martedì 29 marzo 2022

Diabolik (2021) di Antonio Manetti , Marco Manetti

Clearville, anni '60. L'inafferrabile ladro mascherato Diabolik, di cui nessuno conosce la vera identità, semina il panico tra i ricchi abitanti, che sono vittime abituali dei suoi "colpi" ardimentosi, ed è l'ossessione del suo nemico numero uno, l'ispettore di polizia Ginko, che gli dà la caccia da anni ma arriva sempre con un attimo di ritardo. La città è in fremito per il ritorno della ricca e bellissima ereditiera Eva Kant, che porta con sè dal Sudafrica un gioiello di inestimabile valore chiamato il diamante rosa. Ginko è sicuro che Diabolik farà l'impossibile per rubarlo ed organizza un piano per utilizzare la donna come esca. Il vice ministro della giustizia, Giorgio Caron, da sempre innamorato di Eva, cerca di sedurla attraverso un subdolo ricatto, ma la ragazza è scaltra e determinata, e davanti al suo fascino persino il temuto Diabolik sarà colpito nel profondo. Tra doppi giochi, inseguimenti e colpi di scena, una passione inarrestabile scatta tra la sensuale bionda e l'imprendibile criminale, ma Ginko è un osso duro ed ha un inatteso asso nella manica da giocarsi. Questo poliziesco d'azione diretto dai Manetti Bros. (che lo hanno anche scritto insieme a Michelangelo La Neve), è il secondo adattamento per il cinema del celebre fumetto italiano di culto ideato dalle sorelle Angela e Luciana Giussani, che riscosse un grande successo popolare per tutti gli anni '60 e '70 e che ancora oggi viene regolarmente pubblicato con più di 900 albi all'attivo. Il primo adattamento fu quello, storico, kitsch, geniale, artigianale e visionario, portato in sala da Mario Bava nel 1968, con John Phillip Law, Marisa Mell e Michel Piccoli nei panni dei tre personaggi principali. C'era molta curiosità ed una notevole attesa per questa nuova trasposizione dei Manetti, arrivata dopo ben 53 anni dal film di Bava, che alla sua uscita fu largamente bistrattato dai più, ma amatissimo fin da subito dai critici francesi, per poi diventare, nel tempo, un autentico cult del nostro cinema di genere "eroico" degli anni d'oro. I due fratelli romani sono degli appassionati e profondi conoscitori del celebre fumetto nero delle Giussani e lo dimostrano ampiamente in questo giallo-thriller dalle atmosfere d'antan che è la fedele trasposizione dell'albo n.3, "L'arresto di Diabolik", pubblicato nel marzo 1963, il primo in cui compare il magnetico personaggio di Eva Kant, dark lady dallo "sguardo che uccide" e avanguardistico esempio di donna forte, sexy e pericolosa, che sa tenere testa ai maschi senza battere ciglio. Peccato però che il film risulti una totale delusione per una serie di macroscopici e imperdonabili difetti, che finiscono per oscurare del tutto le poche cose riuscite. Tra queste ultime vanno sicuramente citate le riuscite caratterizzazioni dei personaggi di Ginko e di Eva, rispettivamente interpretati da un malinconico Valerio Mastandrea e da un'abbagliante Miriam Leone, che, al netto delle sue non certo eccelse capacità di recitazione, risulta la perfetta incarnazione di Eva Kant per fisicità, sguardo, movenze e sex appeal. Ma le dolenti note arrivano invece dal protagonista, che appare totalmente inadeguato e sbagliato, un clamoroso miscasting per un attore indubbiamente molto capace come Luca Marinelli, che qui risulta maldestramente fuori luogo nei panni del "Re del terrore", sia per l'aspetto, sia per le movenze e, soprattutto, per le espressioni e per la voce. Il protagonista del film di Bava, l'americano John Phillip Law, interprete mediocre sbarcato da Hollywood in Europa a cercar fortuna, era fisicamente impeccabile per dar vita ad un Diabolik credibile, fascinoso, tetro e maledetto, e, grazie alla sapiente direzione del compianto Maestro ligure, ebbe anche il "merito" di parlare poco, aumentando la carica misteriosa del personaggio. Tra citazioni di Hitchcock, omaggi musicali alle sonorità di Bernard Herrmann, echi del "poliziottesco" anni '70 e rimandi alla trilogia di Fantomas di André Hunebelle, i Manetti costruiscono un film esile e senza una precisa identità (esattamente come il personaggio di Diabolik che cambia sempre faccia attraverso le sue famose maschere). Un film che si risolleva parzialmente nella parte finale, più vivace e fumettistica, ma che gira spesso a vuoto tra dialoghi banali, narrazione didascalica, una messa in scena che ha il sapore sciapo di una fiction televisiva della RAI ed una scarsa capacità di creare empatia tra lo spettatore e l'universo fittizio creato dalle Giussani (cosa che invece avveniva puntualmente nelle pagine dei cari vecchi tascabili pubblicati dalla casa editrice milanese Astorina). Va anche sottolineato come un ulteriore punto debole (che però riguarda, purtroppo, gran parte del cinema italiano contemporaneo) sia quello delle voci degli interpreti, spesso opache, anonime e poco comprensibili, impietosa evidenza del grande gap che oggi esiste tra i nostri attori ed i nostri doppiatori: con i secondi generalmente molto più talentuosi, accattivanti e credibili nella recitazione vocale, a discapito dei primi che, nella maggior parte dei casi, vengono selezionati principalmente in base alla fotogenia fisica. Nonostante gli esiti artistici zoppicanti ed un risultato al botteghino appena sufficiente, i Manetti Bros. sono già al lavoro per la realizzazione di due seguiti, che verranno girati contemporaneamente per ottimizzare i costi, con la conferma del medesimo cast, ma con un protagonista diverso nel ruolo cruciale di Diabolik: il romano naturalizzato canadese Giacomo Gianniotti. Staremo a vedere.

