davis avevano già interpretato con successo i medesimi ruoli nella versione teatrale di “Fences” a Broadway.

Voto:
voto: 3,5/5

lunedì 27 febbraio 2017

Jackie (Jackie, 2016) di Pablo Larraín

Il 22 novembre 1963 il presidente americano John F. Kennedy viene assassinato a Dallas mentre sfila su un’auto decappottabile durante il corteo presidenziale. Al suo fianco c’è la giovane moglie Jacqueline, detta Jackie, che mantiene sulle ginocchia la testa insanguinata del marito, martoriato da numerosi colpi di fucile, durante l’ultima drammatica corsa verso l’ospedale. Il film racconta le concitate e dolorose vicende nei giorni successivi all’attentato dal punto di vista della celebre First Lady: dalla preparazione dei funerali di stato alla necessità di consolare i piccoli figli, dalla conciliazione tra immagine pubblica e vita privata fino alla vigilia della sua definitiva uscita dalla scena politica. Biografia anomala e dissonante del cileno Pablo Larraín, che realizza un suggestivo ritratto in chiaroscuro di un’icona americana del secolo scorso, tra mistero e potere, glamour e storia, fragilità e seduzione, mito e cronaca. La Jackie di Larraín, interpretata con dolente intensità da Natalie Portman, incarna perfettamente i contrasti e le contraddizioni di un periodo storico che, attraverso lo scioccante omicidio di JFK, segnò il tramonto definitivo di quell’epoca ingenua di contagioso ottimismo che aveva a lungo cullato la mitologia del Sogno Americano e l’immagine del “Nuovo Mondo” come grande patria della democrazia e nume tutelare della pace mondiale. L’intento del regista è la demolizione (artistica) degli stilemi di un genere fortemente codificato come il biopic, attraverso una serie di sottili sfasature stranianti che intrecciano il mondo interiore della protagonista con la realtà oggettiva, dando vita a una lunga spirale di suggestioni deformate che ci offrono la prospettiva di Jackie attraverso il suo sguardo tormentato. Tramite questo processo l’autore cerca il cuore nascosto della First Lady, offrendocene gli aspetti regali, fragili, eleganti, risoluti ed ambigui, in un caleidoscopio interiore che rifugge ogni tentazione agiografica e che non cerca mai di stabilire la tranquillizzante connessione empatica con lo spettatore. Molto interessante è la pragmatica consapevolezza del personaggio di Jackie nel porre massima attenzione all’immagine, già consapevole di quanto questa sia fondamentale nella costruzione di un mito come quello del marito ucciso, un presidente sacrificato sull’altare dell’American Dream e consacrato all’iconografia popolare ben oltre gli effettivi meriti del suo breve mandato. Meno convincente è, invece, la parte finale dell’opera, in cui Larraín adotta un poco ispirato stile Malick per raffigurare gli stati d’animo della protagonista attraverso il suo errare spettrale tra i grandi saloni della Casa Bianca o nei giardini cimiteriali, quasi proiettata verso un cupio dissolvi che è posto in forzata distonia con la dimensione favolistica dell’epilogo, in cui si ricordano i bei momenti della presidenza Kennedy con l’accostamento al mito di Camelot. Un espediente narrativo ad effetto che però appare un po’ stiracchiato nella sua ellissi concettuale e meno agile rispetto allo stile introspettivo della parte iniziale. Oltre alla Portman, candidata all’Oscar come miglior attrice protagonista per la sua interpretazione, completano il cast Peter Sarsgaard, Greta Gerwig, Billy Crudup ed il grande John Hurt, scomparso poco dopo l’uscita in sala del film.

