mercoledì 11 ottobre 2017

Blade Runner 2049 (Blade Runner 2049, 2017) di Denis Villeneuve

Nell'anno 2049 la Tyrell Corporation e i suoi replicanti ribelli sono stati rimpiazzati da una nuova potente società, guidata dal giovane genio Neander Wallace, che realizza ormai regolarmente androidi di ultima generazione, docili e senza problemi di longevità, da utilizzare con buon profitto nei lavori "sporchi" che gli umani non vogliono più svolgere. Ma esistono ancora diversi Nexus sopravvissuti agli anni oscuri e l'unita speciale di polizia "Blade Runner", che si occupa del loro "ritiro", è sempre attiva nella tentacolare area urbana di Los Angeles. L'efficientissimo agente K è l'elemento di spicco della squadra, ma tutto cambia quando, durante una missione portata a termine con successo, il nostro fa un'incredibile scoperta, riportando alla luce un segreto che potrebbe stravolgere per sempre il nuovo ordine sociale, fondato sulla convivenza tra umani e sintetici. Ben conscio del pericolo che sta correndo, K si avventura in un viaggio alla ricerca della verità e del suo passato, mettendosi sulle tracce di un suo predecessore, l'agente Deckard, sparito nel nulla da anni senza dare più notizie, che sembra possedere la chiave di accesso a quei misteri per i quali molti sono disposti ad uccidere. La posta in gioco appare subito alta e K dovrà fronteggiare sia Wallace sia la polizia stessa per riuscire a trovare Deckard per primo, sperando di ottenere le preziose informazioni di cui ha bisogno per portare a termine la missione più importante della sua vita. Dopo 35 anni e una lunga serie di rinvii, il tanto atteso sequel di Blade Runner è divenuto realtà, con Ridley Scott in veste di produttore esecutivo, il lanciatissimo Denis Villeneuve in cabina di regia e il ritorno dello sceneggiatore Hampton Fancher e di Harrison Ford nel ruolo di Deckard. Con un approccio che cerca coraggiosamente di conciliare le regole dei blockbuster hollywoodiani e la qualità spesso ermetica del cinema d'autore, il regista, che fin dalla prima sequenza dimostra tutto il suo smisurato amore per la pellicola del 1982, realizza un film lungo e ambizioso di fantascienza "colta", in cui l'azione è poco presente a vantaggio di dialoghi, analisi psicologica e momenti contemplativi. Dal punto di vista visivo ci troviamo di fronte ad un'opera imponente e abbacinante, che parte dalla memorabile iconografia estetica del film di Ridley Scott (che ha profondamente influenzato l'immaginario collettivo e tutta la fantascienza degli anni '90), ampliandola con grande potenza visionaria attraverso l'introduzione di nuove ambientazioni e l'utilizzo di una tavolozza cromatica più estesa e suggestiva, che spazia dalla cupezza piovosa degli ambienti losangelini (totalmente fedeli a quelli originali) al plumbeo spettrale degli scenari extra urbani (l'allevamento di vermi, la mega discarica), fino al giallo ocra ultra saturato della Las Vegas post apocalittica. Le atmosfere noir, l'ambiguità dei personaggi, il tormento interiore, la lotta disperata per il raggiungimento di un obiettivo (una vita più lunga nel primo film, la ricerca della propria identità in questo), la felice fusione anacronistica tra elementi avveniristici iper-tecnologici e oggetti vintage, l'importanza fondamentale del passato per definire il presente (e quindi il futuro), la contrapposizione filosofica tra umano e artificiale, l'occhio come simbolo pregnante del mondo introspettivo (specchio dell'anima, rivelatore esistenziale, porta della memoria). Queste sono tutte caratteristiche fondamentali dell'opera originale che qui vengono pedissequamente riprese, ricalcate e poi gradualmente amplificate nel tentativo di trovare una direzione originale. Ma è proprio in questo tentativo che il film di Villeneuve dimostra i suoi lati deboli a cominciare da una storia esile, da alcune svolte narrative facilmente prevedibili, da dialoghi a volte banali, da personaggi non particolarmente riusciti (in generale il cast femminile appare ben più in forma di quello maschile) e da una sensazione di titubanza che fa sembrare certe scene eccessivamente stiracchiate. Fatto salvo il cuore della storia (che è una sorta di viaggio interiore alla ricerca di sè), la sontuosa impaginazione formale e alcune sequenze memorabili (lo scontro tra K e Deckard tra gli ologrammi dei divi del passato è pura magia visiva), la percezione finale è quella di un prodotto indubbiamente sopra la media, ma in cui la cornice vale ben più del quadro. Nella grande squadra di attori citiamo Ryan Gosling, Harrison Ford, Ana de Armas, Sylvia Hoeks, Jared Leto, Robin Wright, Dave Bautista, Mackenzie Davis e Carla Juri, con i divi Gosling e Ford che appaiono in evidente sordina. Le musiche di Hans Zimmer e Jóhann Jóhannsson risultano troppo cupamente invasive e riescono a regalare brividi solo quando riecheggiano gli straordinari temi di Vangelis. Tra efficaci e ripetuti omaggi cinefili al film del 1982 si procede verso il finale non proprio imprevedibile, a cui probabilmente avrebbe giovato una maggiore ambiguità, e ci si trova a riflettere sul concetto di identità, sulla legittimità della replica rispetto all'originale, sulla necessità di una società quanto più possibile eterogenea, sulla convivenza (che diventa sovrapposizione in una sequenza amorosa di culto) tra diversi gradi di esistenza e sulla difficoltà di definire cosa sia umano e cosa sia reale in un universo popolato da fantasmi del passato, sogni elettronici e intelligenze artificiali. Ma, come perfettamente reso nella scena in cui compare il cane di Deckard, sono le emozioni e i sentimenti a definire il confine tra umano e sintetico. Perchè se due esseri condividono un bagaglio emotivo e sono in sintonia interiore, è davvero così importante stabilire la loro natura seconda una catalogazione meramente scientifica ? Non resistendo alle tentazioni tipiche del cinema mainstream in merito a spiegazioni e messaggi, l'autore consacra alla sfera sentimentale l'ultima riflessione filosofico esistenziale di Blade Runner. Perchè i moti segreti dell'animo sono tutto ciò che possediamo e tutto ciò che ci rende quello che siamo, e, per questo, vanno gelosamente custoditi e tramandati come eredità emozionale, che, attraverso un ricordo, riesce a definire una vita. E di fronte al nemico comune (il tempo) che sconfigge ogni forma di esistenza, il patrimonio dei sentimenti e dei ricordi è la sola causa per cui vale la pena lottare e, magari, morire. Affinché questi non si disperdano del tutto e per sempre, "come lacrime nella pioggia".