Voto:
voto: 2/5

mercoledì 23 marzo 2022

Final Destination (2000) di James Wong

Nell'attesa di imbarcarsi sul volo per Parigi insieme ai suoi compagni di classe, diretti nella capitale francese per una gita scolastica culturale, il giovane Alex ha un terribile incubo ad occhi aperti in cui "vede" il disastro aereo che li attende subito dopo il decollo, in cui tutti loro perderanno la vita. Profondamente scioccato decide di non partire e riesce a convincere cinque suoi amici a restare a terra con lui. I cinque rimangono atterriti e stupefatti quando vedono con i loro occhi l'aereo esplodere in fase di avviamento, proprio come Alex aveva predetto. I sei superstiti rafforzano il loro legame e si sentono dei "miracolati" dal destino. Ma la morte non ama lasciare i conti in sospeso e, di lì a poco, i ragazzi iniziano a morire uno per uno in circostanze efferate e rocambolesche. Questo teen-horror di James Wong, tanto spettacolare quanto stravagante nelle sue esagerazioni, è un film di suspense che sconfina spudoratamente nei territori del fantastico, ma è costruito su un'efficace idea di base, inizialmente pensata da Jeffrey Reddick come soggetto per un episodio di "X-Files". L'idea è quella della Morte, vista come un'oggettiva entità malefica, che utilizza artificiosi espedienti reali (ma poco realistici), per riscuotere impietosamente i propri "debiti" nei confronti di coloro che hanno osato sfidarla impunemente. A patto di accordarsi con la sospensione dell'incredulità necessaria ad un prodotto del genere, che ondeggia volutamente tra "X-Files" e "Ai confini della realtà", bisogna ammettere che il film scorre con ritmo veloce, ha degli efficaci momenti spaventosi e, pur nella prevedibilità del suo congegno di geometrico fatalismo, ci regala qualche brivido sincero nell'attuazione ingegnosa del piano della morte. Alla sua uscita riscosse un buon successo di pubblico, al punto da dare inizio ad una lunga saga (che consta di ben 4 sequel realizzati tra il 2003 e il 2011), via via sempre più ripetitiva, esagerata e fracassona. Nel cast di giovani attori spiccano Devon Sawa e la bella Ali Larter, mentre il caratterista Tony Todd (conosciuto dagli esperti del genere horror come protagonista della saga di "Candyman") interpreta il ruolo, piccolo ma essenziale, di colui che sa cosa sta accadendo e spiegherà ai ragazzi che sono stati segnati sulla lista della morte.

