giovedì 29 marzo 2018

La tenerezza (La tenerezza, 2017) di Gianni Amelio

Lorenzo è un anziano avvocato napoletano scampato ad un infarto, vedovo e con due figli adulti, Elena e Saverio, da cui si è allontanato da un pezzo. Uomo burbero e solitario, sgualcito dalla vita, spigoloso nel carattere e con più di un'amarezza nel cuore, Lorenzo intrattiene un rapporto sincero solo col piccolo nipote Francesco e con la giovane vicina Michela, ragazza solare e un po' infantile che sembra trovare in lui il padre che non ha avuto. L'uomo si avvicina sempre di più alla famiglia di Michela, composta da due vivaci bambini e dal marito Fabio, ingegnere del nord Italia che sotto l'apparenza tranquilla nasconde angosciosi tormenti interiori. Una tragedia inattesa cambierà radicalmente le loro vite. Liberamente tratto dal romanzo "La tentazione di essere felici" di Lorenzo Marone, il dodicesimo lungometraggio di Gianni Amelio è un malinconico dramma introspettivo sulla solitudine e sulla difficoltà di stabilire una reale comunicazione nei rapporti familiari. Scritto benissimo e recitato ancora meglio da un cast eccellente che trova in Renato Carpentieri, Micaela Ramazzotti ed Elio Germano i suoi punti forti, questo film sincero, disarmante e quietamente struggente ha il rigore severo di una dolente autoconfessione morale e la pudica amarezza di un ritratto antropologico di travaglioso disincanto e lucido realismo. Ambientato in una Napoli borghese e autunnale, lontanissima dagli stereotipi da cartolina o di malaffare a cui siamo abituati, è un'opera asciutta e sommessa, mai urlata e mai enfatica, abilissima nel filtrare ogni ruffianeria sentimentale in favore di una finissima sobrietà emotiva. Raffinato e composto anche nelle sequenze più drammatiche, l'autore accompagna i suoi personaggi mettendosi al loro fianco e senza mai giudicarli, regalandoci dialoghi secchi e taglienti, lampi poetici ed un senso di dolorosa umanità che pervade la pellicola in tutte le sequenze. Più delle parole contano i silenzi, gli sguardi, i gesti, le espressioni e il linguaggio del corpo, in questo metaforico viaggio umano che ruota intorno al concetto di famiglia (perduta, idealizzata, disgregata e vagheggiata), procedendo per progressivi sfasamenti emotivi. Il personaggio di Lorenzo, centrale e periferico al tempo stesso, complesso e profondo nella sua problematica ricchezza di sfumature e imperfezioni, è uno dei più intensi che il cinema italiano ha saputo regalarci negli ultimi anni. Assolutamente magistrale l'interpretazione, sofferta e toccante, del caratterista campano Renato Carpentieri che qui ha trovato il ruolo della vita, riuscendo finalmente a meritarsi quel risalto da protagonista che meritava da tempo. Quasi obbligatorio per lui l'inevitabile riconoscimento del David di Donatello come miglior attore italiano 2017. La sequenza finale ambientata nel grande spazio aperto del Centro Direzionale, potente e silenziosa, è l'emblema perfetto di questo film teneramente violento che procede austero sul non banale percorso della sottrazione emozionale.