Voto:
voto: 3,5/5

Fai bei sogni (Fai bei sogni, 2016) di Marco Bellocchio

Fai bei sogni” è la frase di congedo pronunciata, di notte, da una giovane madre mentre rimbocca le coperte al suo unico figlio, Massimo, di nove anni. Dopo quella frase la donna muore in circostanze poco chiare e l’infanzia e la vita di Massimo resteranno segnate per sempre dal peso di quell’assenza e dall’alone di mistero che ha sempre avvolto, nella sua memoria, quel traumatico distacco. Siamo nella Torino di fine anni ’60, dove Massimo crescerà tra un padre anaffettivo, la passione per il Torino calcio e la costante ricerca negli occhi della gente di quella madre perduta, prima di diventare un affermato giornalista. Una volta adulto egli decide di vendere la casa dei genitori in cui è cresciuto, ma, nella dolorosa operazione di catalogazione di tutti i ricordi di una vita, riaffioreranno, laceranti, le ferite del passato e il nostro dovrà decidersi, infine, ad affrontarle a viso aperto. Dall’omonimo romanzo autobiografico di Massimo Gramellini, vicedirettore de “La Stampa”, Bellocchio ha tratto un cupo e malinconico dramma raffreddato sul tema dell’assenza, della separazione e di come i traumi infantili segnano la nostra vita in maniera indelebile. La scelta di un regista ribelle, anticonformista e allegorico come  Marco Bellocchio, di adattare un’opera letteraria di grande successo e basata su sentimenti “semplici” come quella di Gramellini, ha inizialmente suscitato non poche perplessità nei critici italiani. Ma tutti i timori sono stati perentoriamente spazzati via da questo film magistrale raccontato con la densa efficacia del narratore di razza. Un film sapientemente costruito a due livelli costantemente intervallati: il passato e il presente, ovvero l’infanzia del protagonista (raffigurata come una favola nera in stile horror gotico, tramite i richiami a Belfagor e Nosferatu) e l’età adulta (che ha i tratti di un’indagine analitica alla ricerca di sé in un groviglio spinoso di ricordi che hanno assunto i tratti dell’ossessione). Nel costante rapporto simbiotico tra le due parti narrative, le emozioni fluiscono liberamente con un moto osmotico, generando un magma di pulsioni e sentimenti contrastati e contrastanti, una sorta di analisi a cuore aperto sulla difficile elaborazione interiore di un dolore. Senza mai andare sopra le righe o alzare la voce, l’autore ci accompagna, con tono sommesso, in questo sofferto viaggio, tra patema e nostalgia, al fianco del suo protagonista, ben interpretato da un intenso Valerio Mastandrea, a cui si affiancano Bérénice Bejo, Guido Caprino e Miriam Leone. E nella puntigliosa descrizione ambientale di una Torino sabauda, grigia, “falsa e cortese”, Bellocchio si concede anche il lusso di un inserto surreale (lo straniante incontro con il faccendiere di Fabrizio Gifuni), un momento magico (la lezione nel planetario del saggio professore di Roberto Herlitzka, attore “feticcio” del regista), uno scherno satirico (l’accenno alla retorica nell’accorata lettera pubblicata da Massimo sulle colonne de “La Stampa”), un ricordo dolce amaro (praticamente tutte le sequenze dell’infanzia del protagonista). Con il saldo equilibrio della maturità artistica e con la libertà formale del ribelle pacificato, il grande regista di Bobbio fa i conti, ancora una volta, con i temi cardine della sua estetica: il rapporto madre-figlio, il male di vivere, la fede religiosa, i cambiamenti sociali del “belpaese”. E, in questo modo, riesce a sublimare, interiorizzare e far propria persino un’opera autobiografica così profondamente sentita come quella di Gramellini, congedandosi con un memorabile epilogo magniloquente che chiude idealmente il cerchio emotivo della vicenda attraverso un delicato insieme di assonanze metaforiche: la sparizione e il nascondino, la dolce culla della memoria e la scatola di cartone.