Voto:
voto: 3,5/5

sabato 7 ottobre 2017

It (It, 2017) di Andy Muschietti

La città di Derry nel Maine, apparentemente amena e tranquilla, nasconde un oscuro e terribile segreto: una mostruosa creatura diabolica, genericamente chiamata "It", che vive nelle fogne e si risveglia ogni 27 anni per uccidere bambini, di cui si nutre, facendo scempio delle loro carni innocenti. It è un essere antico, feroce e dotato di straordinari poteri mentali che gli consentono di apparire in modo diverso a seconda della situazione, assumendo la forma della paura più grande del malcapitato a cui appare. La connotazione prediletta dal mostro è quella del clown Pennywise, abilissimo ad attirare i bambini in una trappola mortale con i suoi modi ammiccanti, la cui apparizione è solitamente anticipata da un palloncino rosso. La tragica morte del piccolo George di sette anni, mutilato e trascinato in un tombino da Pennywise in una piovosa giornata di ottobre, spinge suo fratello maggiore Bill a mettersi sulle tracce della creatura per vendicarsi, liberando in tal modo la cittadina dalla sua malefica presenza e il suo animo dal peso del senso di colpa. A lui si uniscono altri sei adolescenti coraggiosi (cinque maschi e una femmina, la risoluta Beverly) dando vita al così detto "Club dei Perdenti", la cui missione imperativa è quella di distruggere It. Ma il mostro ha tante facce quante risorse e sa usare il potere della paura a suo vantaggio per infiacchire gli avversari, che potranno opporre strenuamente soltanto il loro coraggio e la forza della coesione di gruppo. Stephen King è il più grande e famoso scrittore horror contemporaneo, capace di creare incubi per i lettori di tutto il mondo da oltre 40 anni senza dare ancora segni di stanchezza o di cedimento. Tra i suoi tanti romanzi, che annoverano diversi capolavori, "It" (1986) è probabilmente il migliore, sicuramente il più personale, allegorico, rappresentativo e annoverabile come manifesto ideale delle sue ossessioni tematiche. "It" è un libro "fiume" (la versione italiana conta quasi 1.300 pagine) di oscura fascinazione e di debordante genialità che ha segnato l'immaginario di almeno due generazioni di appassionati di horror, influenzando pesantemente l'intero genere, anche dal punto di vista cinematografico. Chi conosce il romanzo sa perfettamente le difficoltà intrinseche al suo adattamento per il grande schermo, non solo per la lunghezza ma soprattutto per i numerosi personaggi, tutti splendidamente caratterizzati, per le atmosfere inquietanti, le invenzioni fantastiche e  i continui salti temporali: la storia si svolge infatti in due parti che corrispondono ai due scontri tra il mostro e i "perdenti", uno che avviene nel 1958, in cui i "perdenti" sono adolescenti, e uno che ha luogo 27 anni dopo, con i protagonisti adulti che tornano a Derry per mantenere fede al loro giuramento dopo il nuovo risveglio di It. Non a caso ci sono volute tre decadi (!) per vedere realizzata la prima vera trasposizione cinematografica del libro cult del bardo del Maine, se si esclude la serie televisiva in due parti del 1990 (con un magnifico Tim Curry nel ruolo di Pennywise) che, nonostante le numerose ingenuità e approssimazioni, ebbe comunque un buon successo di pubblico e vanta ancora oggi schiere di ammiratori nostalgici. Tutto questo ha reso il film dell'argentino Andrés Muschietti l'horror più atteso dell'anno e, probabilmente, del decennio. La pellicola, che ha avuto uno straordinario successo al botteghino, impensabile in codeste proporzioni, racconta solo la prima metà del libro di King (con i "perdenti" adolescenti impegnati contro la creatura demoniaca), spostando l'ambientazione dagli anni '50 agli anni '80 ed abolendo i salti temporali in favore di una struttura lineare ben più semplice. La