Voto:
voto: 4/5

venerdì 23 marzo 2018

Un sogno chiamato Florida (The Florida Project, 2017) di Sean Baker

Nell'estrema periferia di Orlando (Florida), a due passi da Disneyland, sorge un motel alveare a due piani chiamato Magic Castle, tanto sgargiante nella sua vivace colorazione lilla quanto modico nei prezzi e per questo meta prediletta di sbandati senza fissa dimora che tirano a campare. Qui vivono Moonee e i suoi inseparabili amici, Scooty e Jancey, tre bambini esuberanti e discoli, piccole pesti capaci di trasformare, con la forza gioiosa della fantasia infantile, una realtà di quotidiano squallore nel loro personale regno incantato. Halley, giovane madre di Moonee, è una "smandrappata" inquieta senza un lavoro fisso, tutta tatuaggi e cattive maniere, che sopravvive alla giornata in bilico sull'insidioso crinale dell'illegalità. In questo microcosmo miserabile di umano degrado, fatto di donne senza uomini prese a schiaffi dalla vita, che fanno quello che possono per garantire ai figli un'esistenza dignitosa, la figura di riferimento è Bobby, manager factotum del motel, operoso e autoritario ma non privo di senso della giustizia e compassionevole umanità. Il sesto lungometraggio di Sean Baker (che realizza con esso il suo film migliore) è un lucido ritratto del sottoproletariato statunitense, qui rappresentato dagli homeless "invisibili" che brulicano nascosti in dozzinali motel a basso costo, anime perse bandite dal sogno americano e mortificate dalla crisi economica esplosa nel 2008, inevitabilmente sospese tra resilienza e disperazione, speranza e dannazione, purgatorio e inferno. Il "paradiso" è proprio lì dietro l'angolo, rappresentato da quel grande parco Disney dei divertimenti che è il simbolo materiale di tutti i sogni promessi dalla grande madre America. Eppure è al tempo stesso lontanissimo, perchè la sua luce non illumina il grigiore quotidiano dei reietti protagonisti del film, fantasmi sgraditi e sgradevoli, scarti indecorosi del capitalismo di cui devono dividersi faticosamente le briciole, azzannandosi tra loro. Tra commedia e dramma, tenerezza e durezza, realismo e fiaba, euforia e tragedia, l'autore mette a segno uno dei più intensi e riusciti affreschi sul mondo dell'infanzia visti al cinema nell'ultimo decennio. Attraverso il punto di vista dei piccoli protagonisti veniamo immersi in questo universo colorato e grottesco, ricco di stridenti contrasti e di aspre contraddizioni, una favola adulta amara e toccante che scorre lenta e frammentaria, senza risparmiarci i momenti di noia proprio come nella vita, per poi sublimarsi nel meraviglioso finale che scalda il cuore e inumidisce gli occhi senza neanche un'oncia di ruffianeria o di pietismo. Straordinario il lavoro di direzione di un cast eccellente, in cui l'unico attore professionista è un emozionante Willem Dafoe nel ruolo di Bobby,  meritatamente candidato all'Oscar come miglior attore non protagonista. Brave e credibili anche la piccola Brooklynn Prince (Moonee) e l'esordiente Bria Vinaite, reclutata su Instagram per il ruolo cruciale di Halley, donna volgare e dissoluta ma anche madre amorevole e giocosa. Il magico potere dell'immaginazione infantile è il filo di Arianna per attraversare questo triste labirinto di miseria morale, solo aggrappandosi saldamente ad esso si può continuare a lottare e a sperare, nonostante tutto. Proprio come l'albero preferito di Moonee, che è la figura metaforica più riuscita del film: un albero caduto che però continua a crescere.