Voto:
voto: 4/5

venerdì 24 febbraio 2017

La vedova nera (Black Widow, 1987) di Bob Rafelson

Alexandra Barnes è un agente federale che indaga sulla morte improvvisa (e apparentemente naturale) di tre uomini ricchi e da poco sposati con una ragazza più giovane che, in tutti e tre i casi, è sparita nel nulla dopo aver ereditato la fortuna del consorte. La tenace Alexandra è convinta che le morti siano, in realtà, degli omicidi e che dietro ci sia sempre la stessa donna che cambia identità. La nostra si mette sulle sue tracce e giunge alle isole Hawaii, dove conosce l’affascinante Catharine, sua sospettata numero uno, che sta per sposarsi con Paul, magnate e playboy del luogo. Ma le cose si complicano quando Alexandra finisce tra le braccia di Paul, cedendo al suo fascino, e la situazione diventa ancora più pericolosa. Torbido noir al femminile diretto con sottile tensione erotica dall’esperto Rafelson, che tratteggia abilmente uno scenario tanto intrigante quanto inverosimile. Il titolo evocativo chiarisce fin da subito la dinamica dell’assassina bella e letale, grazie al paragone con il famigerato aracnide, la cui femmina prima si accoppia e poi uccide il partner, inoculandogli il terribile veleno. Il film ha molti ammiratori e la sua capacità di costruire un conturbante patos a sfondo erotico è innegabile, anche grazie al physique du rôle delle due interpreti principali: Debra Winger (attrice di spicco negli anni ’80 grazie a diversi ruoli che sono rimasti nella memoria) e Theresa Russell (perfetta nei panni della dark lady spietata e maliarda). Peccato che il tutto venga un po’ infiacchito da due innegabili punti deboli: il finale consolante e la mancanza di approfondimento dell’evidente attrazione (psicologica ma anche sessuale) tra le due donne. Poli opposti che si attraggono o facce diverse dalla stessa medaglia ? Lo sviluppo di questo aspetto sarebbe stato un valore aggiunto e avrebbe conferito alla pellicola una straniante (e fertile) ambiguità tematica.

Voto:
voto: 3,5/5

Allied - Un'ombra nascosta (Allied, 2016) di Robert Zemeckis

1942, durante la seconda guerra mondiale: l’ufficiale dei servizi segreti Max Vatan, franco-canadese al servizio degli “alleati”, viene mandato in missione segreta a Casablanca, dove dovrà prendere contatto con la spia francese Marianne Beausejour, fingersi suo consorte e, con il suo aiuto, eliminare l’ambasciatore tedesco in Marocco. L’operazione ha successo, i due s’innamorano, tornano a Londra, si sposano sul serio e danno alla luce una bambina. Ma un’amara sorpresa incombe sulla loro relazione e l’ombra del sospetto trasformerà ben presto l’idillio in un inferno. Patinato dramma bellico targato Zemeckis, che omaggia i classici, ammicca al glamour hollywoodiano che tanto piace al pubblico mainstream e contamina la Storia con un’estetica fin troppo contemporanea per essere credibile. I due divi protagonisti, Brad Pitt e Marion Cotillard, funzionano a fasi alterne: il primo è troppo ingombrante e la seconda è spesso scialba. Persino la chimica tra i due non convince mai appieno e le scene d’amore appaiono ora forzate ora pacchiane (il sesso in macchina durante la tempesta di sabbia è un imperdonabile scivolone per un regista navigato come Zemeckis). Anche la suspense, che dovrebbe essere il punto di forza della seconda parte “hitchcockiana”, risulta indebolita da soluzioni narrative assai prevedibili, con inevitabile finale strappalacrime che sarà gioia e tormento degli irriducibili amanti del kleenex da sala. Più che un film brutto è un film fragile e banale, che cerca maldestramente di far convivere l’incanto nostalgico per il cinema d’antan con la cinica asprezza dei giorni nostri, dando vita ad un pastiche insipido che si autoimmola allo charme divistico dei due protagonisti.