seconda parte sarà raccontata in un secondo film, a questo punto ancora diretto da Muschietti visto l'alto gradimento di pubblico e critica, che uscirà nelle sale ad ottobre 2018. Diciamo subito che questo primo capitolo della sfida tra It e i "perdenti" è un horror realizzato con grande capacità tecnica e con evidente "amore" per l'opera ispiratrice, felicissimo nelle ambientazioni e nella scelta dei protagonisti e totalmente fedele allo spirito del romanzo, nonostante le inevitabili omissioni e differenze dovute alle esigenze di un mezzo totalmente diverso come il cinema. Lo spettacolo e la suspense sono assicurati e i fans di King troveranno pane per i loro denti nelle numerose scene di paura costruite con sapienza e con un'audacia splatter atipica per un prodotto hollywoodiano come questo. La potenza delle pagine del libro nella celebrazione nostalgica della magia e del potere immaginifico dell'infanzia viene egregiamente catturata e restituita da immagini fortemente evocative, da magnifiche sequenze corali e da un senso dolce amaro di malinconia per la "bella età", che rende quest'opera non troppo distante dallo splendido Stand by me di Rob Reiner, che resta a tutt'oggi una delle migliori trasposizioni cinematografiche di un racconto di King. Risulta invece meno evidente il sottile livello metaforico presente nel sottotesto di "It", in cui appare ben chiaro come il cuore della vicenda sia la perdita dell'innocenza, la paura di crescere e la fine dell'infanzia, che viene "assassinata" impunemente dal male presente nel mondo degli adulti, di cui It/Pennywise è solo il mero simbolo fantastico. Anche la scelta (tipicamente hollywoodiana) di rinunciare a una delle sequenze più forti, scabrose e possenti del romanzo (il rapporto sessuale di gruppo che Beverly decide di consumare con tutti i "perdenti" per rafforzare la loro unione con un gesto rituale) è un punto a sfavore che di certo lascerà l'amaro in bocca ai fans incalliti dell'opera letteraria. In ogni caso siamo di fronte a una pellicola accattivante, agile e ben sopra la media del genere, carica di suggestioni e di momenti memorabili (assolutamente straordinaria la tragica scena simbolo iniziale dell'omicidio del piccolo George), che lascia ben sperare per l'epilogo dell'anno prossimo. Nel cast i più bravi sono Sophia Lillis (Beverly), Jaeden Lieberher (Bill) e Bill Skarsgård nell'iconico ruolo di Pennywise, che, esattamente come fatto da Heath Ledger con il Joker rispetto alla precedente interpretazione di Jack Nicholson, adotta un registro recitativo totalmente diverso da quello di Tim Curry, rendendo il suo clown più viscido, mellifluo e crudele. E per "It parte II" già si fa il nome di Jessica Chastain per interpretare la Beverly adulta. Non c'è che da augurarselo e aspettare il ritorno di Pennywise dall'oscurità delle fogne di Derry, città immaginaria inventata da King ispirandosi alla sua Bangor, segno chiarissimo dell'impronta autobiografica e psicoanalitica dell'opera in cui la componente ambientale ha un ruolo decisivo (e mostruoso per la sua ferocia) nella fine prematura della magia infantile. E chi pensa, ingenuamente, che "It" (il romanzo) parli solo di mostri soprannaturali, di pagliacci sadici e di omicidi efferati, è caldamente invitato a riflettere in merito. "It" è un intenso elogio della fantasia dell'infanzia, di cui esalta l'incantata lievezza e lo spudorato potere, pur tracciandone un mesto epitaffio rievocativo, perchè il mostro che mangia i bambini altro non è che la crudeltà dell'età adulta che divora tutto il bello dello spirito infantile. Ed è proprio questo efficace simbolismo fiabesco che ha decretato il grande successo popolare del libro, per la sua capacità di far vibrare nel profondo corde emotive presenti in ognuno di noi.