Voto:
voto: 4/5

mercoledì 28 febbraio 2018

Il filo nascosto (Phantom Thread, 2017) di Paul Thomas Anderson

Nella Londra degli anni '50 Reynolds Woodcock è un rinomato stilista di moda di grande successo, che dirige con rigida autorevolezza, insieme all'austera sorella Cyril, un lussuoso atelier, meta prediletta di reali, dive, nobili e ricche signore del jet set britannico. Rubacuori impenitente, narcisista egocentrico, lavoratore instancabile e uomo spigoloso dal carattere insopportabile, Reynolds insegue con avidità maniacale un'idea di bellezza di sacrale perfezione, che un giorno crede di trovare nella giovane Alma, deliziosa cameriera conosciuta per caso che fin da subito s'invaghisce di lui. La relazione cresce in maniera incontrollabile e la donna si trasferisce presto nella residenza Woodcock, diventando la musa favorita di Reynolds, ma sotto lo sguardo severo e sospettoso della tenutaria Cyril. Tra alti e bassi, amarezze e delusioni, Alma rivelerà insospettabili doti di tenacia e resilienza nel tener testa al suo ostico amante, riuscendo a creare un rapporto ben più torbido di ciò che appare in superficie. Diciamolo subito a scanso di ogni equivoco: l'ottavo lungometraggio di P.T. Anderson (da lui prodotto, scritto, diretto e fotografato) è un capolavoro, uno dei film più importanti, eleganti, ambigui, affascinanti, misteriosi ed emblematici del decennio in corso. E' anche l'opera più libera, ambiziosa, concettuale e stupefacente del grande regista americano: un melodramma introspettivo e reticente di sontuosa impaginazione tecnica, visivamente magnifico nella sua raffinatezza barocca, diamantino nella secchezza narrativa, ipnotico nella forma, anticonvenzionale nell'essenza e carico di sottotesti psicologici che inducono oscure vertigini nello spettatore. Come già suggerito dal titolo originale è un film di fantasmi, di pulsioni striscianti, di urla sussurrate, di desideri implosi, di erotismo raffreddato, ma anche di morbida sensualità in alcune sequenze memorabili, come quella della prima volta in cui Reynolds prende le misure del corpo di Alma. E' un film da metabolizzare con lentezza, magari anche attraverso visioni successive, per coglierne appieno la bellezza rarefatta e la potente astrazione di apologo sullo sguardo e sulle dinamiche del potere, sospeso tra desiderio e masochismo, sogno e ossessione, psiche e amore, arte e depressione. Morboso e sfuggente nella sua bramosia nascosta sotto la patina di un'ipocrita ritrosia, il film procede con geometrica precisione e con lucida ineluttabilità assecondando la pedante ritualità del suo protagonista, salvo poi ribaltare il punto di vista nella seconda parte, dando vita ad una parabola, candidamente spiazzante, sui rapporti di potere che alimentano, perturbano e suggellano una relazione. Asciutto e puntuale nella sua ricercatezza neoclassica, quest'opera "sartoriale" è perfettamente cucita addosso ai suoi personaggi e ci consegna un indimenticabile finale raggelante che si apre ad abissi di psicopatologia sessuale nella definizione di quello che può essere un rapporto di coppia, in una sottile tenzone in cui il confine tra i ruoli (vittima-carnefice, amante-amato, dominante-dominato) è di labile imperscrutabilità. Stiamo insomma parlando di un perfetto esempio di grande cinema "in potenza", probabilmente ermetico per il pubblico mainstream, che nasconde abilmente la sua vera natura sotto la coltre raffinata di un falso romanticismo manierista. La sovrapposizione tra il film e il suo magnifico protagonista è totale e va quasi oltre il tranquillizzante concetto di trama: Reynolds è un sociopatico represso ossessionato dalla sua arte, dalla forma, dalla ricerca della perfezione. Un uomo dal carisma nervosamente alabastrino che inconsciamente nasconde i suoi intimi desideri nelle trame nascoste delle sue opere tessili (il filo citato nel titolo), parafrasando così il tentativo di rimozione di traumi infantili, rimorsi, vulnerabilità e smanie represse, tra lo spettro di una madre castrante e la paura della paternità, esorcizzata con l'estetizzazione dell'atto creativo attraverso il "sacro" rito della cucitura. La figura di Alma è rappresentata abilmente come una sorta di "manichino" vivente, una donna fatale "dormiente", un po' angelo asessuato e un po' demonio guastatore, la cui apparizione porterà nella vita di Reynolds luce e ombra, sole e tempesta, il dolce del miele e l'amaro del fiele, perchè l'amore è un pasto proibito per cannibali affamati, è un sublime "veleno" che esalta il corpo e mina la psiche, mettendo ogni uomo davanti allo specchio scuro della sua autentica personalità, costringendolo a fare i conti con sè stesso. Splendide le musiche immersive di Jonny Greenwood e straordinario il cast con Daniel Day-Lewis, Lesley Manville e Vicky Krieps sugli scudi. E se la bravura di Day-Lewis è ormai un dato di fatto archiviato, sorprende ed entusiasma l'eccellente lavoro interpretativo "per sottrazione" svolto dalla Krieps, il cui sorriso enigmatico e il cui sguardo intenso sono tra i punti di forza assoluti del film. Tra gli innumerevoli guizzi magistrali della pellicola non si possono sottacere i riferimenti cinefili colti, come gli evidentissimi echi hitchcockiani che ammiccano al capolavoro Rebecca o le sottili allusioni wellesiane nelle scenografie della "casa-museo" dei Woodcock. Ben meritate, e in un certo senso inaspettate, le sei nomination "pesanti" agli Oscar 2018: miglior film, regia, costumi, colonna sonora, attore protagonista (Day-Lewis) e attrice non protagonista (Manville). Chi sceglierà di "indossare" senza preconcetti questo film, facendosi accarezzare dal suo opaco vortice voluttuoso fatto di panna e merletti, ne uscirà intimamente turbato e toccato nel profondo dal gioco di intrecci tra nitidezze e negazioni, estasiato dalla purezza formale di questa secca vivisezione interiore di una relazione sentimentale.