Voto:
voto: 2,5/5

mercoledì 22 febbraio 2017

Moonlight (Moonlight, 2016) di Barry Jenkins

Chiron è un afroamericano mite e introverso che vive in un problematico quartiere periferico di Miami, con una madre alcolizzata che non riesce a tenerlo lontano dai pericoli della strada. Durante la sua infanzia è vessato dai bulli, che lo eleggono a vittima ideale, ma trova conforto nel sincero legame con il duro Juan, uno spacciatore che lo prende in simpatia e gli vuol bene come fosse il padre che non ha mai avuto. Nel periodo adolescenziale  Chiron è sempre più confuso, tra pulsioni omosessuali e la ricerca del proprio spazio individuale, con la dura lotta quotidiana per non soccombere ai soprusi dei tanti prepotenti che affollano il suo sobborgo violento e degradato. Anche l’amicizia “speciale” con Kevin lo costringerà a fare i conti con la durezza della vita e la sua vera natura, perchè Chiron non vuol essere vittima ma neanche carnefice e troverà il modo di ribellarsi ad un sistema che non ne tollera la diversità. Intenso dramma sociale, diretto con lirica introspezione da Barry Jenkins, che descrive con vivido realismo una realtà che conosce alla perfezione: i ghetti neri di Miami, sua città natale. Il film è ispirato alla pièce teatrale di Tarell Alvin McCraney “In Moonlight Black Boys Look Blue”, che letteralmente significa “sotto la luce della luna i ragazzi neri sembrano blu”. Il regista costella il racconto di elementi autobiografici, fa espressamente citare il (bel) titolo dell’opera ispiratrice a uno dei protagonisti (Juan) e ne ricerca costantemente l’altezza poetica, pur nello squallore urbano in cui la vicenda è ambientata. Il film è diviso in tre segmenti lineari che rappresentano tre fasi della vita del protagonista (infanzia, adolescenza, età adulta) e che portano per titolo tre diversi nomi con cui egli viene di volta in volta chiamato (“Little”, “Chiron” e “Black”). Pur nelle pieghe di un aspro apologo impressionista sulla ricerca della propria identità sociale e sessuale (assolutamente struggente, in tal senso, la sequenza in cui il piccolo Chiron chiede a Juan il significato della parola “checca” e come fare a capire se lui lo è), l’opera alterna momenti di sincera emozione ad altri di didascalico naturalismo, con la costante sensazione di un tentativo di artificiosa estetizzazione. Dei tre segmenti il migliore è l’ultimo, con il serrato dialogo nel ristorante tra i due vecchi amici ritrovati, che lascia sottilmente trasparire il patos interiore e l’attrazione fisica che covano sotto la cenere del conformismo e dell’imbarazzo. Bravissimi tutti gli attori: da Trevante Rhodes ad André Holland, passando per il piccolo Alex Hibbert, con una menzione speciale per Mahershala Ali e Naomie Harris, entrambi candidati all’Oscar come non protagonisti. Il film ha avuto ben otto nomination agli Academy Awards 2017 (film, regia, sceneggiatura, attore e attrice non protagonista, montaggio, fotografia, colonna sonora) ed è stato premiato con tre statuette "pesanti" (film, sceneggiatura e Mahershala Ali). Con un approccio registico più sincero e distaccato sarebbe stata una pellicola di gran lunga migliore.