Voto:
voto: 3,5/5

giovedì 5 ottobre 2017

madre! (mother!, 2017) di Darren Aronofsky

Una coppia sposata vive serenamente in una grande casa isolata circondata dalla vegetazione. Lei è una giovane donna che si è dedicata totalmente al suo uomo e alla ricostruzione metodica del loro nido, dopo che questo è stato distrutto da un incendio. Lui è un famoso scrittore di mezza età in crisi di ispirazione, troppo preso dal suo lavoro e poco attento ai reali bisogni di lei. La loro quiete apparente viene turbata dall'arrivo di una serie di intrusi: un medico in cerca di alloggio che si rivela ben presto un grande ammiratore del poeta, la sua consorte sfacciata e invadente e i loro due figli maschi che litigano aspramente per questioni di eredità. La situazione degenera con conseguenze incredibilmente violente e, mentre il numero di "invasori" continua a crescere, i due coniugi appaiono sempre più divisi nell'atteggiamento: lui è visibilmente lieto della caotica compagnia di estranei che lo adulano impunemente, alimentando il suo narcisismo, mentre lei cade in uno stato di depressione e isteria, intollerante della profanazione del suo regno. Una gravidanza improvvisa riporterà per un po' tutto alla normalità, ma ben presto darà inizio ad un incubo ancora peggiore. Il settimo lungometraggio di Darren Aronofsky, autore talentuoso e allucinato, devoto ad un cinema esasperato che ruota intorno alle ossessioni, è probabilmente il film più discusso e controverso della stagione 2017. Presentato in anteprima al Festival del Cinema di Venezia è stato accolto da bordate di fischi, provocando reazioni estreme, molta indignazione e ottenendo sparuti consensi da parte dei critici. Trattasi di un'opera complessa, provocatoria, ruvida, delirante, a tratti sgradevole, indubbiamente pretenziosa nella sua concezione e inevitabilmente destinata a dividere per la sua carica ambigua costruita con truce effettismo. Forte di un cast di stelle che annovera Jennifer Lawrence, Javier Bardem, Ed Harris, Michelle Pfeiffer, Domhnall Gleeson e Brian Gleeson, questo dramma surreale travestito da thriller/horror sconfina spesso nella commedia nera grottesca, con cadute nel kitsch e nel macabro. Senza svelare troppo sulla trama, per non rovinare la visione allo spettatore, possiamo dire che madre! è essenzialmente una tetra metafora del processo creativo (inteso in senso artistico, sacro e biologico), appesantita da un tripudio orgiastico e talvolta dissennato di simbolismi eterogenei, indubbiamente affascinanti ma che danno l'impressione di procedere per accumulo sregolato. Tra questi citiamo innanzi tutto le innumerevoli allegorie religiose (il Creatore, la (madre) Natura, l'Eden, il frutto del peccato, Adamo ed Eva, Caino e Abele, il diluvio universale, il Nuovo Testamento, il Messia, l'ultima cena, l'Apocalisse) che suggeriscono, come possibile chiave interpretativa, un'ardita rivisitazione del testo biblico. Ma c'è anche molto altro nel film di Aronofsky: apologia ecologista, ambizioni omeriche, critica del divismo, divagazioni metafisiche, pessimismo antropologico, contrapposizione tra maschile e femminile. E se l'approccio concettuale è encomiabile per personalità e ricerca di originalità, la mano tipicamente pesante dell'autore finisce per sovraccaricare tutto (che è indubbiamente anche troppo per un film solo) con barocchismi ed eccessi, a danno della sottigliezza introspettiva e della profondità analitica. Nella grande squadra di attori la Lawrence e la Pfeiffer sono le più brave e rubano la scena a tutti. Il punto esclamativo del titolo può essere idealmente usato come simbolo pregnante di ciò che è questo film: un'odissea allegorica supponente e accattivante che non ha mezze misure e che sarà odiata o amata più o meno per gli stessi motivi. In perfetto stile Aronofsky.