Voto:
voto: 3/5

Knock Knock (2015) di Eli Roth

Evan è un architetto di successo, ricco e affascinante, vive in una splendida villa da lui stesso arredata con grande eleganza, ha una bella vita, una bella moglie e una famiglia che adora. Rimasto da solo a casa per un intero weekend, si dedica alla sua passione giovanile per i dischi e la musica, ma riceve una visita inaspettata in una notte di pioggia torrenziale. Due giovani sconosciute avvenenti bussano alla sua porta bagnate fradicie, dicono di essersi perse e chiedono di poter entrare per fare una telefonata e chiamare un taxi. Sarà l'inizio di un angoscioso incubo. Strampalato thriller del sedicente regista horror Eli Roth, inutile remake del già dimenticabile Death Game (1977) di Peter S. Traynor, a cui il grossolano Roth aggiunge una maliziosa estetica ultra patinata, un simbolismo greve che oscilla tra populismo e misoginia, e maldestre velleità di critica sociale talmente esili da sciogliersi come neve al sole non appena i ruoli diventano chiari (ovvero a metà film). Nonostante l'assenza di sangue, atrocità e violenza esplicita, questo pruriginoso tripudio di inverosimiglianza è, concettualmente, un altro "torture-porn", in accordo allo stile del suo autore fondato sull'eccesso e sull'abuso di immagini o situazioni rivolte a colpire lo spettatore nella maniera più diretta. L'estrema cura formale non riesce a celare la sua natura intima di B-movie, specialmente nella seconda parte in cui, tra dialoghi assurdi e svolte narrative imbarazzanti, si sfiora spesso il ridicolo involontario. In questa stramba rivisitazione del tipico "home invasion", persino l'appeal naturale dei tre interpreti principali (Keanu Reeves, Ana de Armas e Lorenza Izzo) svanisce sotto un accumulo di eventi implausibili, gettati lì alla rinfusa con voyeuristica frenesia. L'attrice Colleen Camp, che nell'originale del '77 interpretava una delle due protagoniste, fa una piccola apparizione in un cameo.

Voto:
voto: 1,5/5

Fucking Åmål - Il coraggio di amare (Fucking Åmål, 1998) di Lukas Moodysson

Ad Åmål, piccola cittadina svedese dove non succede mai niente, due ragazze adolescenti, Agnes ed Elin, si innamorano e trovano il coraggio di rendere pubblica la loro relazione, sfidando le critiche scandalizzate dei moralisti bacchettoni e gli sfottò maliziosi dei coetanei. Agnes è bruna, timida e profondamente infelice. Elin è bionda, energica ed espansiva. Insieme le due riescono ad affrontare, non senza difficoltà, i giudizi taglienti di un contesto sociale arretrato che ritiene il loro sentimento immorale. Coinvolgente lungometraggio di esordio dello svedese Lukas Moodysson, che lo ha scritto e diretto all'insegna di un intenso naturalismo, disarmante per sincerità e graffiante per sottigliezza dell'analisi. E' un film semplice, schietto, libero e liberale, una immersione realistica e quasi senza filtri nel mondo degli adolescenti dell'estrema provincia svedese alle soglie del nuovo millennio. La love story tra le due protagoniste viene raccontata con spontanea freschezza, senza retorica e senza preconcetti giudicanti, ma gli interessi dell'autore gravitano principalmente intorno allo scandaglio del contesto sociale circostante, effettuando, da un lato, una lucida istantanea generazionale e, dall'altro, un affresco antropologico al vetriolo sul provincialismo borghese della Svezia che non ti aspetti: quella lontana dai grandi centri urbani e da quello stereotipo di spudoratezza sessuale che, fin dagli anni '60, alimentò un certo immaginario maschile in molti paesi collocati ben più a sud (con l'Italia in prima linea). Chi è cresciuto con il "mito" delle svedesi alte, bionde, procaci e "disponibili", dovrebbe quasi obbligatoriamente guardare questo film, per rendersi conto che nessun luogo è esente dai luoghi comuni e che la realtà è sempre molto più complessa dei superficiali cliché nazional-popolari. Forte di una sceneggiatura solida, di dialoghi secchi, di un'ambientazione pregnante e di due interpreti bravissime (Alexandra Dahlström e Rebecka Liljeberg, che sono anche le uniche due attrici professioniste del cast), questo piccolo grande dramma sentimentale è uno schiaffo alla "fottuta Åmål", utilizzata come simbolo di una società ipocrita che sbandiera in giro apertura mentale, emancipazione dei costumi e tolleranza delle diversità solamente fino a quando la questione rimane nel teorico e non intacca in modo diretto i propri interessi personali. Perchè, in quel caso, pur di difendere la reputazione privata, ecco che gli slogan liberali si trasformano puntualmente in reprimende conformiste. A tutto questo si oppone la vitalità ribelle di Elin e Agnes, tessendo un inno all'amore, alla libertà e alla difformità, con una messa in scena asciutta che è poco stile ma tutta sostanza. Alla sua uscita il film ottenne un enorme successo in patria e divenne un autentico fenomeno di costume al di là di ogni aspettativa, al punto di lottare testa a testa, in termini di incassi al botteghino, con il campione mondiale del box office di quel periodo: il pluripremiato Titanic di James Cameron.