Voto:
voto: 3,5/5

lunedì 20 febbraio 2017

Manchester by the Sea (Manchester by the Sea, 2016) di Kenneth Lonergan

Lee Chandler è un solitario attaccabrighe in fuga dai fantasmi di un tragico passato da cui non riesce a liberarsi. Calpestato da rimorsi e rimpianti l’uomo abita in uno squallido seminterrato di Boston e sopravvive facendo umili lavoretti per gli inquilini di un condominio. La morte del fratello maggiore Joe, malato di cuore, lo costringe a tornare nella città del suo passato, Manchester-by-the-Sea, dove lo stupefatto Lee scopre di essere stato nominato tutore legale del nipote adolescente Patrick, unico figlio di Joe. Il frastornato Lee dovrà lottare tra l’amore per il ragazzo e la sua incapacità di accettare quella vita da cui era fuggito. Ormai non c’è più dubbio che il meglio del cinema americano contemporaneo proviene quasi sempre dal circuito indipendente, lontano dalle regole oppressive delle major hollywoodiane che sacrificano agilmente la qualità dei contenuti e la libertà artistica sull’altare del profitto. E non fa eccezione questo potente dramma autunnale di Kenneth Lonergan: un film asciutto, teso e maturo che riflette con stile sussurrato sulle tragedie familiari e sull’irrevocabilità del destino. La splendida ambientazione costiera del nord est degli Stati Uniti, con la sua fredda luce, il suo mare grigio e i suoi cieli limpidi che richiamano i paesaggi scandinavi, fa da cornice “vivente” a una storia di sommessa disperazione e di dolente solitudine, raccontata con sapiente lucidità dall’autore, in perfetto equilibrio tra asprezza e compassione. Senza mai alzare la voce ma con lo sguardo perennemente basso come quello del protagonista egregiamente interpretato da Casey Affleck (che, in quanto a talento recitativo, dista anni luce dal più celebre fratello Ben), il regista newyorkese, novello cantore di un’umanità schiacciata dal peso della vita, ci sintonizza sui ritmi e sui tempi di Lee, per svelarci gradualmente il suo mondo e i suoi tormenti, senza mai giudicarlo né compiangerlo, ma accompagnandolo nel suo doloroso percorso con passo felpato. Straordinaria la scelta stilistica di collocare a metà film la scena madre di maggiore intensità emotiva, quella che svela tutti i perché, asciugandone ogni tentazione sentimentale ma affidandola, pietosamente e lievemente, a uno struggente commento musicale classico che quasi copre le voci dei personaggi. Fedele a una messa in scena sobria ma non asettica, scrupolosa ma non gratuita, la pellicola non cerca catarsi, non “ricatta” mai il pubblico con il pietismo lacrimevole, né ambisce a consolatorie risoluzioni finali. Mira, piuttosto, con approccio garbatamente problematico, a suscitare una fertile riflessione nello spettatore, perché le cicatrici veramente profonde non possono mai rimarginarsi del tutto. Sarebbe allora il caso di dire al pubblico: lasciate a casa i fazzoletti ma utilizzate piuttosto testa, cuore e pancia, per digerire a piccole dosi questo film che ti entra sotto la pelle, anche nei giorni successivi alla visione. Un film adulto, misurato, raffinato e minuzioso nella cura del dettaglio. Un film che fa bene al cinema americano. Sei candidature agli Oscar 2017 (film, regia, attore protagonista, attore non protagonista, attrice non protagonista, sceneggiatura), due statuette vinte (sceneggiatura e Affleck) ed un cast ispiratissimo in cui, al già citato Affleck junior si aggiungono Lucas Hedges, Michelle Williams e Kyle Chandler.

Voto:
voto: 4/5

La battaglia di Hacksaw Ridge (Hacksaw Ridge, 2016) di Mel Gibson

Virginia, anni ’40: il giovane Desmond T. Doss, volenteroso idealista innamorato della bella infermiera Dorothy, decide di arruolarsi nell’esercito per servire il suo paese nella seconda guerra mondiale. Ma Desmond è un convinto obiettore di coscienza, contrario all’uso delle armi e animato da una profonda fede cristiana. La saldezza delle sue convinzioni è stata cementata dalla difficile situazione familiare (dovuta a un padre violento ubriacone spezzato nell’animo dagli orrori della “grande guerra”) e da un incidente domestico che ha segnato per sempre la sua infanzia. Desmond dovrà scontrarsi con l’ostilità e la diffidenza di commilitoni e superiori, che non riescono a comprendere le sue idee, ma, grazie a una volontà di ferro accompagnata da un’incredibile forza morale, riuscirà a rendersi utile alla causa come soccorritore medico in prima linea e diventerà un eroe durante la sanguinosa battaglia di Okinawa, in cui salverà 75 uomini senza mai utilizzare un’arma. Spettacolare dramma bellico, tratto dalla vera storia di Desmond T. Doss e diretto con mestiere da Mel Gibson, che qui trae ispirazione diretta dai film di guerra del periodo classico, zeppi di enfasi drammatica e di mitizzazione eroica filoamericana. Dal punto di vista tecnico è un film notevole, specialmente nelle sequenze di battaglia rappresentate con un furore visivo ed un cruento realismo che non può lasciare indifferenti. Peccato però che il film risenta di tutti i difetti tipici del cinema del celebre attore regista, a quanto pare momentaneamente tornato in auge dopo i chiacchierati trascorsi personali che lo avevano reso persona “non gradita” a Hollywood. In tal senso la pellicola è quasi paradigmatica dell’estetica di Gibson: retorica, radicale, fideistica, violenta, manichea. E se l’azione drammatica nelle (lunghe) scene di combattimento è di ottima fattura, i momenti sentimentali sono banali, l’intera parte dell’addestramento è a forte effetto déjà vu e l’introspezione del personaggio principale e dei suoi conflitti interiori si sofferma a malapena alla patina superficiale. Non è difficile capire perché sia piaciuto tanto all’Academy Awards che gli ha tributato ben sei nominations agli Oscar 2017, tra cui miglior film e miglior regia. Nell’importante cast spicca il protagonista Andrew Garfield (anche lui candidato come attore), accompagnato da Vince Vaughn, Sam Worthington, Hugo Weaving, Ryan Corr, Teresa Palmer.