Voto:
voto: 3/5

martedì 3 ottobre 2017

Personal Shopper (Personal Shopper, 2016) di Olivier Assayas

Maureen è una giovane americana che vive a Parigi dove lavora come "personal shopper" (addetta alla scelta e all'acquisto di costosi capi e accessori di alta moda) per la sofisticata Kyra, ricca celebrità dal carattere difficile, sempre impegnata tra eventi mondani e cause ambientaliste. Maureen è anche una ragazza inquieta e tormentata, dalla personalità sfuggente e dotata di poteri medianici che le consentono di comunicare con le anime dei trapassati. Ed è proprio per questo che ha deciso di restare in Francia, alla disperata ricerca di un segno tangibile da parte del fratello gemello Lewis, improvvisamente scomparso a causa di una malformazione cardiaca di cui anche lei è affetta. Una lunga serie di messaggi ricevuti sul cellulare da parte di uno sconosciuto, che sembra sapere tutto di lei e dei suoi spostamenti di lavoro, la scuoteranno nel profondo, facendole sperare che il misterioso interlocutore possa essere lo spirito dell'amato fratello morto. Affascinante e tortuosa opera di Olivier Assayas, formalmente sperimentale, concettualmente liquida, narrativamente ambigua e visivamente straniante. Sotto la patina fredda ed elegante di un film di genere si cela una complessa ed ellittica metafora sulla ricerca dell'identità attraverso un sofisticato meccanismo astratto di simbolismi, suggestioni e apparizioni che sembrano riflettersi nella solitudine stessa della protagonista, come in uno specchio inconscio. Personal Shopper è un film concettuale, ambizioso e spiazzante che attraversa quasi impunemente diversi generi (la ghost story, il dramma esistenziale, il giallo, il thriller psicologico), toccando in maniera sottilmente cerebrale una vasta gamma di tematiche e sottotesti quali il disagio interiore, l'elaborazione di un lutto, l'esistenza dell'aldilà, la misera vanità di una società dedita al culto dell'apparire, l'ingerenza dei mezzi tecnologici nella nostra vita. E' anche un film fatto di contrasti stridenti: presenza e assenza, paura e desiderio, corpo e anima, ragione e istinti, vestizione e svestizione, realtà e sogno, vita quotidiana e la sua smaterializzata percezione. Strizzando spesso l'occhio a grandi maestri del cinema psicologico come Bergman, Polanski, De Palma e persino Hitchcock, l'autore realizza un rarefatto caleidoscopio di immagini glaciali e feticiste, intese a perseguire il difficile processo di "identificazione di una donna" (Maureen) per mezzo di un diabolico gioco di incastri psicoanalitici che trovano la loro "chiosa" nel finale tanto enigmatico quanto intrigante. Non c'è dubbio che si tratti di un film non facile e suscettibile di svariate interpretazioni, un'opera da "Cahiers du Cinéma" destinata a far discutere e a dividere, come accaduto al 69° Festival di Cannes dove è stato accolto da bordate di fischi alla sua presentazione, salvo poi vincere l'ambito Prix de la mise en scène alla migliore regia. Da sottolineare l'intensa performance recitativa di Kristen Stewart (probabilmente la migliore della sua carriera) nel ruolo della protagonista. E una delle possibili (e numerose) chiavi di lettura dell'opera potrebbe proprio essere quella di un ardito omaggio alla Stewart, nuova musa del regista francese, ammiccando, attraverso la progressione di ricerca interiore di Maureen, all'evoluzione del suo percorso artistico, passato inaspettatamente da banalità commerciali come la saga per teenager di Twilight a film d'autore di concezione "hipster".