Voto:
voto: 4/5

La tela dell'inganno (The Burnt Orange Heresy, 2019) di Giuseppe Capotondi

Un affascinante critico d'arte, James Figueras, si reca insieme alla sua ragazza Berenice, da poco conosciuta durante una delle sue conferenze, in una splendida villa sul lago di Como, residenza abituale di Joseph Cassidy, un ricco collezionista di opere d'arte. Cassidy ha convocato il noto critico per proporgli un affare: lui gli consentirà di intervistare il grande Jerome Debney, leggendario pittore ritiratosi in un volontario esilio da circa 50 anni, in cambio del furto di una tela che Debney custodisce gelosamente, una delle poche scampate ad un incendio che ne ha distrutto gran parte della collezione. Opera seconda di Giuseppe Capotondi, scritta dall'americano Scott B. Smith come adattamento del romanzo "Il quadro eretico" di Charles Willeford. E' un noir in cadenze da thriller ambientato nell'affascinante mondo dell'arte, dei pittori e dei collezionisti, forte di ambientazioni sontuose e di atmosfere glaciali, con l'azione spostata dalla Florida alla Lombardia (Milano, Como) e con un bel cast internazionale che annovera nomi come Donald Sutherland, Claes Bang, Elizabeth Debicki ed il celebre frontman dei Rolling Stones, Mick Jagger. Tra suggestioni hitchcockiane, colpi di scena ad effetto ed un costante senso di minaccioso sospetto che aleggia sui personaggi fin dalle prime scene, questo film sul tema della manipolazione della verità, in cui i quadri rappresentano il simbolo nobile di una purezza astratta da preservare dai filtri retorici che intendono etichettarli, è come un puzzle fatto di incastri progressivi, invero non tutti congrui e non sempre equilibrati, alla ricerca del vero che si nasconde dietro la maschera che ciascuno indossa. Complessivamente risulta più ambizioso ma meno riuscito del lungometraggio di esordio dell'autore, La doppia ora (2009), eppure ha con esso una naturale affinità in termini di stile, tematiche e intenzioni. Il ragionamento contenuto nel sottotesto sullo sguardo che "profana" e corrompe l'armoniosa magia dell'arte e sull'aura che inevitabilmente alimenta il mito di ciò che resta nascosto, è intrigante, ma qui viene portato (specialmente nella parte finale) verso lidi di artificioso estremismo. Orientarsi nel labirinto concettuale tra ciò che è falso, ciò che è vero e ciò che è una copia sarà impresa ardua per lo spettatore, ma anche uno stimolo per immergersi in un universo di matrice allegorica che allude, evidentemente, al contemporaneo sociale. In generale i momenti ironici, in cui il regista prende in giro la vanità, l'avidità o il conformismo modaiolo dei tanti "soloni" che gravitano intorno al mondo dell'arte, funzionano meglio di quelli thriller, in cui il film talvolta indulge in qualche inciampo illogico di troppo. Presentato in anteprima come pellicola di chiusura della 76° edizione del Festival di Venezia, in Italia non è mai stato distribuito nelle sale, ma è uscito direttamente sui canali televisivi di SKY Cinema.