Voto:
voto: 5/5

sabato 24 febbraio 2018

La ruota delle meraviglie (Wonder Wheel, 2017) di Woody Allen

Coney Island, anni '50: Ginny è una quarantenne tormentata dal rimpianto di una carriera di attrice mai sbocciata e dal rimorso per aver mandato all'aria un matrimonio d'amore per un momento di debolezza carnale, in cui si è concessa a un altro uomo. Infelicemente risposata con Humpty, burbero giostraio ubriacone dal cuore tenero, lavora come cameriera in uno squallido ristorante di frutti di mare, vive in un'umile casa nel Luna Park di Coney Island ed è afflitta dal figlio adolescente che ha un carattere ribelle e manie incendiarie. L'incontro con il giovane e attraente Mickey, aspirante romanziere che lavora come bagnino per pagarsi gli studi universitari, dà una svolta alla sua grigia esistenza e la donna si lancia a rotta di collo in una passionale relazione clandestina. Pazzamente innamorata del suo amante, Ginny sembra ritrovare gli entusiasmi troppo a lungo sopiti, ma l'arrivo inatteso della bella Carolina, giovane figlia di primo letto di Humpty, in fuga da un marito gangster che le dà la caccia, cambierà ogni cosa in modo imprevedibile. Il 48° film di Woody Allen è un elegante melodramma tragico che riflette lucidamente sul non senso beffardo della grande ruota che è la vita, presentandoci un dolente affresco di personaggi oppressi, ciascuno rinchiuso nella gabbia dei propri fallimenti. Sulle note ovattate di "Coney Island Washboard" dei Mills Brothers, ossessivamente fedele alle sue tematiche ed al suo stile fieramente rétro, l'autore ci immerge, col suo tocco lieve e sardonico, nella New York dei tempi andati, in cui l'evidente atmosfera malinconica non basta ad alleviare la meschina afflizione di un microcosmo di perdenti che diventa il simbolo di un fallimento antropologico ben più ampio. Con spudorati omaggi al cinema "fiammeggiante" di Douglas Sirk (notevole la citazione del capolavoro Lo specchio della vita nella sfavillante sequenza d'apertura) ed al teatro di Tennesse Williams, Allen si avvale del consueto grande cast in cui svetta un'intensa Kate Winslet, affiancata da Jim Belushi, Juno Temple e Justin Timberlake. Ma il vero punto di forza del film è l'abbacinante fotografia di Vittorio Storaro (alla sua seconda collaborazione consecutiva con il regista newyorchese), che, nella sua preziosa enfatizzazione cromatica e nel suo sottile gioco di luci, è ben più di una sontuosa cornice inerte. E' materia viva, emozionale, palpitante, che suggerisce ed esalta lo stato d'animo dei personaggi, in un magnifico caleidoscopio di suggestioni luminose che riesce a ricreare la pomposità infuocata dei melodrammi sirkiani. Non a caso il fuoco, elemento ancestrale in cui il piccolo figlio di Ginny sembra trovare una mistica fascinazione, costituisce uno degli elementi cardine del film. L'altra passione del ragazzo è il cinema, il grande cinema classico a cui Allen ha sempre guardato con deferenza e nostalgia, per coglierne quella scintilla magica capace di suscitare negli spettatori un senso di meraviglia puro e sognante. Uno struggimento istintivo fondato sul potere rievocativo di età passate e che pone le faccende umane su due fronti opposti: bellezza e meschinità, passione e fallimento, arte e mediocrità.