La frase: "Lewis, sei tu ?"

Voto:
voto: 4/5

L'inganno (The Beguiled, 2017) di Sofia Coppola

Virginia, 1864, tre anni dopo l'inizio della guerra civile americana: ritrovato nel bosco con una grave ferita alla gamba dalla studentessa adolescente Amy, il soldato John McBurney, disertore nordista, viene accolto e curato nel collegio femminile diretto con rigidità dalla signora Farnsworth. Con il passare dei giorni le donne dell'istituto non vedono più un nemico nell'ingombrante ospite, ma un giovane bisognoso di assistenza e non privo di fascino, che in breve catalizza le attenzioni di tutte, suscitando pulsioni e desideri tanto difficili da confessare quanto da reprimere. In particolare l'insegnante Edwina Morrow e la giovane Alicia sono le più turbate dalla sensualità di McBurney che, a mano a mano che migliora fisicamente, dimostra di saper trovare le parole giuste per toccare il cuore di una donna. Trasformatosi in oggetto del desiderio da parte delle ragazze delle casa, il soldato finirà per mettere in crisi l'equilibrio conformista del mondo femminile di cui è entrato a far parte, innescando tensioni e violenze. Sontuoso dramma storico in costume diretto con sapiente maestria registica da Sofia Coppola, che supera brillantemente lo scoglio del remake di un classico degli anni '70 come La notte brava del soldato Jonathan di Don Siegel, a sua volta ispirato al romanzo "A Painted Devil" (1966) di Thomas P. Cullinan. Molto fedele nella trama al film originale con protagonista Clint Eastwood, questa nuova versione della regista newyorchese ne "tradisce" con personalità stile e spirito, scegliendo di percorrere una direzione tematica più sottile ed ambigua, e compiacendosi di un'estetica raffinata, opaca e cupa, che trova il suo tripudio nelle magnifiche sequenze a lume di candela, in cui la tensione dei dialoghi, il gioco degli sguardi, i fremiti sessuali e le sfumature psicologiche raggiungono vertici da grande cinema d'autore. Ancora una volta l'autrice ci immerge in un tormentato microcosmo femminile, dalla cui prospettiva la vicenda ci viene raccontata con algido rigore formale e suggestivo stile funereo, realizzando un possente affresco gotico e decadente del Sud degli Stati Uniti al tempo della guerra di secessione. La vibrante energia sovversiva del film di Siegel viene qui sostituita da atmosfere rarefatte e morbose, sospese tra ipocrisia cerebrale (le buone maniere, i rituali ossessivi, l'educazione repressiva, l'aspetto esteriore tutto compostezza e crinoline) e impulsi istintivi (ben simboleggiati fin dalla prima sequenza da una natura selvaggia e primordiale che sembra pervasa da un alone di morte). Nel torbido gioco di passioni, seduzioni, tradimenti e inganni, la Coppola mette in scena un perfido gioco di potere in cui la logica glaciale del mantenimento dello status quo diventa il simbolo tragico della razionalità perversa del conformismo, in nome della quale anche l'atto più spietato diventa la naturale conseguenza di un meccanismo cinicamente ineluttabile. Meno esplicito ma ugualmente pessimista rispetto al film di Siegel, la pellicola si congela in un'immagine finale memorabile, potente e terribile nel suo freddo immobilismo come un dipinto di Rembrandt. Ottima la prova corale del cast in cui vanno ricordati una Nicole Kidman combattuta tra severità e tentazioni, un ispirato Colin Farrell che dà vita ad un McBurney più viscido e sornione rispetto a quello di Eastwood, e poi un'intensa Kirsten Dunst (attrice feticcio della regista) ed una maliziosa Elle Fanning. L'approccio minimale della Coppola riesce nella non facile impresa di rinverdire un'opera di culto dei 70's come La notte brava del soldato Jonathan, in cui la sua ottica garbatamente femminista sa farsi pungente e spietata, assumendo a tratti i tempi e i modi del thriller psicologico che fila dritto come un treno verso l'epilogo funesto, ma con la grazia discreta di una tragedia classica. L'inganno ha vinto il Prix de la mise en scène per la migliore regia alla 70° edizione del Festival di Cannes.

Voto:
voto: 4/5