giovedì 25 agosto 2016

L'occhio che uccide (Peeping Tom, 1960) di Michael Powell

Mark è un cineoperatore londinese schivo e riservato, che arrotonda il magro salario come fotografo osé di sedicenti modelle. Ma sotto la sua aria da bravo ragazzo un po’ impacciato Mark nasconde un terribile segreto, che ha le sue radici in un’infanzia traumatica causata da un padre dispotico che lo sottoponeva a crudeli vessazioni psicologiche. Il giovane è, infatti, un metodico serial killer che, durante la notte, uccide giovani donne dopo averle morbosamente filmate, per imprimere su pellicola l’attimo supremo della morte. Quando la bella Helen s’innamora di lui, la pulsione omicida di Mark sarà messa a dura prova, innescando un atroce conflitto nel suo animo contorto. Fino a quando la madre cieca della ragazza, utilizzando il suo “sesto senso”, inizia a sospettare qualcosa sulla vera natura dell’uomo. Memorabile psico-thriller di Michael Powell, tra i più belli in assoluto del suo genere, biecamente osteggiato alla sua uscita per i suoi contenuti disturbanti che scioccarono oltre misura la bigotta critica anglosassone, facendo cadere la pellicola in un oblio ingiusto e immeritato. Ma per fortuna, nel tempo, grazie allo sdoganamento di molti tabù e alla disinibizione dei costumi, è stato ampiamente rivalutato, pur conservando sempre la sua aura “maledetta”, e oggi viene unanimemente considerato un autentico gioiello, un cult assoluto che vanta miriadi di fans, anche eccellenti, come il grande regista Martin Scorsese che ha sicuramente contribuito alla sua rivalutazione. Sotto la patina aspra di un piccolo film di genere, che fu girato a basso costo seguendo le orme tipiche di un “serial killer movie”, si nasconde un formidabile trattato analitico sul voyeurismo nella sua accezione più pura, l’atto dello spiare, innescando una stimolante riflessione sul mezzo cinema, che non è altro che un prolungamento tecnologico dell’inconfessabile volontà di sbirciare furtivi. In tal senso il titolo originale (“Peeping Tom” significa per l’appunto “guardone”, citando un personaggio della leggenda di Lady Godiva) suona già come un diktat perentorio e definitivo. L’ardita commistione tra sadomasochismo, perversione sessuale, psicopatia, orrore e feticismo morboso è tanto disturbante quanto geniale, con vette di inarrivabile malia oscura nelle scene in cui Mark filma le sue vittime, quasi possedendole sessualmente con la macchina da presa, utilizzata come un prolungamento meccanico del suo corpo, come uno strumento di piacere e come un’arma terrificante. Ciò che all’epoca lasciò sconcertati pubblico e critica, suscitando scandalo e indignazione, è divenuto, nel tempo, il punto di forza dell’opera: la torbida connessione psico-emotiva tra lo spettatore e l’assassino protagonista. Una connessione che si stabilisce attraverso un sapiente utilizzo del metacinema che porta ad estendere, quasi naturalmente, l’appellativo di voyeur a tutti gli avidi fruitori di pellicole cinematografiche, creando così una malsana “complicità” nell’atto dello spiare le vite altrui, alla ricerca dei segreti più scomodi e nascosti. Mark diventa così una sorta di specchio della nostra cattiva coscienza e dei nostri desideri inconfessabili, perché alla base delle sue azioni aberranti ci sono i medesimi impulsi, le medesime voglie, sul confine sottile tra sessualità e morbosità. Il subdolo gioco psicologico che crea un ponte tra la psicopatia del protagonista e la scopofilia del pubblico denota la grande abilità di un regista probabilmente troppo coraggioso e provocatorio per i suoi tempi e per il suo contesto sociale. E come non parlare del labirinto di riflessioni contemplative e di sottili complicità innescate dal meccanismo di scatole cinesi alla base del film: chi sta guardando chi? Chi è lo spione e chi è lo spiato? Tra le numerose sequenze memorabili vanno sicuramente citate il prologo straniante (con una soggettiva di una ripresa di Mark, che poi in seguito ci verrà mostrata anche sullo schermo con l’uomo che osserva, di spalle, “insieme a noi”) e quella in cui Mark bacia la lente della macchina-da-presa/feticcio per rispondere ad un bacio di Helen. Troppo moderno e trasgressivo per i suoi tempi, questo capolavoro del genere thriller si erge a torbida apologia del concetto di visione e si compiace, con impudica intelligenza, di affermare e ribaltare i propri concetti in un continuo gioco di specchi opposti (non a caso colei che riesce a “vedere” meglio di tutti dentro l’animo nero del protagonista è una non vedente). Nel cast spicca l’austriaco Carl Boehm, perfettamente a suo agio nel ruolo di Mark, dopo il grande successo dei film con Romy Schneider sull’imperatrice Sissi e prima di diventare un “pupillo” del grande autore tedesco Rainer Werner Fassbinder. Il regista Michael Powell fa una piccola apparizione nei panni del padre di Mark.

La frase:Helen, Helen, ho paura! ...E sono contento di aver paura!

Voto:
voto: 4,5/5

L'ombra del dubbio (Shadow of a Doubt, 1943) di Alfred Hitchcock

Charlie Oakley ritorna dopo molti anni in famiglia nella piccola cittadina californiana di Santa Rosa e viene accolto con grande affetto, in particolar modo dalla giovane nipote che si fa sedurre dal fascinoso zio, in cui vede una possibilità di evasione dalla noiosa routine quotidiana. Ma ben presto la ragazza (che porta lo stesso nome dello zio e con il quale condivide una sintonia naturale) inizia a sospettare che l’uomo sia un pericoloso pluriomicida di ricche vedove, prima abilmente adescate e poi uccise per impossessarsi dei loro beni. Questo intrigante thriller del Maestro inglese è sapientemente costruito sul tema del “doppio”: lo zio e la nipote con lo stesso nome, il loro ambiguo rapporto “telepatico”, il confine sottile tra bene e male, il contrasto tra la placida vita di provincia e i terribili dubbi che assillano la ragazza, consentendo così al regista di costruire una suspense giocata sulla labilità delle certezze e sulla mutevolezza delle prospettive (come già avvenuto ne “Il pensionante”, “Sabotaggio”, “Rebecca”, “Il sospetto” e come in seguito avverrà ne “La finestra sul cortile”). Per le sue suggestioni morbose, per l’impeccabile analisi dell’ambiente provinciale americano, per la sottile sottigliezza psicologica dei personaggi, per la geometrica costruzione della tensione e per lo sfuggente confine di divisione tra “normalità” e “anormalità”, va annoverato tra i film più riusciti dell’autore che, non a caso, era solito collocarlo tra i suoi lavori preferiti. Sottilmente hitchcockiano per tutta la sua durata, potrebbe apparire, oggi, un po’ datato in alcune sequenze (come quella finale sul treno) ma la sua suggestiva capacità di rappresentare il male che cova sotto la cenere è oggettivamente straordinaria. Nel cast spiccano i due protagonisti, Teresa Wright e Joseph Cotten, entrambi bravissimi. Il consueto cameo del regista è tutto da gustare: egli appare mentre gioca a carte sul treno, reggendo in mano una scala di picche completa, dal due fino all’asso. Nel 1958 Harry Keller ne ha diretto un incerto remake, dal titolo “Step Down to Terror”, mai uscito nel nostro paese.

Voto:
voto: 4/5