Voto:
voto: 3,5/5

sabato 17 febbraio 2018

L'ora più buia (Darkest Hour, 2017) di Joe Wright

Nel 1940 il neo eletto, e poco gradito ai membri del suo partito, Primo Ministro britannico Winston Churchill, deve far fronte ad uno dei momenti più tragici della storia d'Europa e della Gran Bretagna. La seconda guerra mondiale è appena scoppiata e le armate naziste di Hitler sembrano inarrestabili e invincibili, nel giro di pochi mesi hanno sbaragliato tutto il "vecchio continente" e adesso "bussano" alle porte della "terra d'Albione", che non si sente più protetta dal canale della Manica ed avverte l'incombente minaccia di una massiccia invasione da parte del nemico. Churchill, da sempre intransigente nei riguardi di Hitler da lui indicato, già in tempi non sospetti, come una minaccia da abbattere, deve affrontare non solo il pericolo nazista ma anche le subdole insidie che provengono dall'interno, con alcuni autorevoli membri della sua stessa corrente politica che cercano di convincerlo a trattare una pace che sa di resa con i tedeschi, in cambio della salvezza dell'Inghilterra. Cocciuto e combattivo, Churchill non intende cedere di un passo e cerca di convincere il Re, il Parlamento e la nazione che l'unica strada possibile è quella della guerra contro Hitler, perchè "con una tigre non si ragiona" e "lacrime, sudore e sangue" sono ben spese in nome della libertà da una tirannia oppressiva. Joe Wright porta sul grande schermo l'ennesima biografia storica dedicata all'iconico personaggio di Winston Churchill, già interpretato in passato da una pletora di attori eccellenti, ed a quei giorni cupi in cui la Gran Bretagna decise stoicamente di non chinare il capo di fronte allo strapotere delle orde germaniche, abbracciando con coraggio una sanguinosa resistenza e cambiando per sempre le sorti della guerra. Churchill, uomo dal carattere indomito e spigoloso, ammaliante affabulatore e leader pragmatico, temuto e inviso da molti nel suo stesso paese, ci viene stavolta mostrato sia nel lato pubblico sia in quello privato, con un affresco ora romantico, ora inquieto, ora bizzarro, indulgendo spesso su quelle manie e stravaganze che ne hanno adornato la leggenda. In quest'opera dalla messa in scena asciutta e diretta con classica misura, la guerra (quella vera) non viene mai mostrata, anche se la sua ombra mortifera incombe già dalla prima sequenza e pedina costantemente i personaggi nelle grandi sale vittoriane, nei palazzi del potere, nei segreti cunicoli sotterranei dei ministeri e persino in una vagone della metropolitana londinese, dove è ambientata la scena più intensa (e retorica) della pellicola. Più verboso che intimo il film si consegna totalmente alla notevole interpretazione di Gary Oldman, di cui solo gli occhi sono riconoscibili sotto il pesante trucco prostetico, che ci regala una performance indubbiamente scintillante ma più vicina all'iconografia nostalgica del personaggio che alla ricerca sottile del suo lato in ombra. In questa vibrante apologia della resilienza e dell'orgoglio elitario tipico dello spirito britannico, che vede nel suo "splendido" isolamento un snobistico segno di superiorità, i momenti migliori sono quelli del rapporto tra Churchill e sua moglie o la sua appassionata segretaria, momenti in cui il peso ingombrante dell'eroe storico cede il passo ai dubbi e alle fragilità dell'uomo. Sono invece più enfatici e canonici i celeberrimi discorsi del politico al parlamento e al popolo, mentre appare curiosamente puntuale la sovrapposizione di eventi con il Dunkirk di Christopher Nolan. Nel cast, oltre al mattatore Oldman (in odore di Oscar), vanno menzionati anche Kristin Scott Thomas, Lily James, Ben Mendelsohn e Ronald Pickup. Sei nomination ai premi Oscar 2018: film, fotografia, trucco, scenografia, costumi e ovviamente Gary Oldman come miglior attore protagonista, per quella che sembra essere una vittoria già annunciata, probabilmente anche come omaggio ad una lunga e brillante carriera. In questo film che nulla toglie e nulla aggiunge all'immaginario illustrativo del corpulento e burbero "uomo con il sigaro" che salvò l'Europa dal nazismo, l'autore ci consegna un messaggio patriottico più moralistico che ideologico, più didascalico che artistico, sospeso tra l'elogio dell'arte oratoria e l'alterigia "brexit".