Voto:
voto: 3/5

Across the Universe (Across the Universe, 2007) di Julie Taymor

Liverpool, anni ’60: il giovane portuale Jude decide di imbarcarsi per l’America alla ricerca di un padre che non ha mai conosciuto. Qui diventa attivista politico in favore dei diritti civili, partecipa alle lotte giovanili contro la guerra e il passatismo reazionario delle precedenti generazioni, viene affascinato dall’utopia hippy e dalla bella biondina Lucy che ruberà il suo cuore, mentre il mondo occidentale è infiammato da fermenti ideologici che ne scuotono le fondamenta. Questo sontuoso e coloratissimo omaggio dell’americana Julie Taymor alla musica dei Beatles (che non vengono mai esplicitamente citati) è senza dubbio il Musical del nuovo millennio per potenza figurativa, estro visionario, nostalgico incanto, suggestione visiva, energia creativa, ironica irriverenza. Con una coraggiosa operazione artistica la regista del Massachusetts ha opportunamente selezionato 32 brani dei “fab four”, rinfrescandoli con nuovi arraggiamenti (curati da Elliott Goldenthal) e facendoli interpretare dai giovani attori, tutti ammirevoli per la totale adesione all’impresa e per le capacità canore. E così, come per magia, ecco rivivere sullo schermo i favolosi anni ’60, con tutto il relativo carico di sogni e delusioni, attraverso la loro colonna sonora per eccellenza, ovviamente scritta da John Lennon, Paul McCartney e George Harrison. Inutile dire che, con cotanto sostegno musicale e grazie a pezzi che sono entrati, a pieno diritto, nel patrimonio culturale ed emotivo di intere generazioni, era difficile non centrare il bersaglio già solo per l’inevitabile effetto nostalgia. Ma la regista ha dimostrato un’abilità non comune nel fondere insieme l’indubbia potenza del commento sonoro alla forza delle immagini, che spaziano libere dal frenetico al sentimentale, dallo psichedelico all’onirico, con una miriade di invenzioni di fantasia superiore. I nomi dei personaggi principali sono di evidente matrice “beatlesiana” e le canzoni dei mitici “ragazzi di Liverpool” sono utilizzate per raccontare l’intera vicenda (invero molto semplice), utilizzando le vivaci coreografie come un caleidoscopico collage di emozioni. Un insieme di diapositive pulsanti, ognuna delle quali narra un pezzo della storia e ognuna delle quali ha una propria precisa identità musicale, scenografica, visuale ed emotiva. Se ci si abbandona al flusso audiovisivo è un’esperienza memorabile che trova il suo picco nella surreale sequenza pittorica di “Strawberry fields forever”. Menzione speciale per l’intero reparto tecnico, per i coreografi, per la fotografia cromaticamente saturata di Bruno Delbonnel, per gli arrangiamenti “moderni” di Elliott Goldenthal e per i due interpreti principali, Evan Rachel Wood e Jim Sturgess. Da citare altresì i camei eccellenti di Bono santone psichedelico, Salma Hayek infermiera super sexy e Joe Cocker clochard. Chiaramente il film è imperdibile per i fans dei Beatles e per i nostalgici degli anni ’60, ma anche il pubblico mainstream vi potrà trovare più di un motivo d’interesse.

Voto:
voto: 4/5