Voto:
voto: 3/5

lunedì 12 febbraio 2018

La ragazza nella nebbia (La ragazza nella nebbia, 2017) di Donato Carrisi

Ad Avechot, remoto paesino montano in mezzo alle Alpi, l'adolescente Anna Lou scompare misteriosamente nel nulla dopo essere uscita di casa in una sera nebbiosa dell'antivigilia di Natale. Il caso attira l'attenzione del navigato ispettore Vogel, cinico detective famoso per il suo particolare stile investigativo che prevede un uso massiccio ed impudente dei media intorno all'oggetto delle sue investigazioni, quasi sempre spettacolari e controverse. In breve il tranquillo borgo alpino viene messo sotto la luce dei riflettori dei mezzi d'informazione, attirando sedicenti giornalisti affamati di notizie e pronti a tutto per un macabro scoop. Vogel non ci mette molto a scovare l'agnello sacrificale da dare in pasto alla morbosità mediatica, identificando nel mite professore Loris Martini, trasferitosi da poco ad Avechot con la sua famiglia, il perfetto "mostro" da sbattere in prima pagina, a causa di una serie di prove indiziarie a suo carico. Mentre la vita dell'uomo viene rovinata dall'inesorabile escalation degli eventi, il mistero della scomparsa di Anna Lou sembra infittirsi sempre più, dopo una serie di inattese scoperte che lasciano trasparire come la verità sia spesso sfuggente, anche in un luogo apparentemente ameno in cui però si celano oscuri segreti e nessuno è ciò che sembra in apparenza. Interessante esordio cinematografico dello scrittore pugliese Donato Carrisi, che adatta per il grande schermo uno dei suoi romanzi di maggiore successo ("La ragazza nella nebbia"), firmando regia e sceneggiatura. Il risultato è un thriller dal cuore nero e dalle atmosfere torbide, visivamente affascinante, ben recitato da un cast di notevole livello (Toni Servillo, Jean Reno, Alessio Boni, Michela Cescon, Galatea Ranzi) e con una buona costruzione della suspense nel crescendo finale ricco di colpi di scena (che probabilmente non risulteranno del tutto inattesi ad un occhio esperto). Più che guardare alla tradizione dei sanguinari gialli all'italiana degli anni '70 di cui Dario Argento fu l'autore più famoso, questo film procede per accumulo un po' caotico di citazioni e ammiccamenti al thriller più "alto": dal Lynch televisivo di "Twin Peaks" alle opere di David Fincher, senza dimenticare il nostro Tornatore (lascio a voi il compito di captare le relative connessioni) e la reale cronaca nera italiana. Con qualche caduta di tono e più di un passaggio forzatamente tortuoso, la pellicola si consegna totalmente ad un finale tanto contorto quanto avvincente, che non ha mancato di suscitare accesi dibattiti tra il pubblico. Pur restando saldamente nei confini del cinema di genere a cui appartiene, La ragazza nella nebbia dispensa graffi caustici al voyeurismo invadente dei mass media ed al funesto show di quel giornalismo efferato che specula sul dolore altrui in nome dell'audience. Tra personaggi ambigui e situazioni sordide, questa tetra sfilata di cattivi finisce per arenarsi più volte sui perigliosi fondali dell'inverosimiglianza, ma si farà sicuramente ricordare per l'abbagliante potenza visiva delle immagini iniziali e finali: evocative, disturbanti e cariche di malia oscura.

La frase: "Il peccato più sciocco del diavolo è la vanità"

Voto:
voto: 3/5

mercoledì 7 febbraio 2018

Tonya (I, Tonya, 2017) di Craig Gillespie

Biografia "indie" della pattinatrice su ghiaccio Tonya Harding, una delle più celebri e controverse sportive americane degli anni '90. Cresciuta troppo in fretta in un ambiente provinciale da una famiglia sciagurata e indigente, Tonya è una ragazza rude e spigolosa, sguaiata ed accanita fumatrice , succube di una madre aguzzina che fin dalla prima infanzia la spinge verso il pattinaggio per cercare di sfruttare al massimo il suo unico apparente talento. Nonostante le difficoltà nelle relazioni sociali, gli atteggiamenti discutibili che la rendono antipatica ai giudici ed uno stile poco elegante, la nostra si rivela fin da subito una grande pattinatrice: la prima americana capace di eseguire il difficile salto detto "triplo axel" in una gara ufficiale e, a tutt'oggi, una delle poche atlete al mondo ad esserci riuscita più volte. Nel 1994 la Harding fu al centro di un clamoroso scandalo che la travolse, la rese un caso mediatico nazionale e ne causò la fine prematura della carriera sportiva: l'aggressione compiuta ai danni della temibile rivale Nancy Kerrigan, architettata insieme al marito Jeff Gillooly, che costò alla malcapitata la rottura del ginocchio ed il ritiro dagli imminenti campionati nazionali di pattinaggio. Biopic semiserio e politicamente scorretto sulla vita di Tonya Harding, diretto con corrosiva ironia nera dall'australiano Craig Gillespie. Nella sua spericolata altalena tra farsa e cronaca, questa spudorata black comedy drammatica chiarisce le sue intenzioni fin dal grottesco prologo fatto di interviste ai personaggi principali, in cui appare l'avvertenza che il film è "tratto da colloqui veri, contraddittori e privi di sarcasmo" con la Harding e Gillooly. L'autore intende fare della sua spinosa anti-eroina un chiaro simbolo dell'America famelica e bellicosa nel perseguimento ossessivo del mito del successo personale ad ogni costo. In tal senso la paradossale vicenda esistenziale di Tonya diventa una tragicomica parabola dei malcostumi e delle contraddizioni di un paese alla continua ricerca di "eroi" usa e getta, da amare o da odiare a seconda delle circostanze, per poi immolarli pubblicamente nel triste circo dello show mediatico che si nutre delle sue stesse vittime senza mai placare la propria bramosia. La Harding del film è una perdente nevrotica, sboccata e aggressiva, figlia infelice di quel sottoproletariato bianco della profonda provincia statunitense disposto a tutto per primeggiare, inseguendo il sogno del benessere materiale come facile segno di affrancamento. Presa a calci dalla vita e indurita da un ambiente familiare anaffettivo (dalla madre cinica e perfida al marito imbelle e violento), Tonya è la perfetta incarnazione della "loser" indomita e disperata, che graffia e morde nel tentativo di elevarsi dalla sua congenita mediocrità, sfruttando il suo unico talento come un mezzo, piuttosto che come una passione. Nel cast spiccano le due protagonisti femminili: una Margot Robbie energica e imbruttita e, soprattutto, una straordinaria Allison Janney nell'ingrato ruolo della viscida madre LaVona. Entrambe le interpreti sono state meritatamente candidate agli Oscar 2018, rispettivamente come miglior attrice protagonista e  miglior attrice non protagonista. I personaggi maschili, che sembrano usciti da una pellicola dei fratelli Coen per la loro maldestra inettitudine, orbitano mestamente intorno alle due "prime donne", che dominano la scena ad ogni apparizione. I continui ammiccamenti al pubblico, che intendono stabilire un'evidente complicità tra lo spettatore e la scomoda protagonista, costituiscono, al tempo stesso, il limite e la forza di questa apologia dei reietti, che smussa i contenuti aspri con leggerezza cialtrona, all'insegna di un'irriverente ruffianeria di fondo.

Voto:
voto: 3,5/5

giovedì 1 febbraio 2018

Lady Bird (Lady Bird, 2017) di Greta Gerwig

Christine è una diciassettenne inquieta che vive a Sacramento, provinciale e misconosciuta capitale della California, si fa chiamare da tutti "Lady Bird" e sogna di evadere dalla sua inerte quotidianità di scuole cattoliche e recite teatrali per trasferirsi a New York, in cui frequentare il college e un ambiente più colto ed emancipato. Afflitta dalle ansie tipiche della sua età (la paura e la voglia di crescere, la scoperta del sesso, le grandi aspirazioni, il desiderio di essere accettata), Christine vive un rapporto di amore e odio con la sua famiglia, premurosa ma costantemente alle prese con problemi economici: tra un padre affettuoso, disoccupato e depresso, un fratello adottivo di origine ispanica e una madre infermiera, dura e concreta, che la ama tantissimo ma non riesce a dimostrarlo. Scritta e diretta dall'attrice Greta Gerwig, questa commedia drammatica con chiari riferimenti personali (la Gerwig è di Sacramento e ha scelto di ambientare il film proprio nel periodo in cui lei aveva 18 anni) è un sincero affresco generazionale sul difficile momento dell'adolescenza, sospeso tra il racconto di formazione e l'autobiografia malinconica. Fresco e sbarazzino come la sua protagonista, egregiamente interpretata dalla promettente Saoirse Ronan, questo coming of age al femminile trova i suoi momenti migliori nei dialoghi frizzanti ed ha il suo cuore pulsante nel rapporto, intenso e problematico, tra madre e figlia. Oltre alla Ronan, brava e bella, nel cast spiccano Laurie Metcalf, Tracy Letts e Timothée Chalamet. Il buon lavoro di scrittura non trova analogo riscontro in una regia un po' piatta, che ha però l'intelligenza di affidarsi, con schiettezza e senza sentimentalismi, ai personaggi principali, verso cui è evidente lo sguardo teneramente complice della neo-autrice californiana. Le delicate questioni trattate dalla pellicola (il traumatico passaggio verso l'età adulta, il contrasto tra affetti privati e desideri personali, la difficoltà di essere genitori ma anche quella di essere figli) vengono affrontate con agile leggerezza, evitando con oculatezza sia la superficialità sia il predicozzo morale. Questo fiore all'occhiello del cinema indipendente americano dell'anno 2017, acclamato dai critici non senza una certa sopravvalutazione, ha avuto anche il riconoscimento, per ora platonico, dell'Academy Awards che gli ha accreditato cinque nomination "pesanti" agli Oscar: film, regia, sceneggiatura e le due attrici Saoirse Ronan e Laurie Metcalf. Non sarà facile portare a casa premi ma Lady Bird vola già alto e leggero, sospinto dal soffio potente di quella vivace fucina "indie", capace di sfornare ogni anno le opere più interessanti che provengono da oltre oceano. God bless it!

Voto:
voto: 3,5/5

martedì 30 gennaio 2018

L'incredibile vita di Norman (Norman: The Moderate Rise and Tragic Fall of a New York Fixer, 2016) di Joseph Cedar

Chi è Norman Oppenheimer ? Un signore umile e gentile dal volto sofferto ma dall'incredibile tenacia, che si aggira per le fredde strade di una New York invernale con un triste cappotto cammello e gli auricolari del cellulare sempre all'orecchio. Un faccendiere garbatamente pedante che incontra persone, risolve problemi, millanta conoscenze, propone affari, organizza meeting, si intrufola nelle cene di gala e si mette al servizio di uomini potenti. Un cortigiano solitario, viscido e servile, che dietro un'appiccicosa piaggeria nasconde la tranquilla furbizia di un ebreo dalla mente fine e dall'eloquio accattivante. Un uomo malato di solitudine alla ricerca di un riscatto personale che cerca il colpo della vita offrendosi come galoppino del potere e che trascorre il tempo libero tra la sinagoga del suo quartiere e la compagnia del giovane nipote, avvocato rampante. Norman Oppenheimer è tutto questo e forse molto altro ancora, come lasciano trasparire i suoi occhi vispi, la cui luce non è stata ancora offuscata dalle tante porte chiuse in faccia e dai troppi bocconi amari buttati giù. Quando Norman riesce a entrare nelle grazie di un ambizioso politico israeliano, Micha Eshel, che nel giro di poco tempo diventerà primo ministro del suo paese, l'occasione attesa da una vita sembra essere finalmente arrivata. Ma l'ingresso, seppure dalla porta di servizio, nei grandi saloni della politica che conta, condurrà ben presto il nostro in un perverso meccanismo più grande di lui. Solido dramma di introspezione psicologica, scritto e diretto dall'israeliano Joseph Cedar e cucito addosso al suo splendido protagonista di cui ricalca il punto di vista, discreto e "dietro le quinte", e lo stile sospeso tra una tenerezza un po' naif e la subdola adulazione. Proprio come il personaggio di Norman, interpretato con commovente intensità da un Richard Gere sorprendente, il film avanza sornione e reticente, tra le pieghe di una fertile ambiguità che però non rinuncia mai al lato umano, egregiamente illustrato con illuminata lievezza in quell'altalena di cinismo, compromessi e fragilità che è il grande gioco della vita. Peccato che la seconda parte dell'opera, concepita in tragico crescendo verso un retorico finale moralizzatore, tenda poi a disperdere parte di quel sottile lavoro di cesello messo a punto nella prima. In ogni caso i personaggi sono disegnati ottimamente, anche per merito del grande cast che, oltre al mattatore Gere, annovera Lior Ashkenazi, Michael Sheen, Charlotte Gainsbourg e Steve Buscemi. I richiami alla tradizione culturale ebraica e alla letteratura alta, attraverso l'affascinante e sfuggente figura del "valletto" abile e ossequioso, donano al film un sostrato colto che ne nobilita la matrice e rende più autorevole la sua sobria critica sociale al sistema politico delle lobby di potere.

Voto:
voto: 3,5/5