Voto:
voto: 3/5

La doppia ora (2009) di Giuseppe Capotondi

Sonia è una ragazza slovena che vive a Torino dove lavora come cameriera d'albergo. Attraverso un'agenzia che organizza "speed date" per far incontrare "cuori solitari", conosce Guido, un ex poliziotto ombroso che si occupa della sicurezza di una lussuosa residenza aristocratica collocata in un bosco, fuori dal centro abitato. Tra i due scatta la passione ma una tragedia inattesa li attende: durante una visita alla grande villa dove Guido lavora come custode, una banda di ladri armati irrompe nella casa e li immobilizza sotto minaccia per rubare tutte le opere d'arte e gli oggetti di valore. Ci scappa il morto, ma questo è solo l'inizio di un lungo incubo. Interessante esordio cinematografico del marchigiano Giuseppe Capotondi, passato dai videoclip musicali al cinema dopo una lunga gavetta, con questo cupo thriller onirico di suspense costruito sul confine tra inganno e verità, in un riuscito gioco di chiaroscuri che, fin dal terribile inizio straniante, lascia trasparire che le cose potrebbero non essere esattamente come sembrano. Senza svelare altro della trama, che prevede una serie di svolte e di sorprese, possiamo dire che questo film, passato praticamente in sordina nonostante la vetrina (e i premi) alla rassegna festivaliera veneziana, si avvale di riuscite atmosfere dark, di una sottile costruzione della tensione psicologica e di due personaggi ben delineati, ottimamente interpretati da Kseniya Rappoport e Filippo Timi. L'attrice russa, ormai stabilmente "adottata" dal nostro cinema dopo il suo folgorante esordio sotto la regia di Tornatore, ha ricevuto, per la sua performance dolorosamente intensa, la Coppa Volpi al Festival di Venezia 2009 come migliore interprete femminile. Alcune forzature macchinose pur presenti nell'impianto narrativo vengono risolte con agile disinvoltura grazie al buon lavoro di scrittura (la sceneggiatura è firmata da Alessandro Fabbri, Ludovica Rampoldi e Stefano Sardo), al talento degli attori che sanno rendere "credibile" il proprio tormento interiore e ad una regia accorta che, senza strafare, favorisce una più affascinante ambiguità di fondo rispetto alle risoluzioni nette. Il suggestivo epilogo è l'apice emblematico di questo discorso, ma probabilmente rende il film meno appetibile per il pubblico medio. Nonostante sia un'opera intima e di nicchia, si è spesso parlato di un possibile remake americano e, nel 2011, il regista Joshua Marston ha confermato l'avviamento del progetto. Un progetto che però, finora, non ha ancora visto la luce (ma non è detto che questo sia un male). Sul filo astratto della "doppia ora" (ovvero quell'istante fugace in cui ore e minuti si eguagliano e potrebbero avverarsi i desideri), questo fosco affresco di solitudini e di anime perse alla disperata ricerca di "qualcosa", possiede la personalità per affrancarsi come un tentativo diverso in un panorama cinematografico generalmente asfittico come quello italiano contemporaneo.
 
Voto:
voto: 3,5/5

venerdì 18 marzo 2022

Acque profonde (Deep Water, 2022) di Adrian Lyne

Vic e Melinda sono una coppia dell'alta borghesia di New Orleans. Vivono in una grande casa fuori città, hanno una splendida bambina e conducono una vita agiata e mondana tra feste e sollazzi. Lui è un genio diventato ricco per aver costruito un microchip che guida i droni militari dritti al bersaglio e adesso, nonostante la giovane età, vive di rendita dedicandosi alla famiglia e ai passatempi. Lei è una ragazza bella, vivace e spudorata, che intrattiene frequenti relazioni con altri uomini anche davanti agli occhi del marito, stuzzicandolo maliziosamente, e lui sembra accettare a malincuore perchè troppo innamorato di lei. Quando gli amanti di Melinda cominciano a sparire nel nulla, inizia a circolare la voce che Vic li abbia uccisi per gelosia. Cosa si nasconde dietro a questa strana coppia? Esattamente 20 anni dopo il suo ultimo lungometraggio, Unfaithful - L'amore infedele (Unfaithful, 2002), Adrian Lyne torna a dirigere un film adattando il romanzo omonimo di Patricia Highsmith, già portato al cinema nel 1981 dal francese Michel Deville con Eaux profondes, che vedeva come magnifici protagonisti due giganti della recitazione quali Jean-Louis Trintignant e Isabelle Huppert. L'inevitabile confronto con l'originale francese, di cui questo film costituisce un remake americano aggiornato al linguaggio dei nostri tempi, è impietoso e deficitario per la nuova versione, eppure il thriller erotico dalle suggestioni morbose e dalle atmosfere oscure dovrebbe essere una materia perfettamente nelle corde del regista inglese, che negli anni '80 e '90 aveva ottenuto grande successo di pubblico proprio cimentandosi con questo genere. Senza rivelare dettagli sull'evoluzione della trama possiamo dire che questo Deep Water è un falso giallo che ruota intorno alla tematica degli amori "malati", con tutte le relative implicazioni psicoanalitiche e sadomasochistiche, cercando di esplorare quel mondo misterioso, indefinibile e talvolta inquietante che è la sessualità. Tradimenti, delitti, erotismo audace, trasgressioni proibite e cupi risvolti psicologici sono tutti argomenti ricorrenti nella filmografia di Adrian Lyne, basti solo ricordare il celeberrimo (e sopravvalutato) Attrazione Fatale (Fatal Attraction, 1987) per capirlo. Ma il risultato finale è ampiamente deludente in questa pellicola che risulta scialba, dimessa, superficiale, mai veramente capace di assestare il colpo che non ti aspetti, il guizzo imprevedibile, ma che scorre via innocua senza mai riuscire a coinvolgere, a turbare, a sedurre o ad intrigare lo spettatore. I due protagonisti (Ben Affleck e Ana de Armas) fanno un discreto lavoro e non sono loro il problema maggiore di quest'opera esile, che paga lo scotto di una sceneggiatura inerte e di una regia poco coraggiosa, che non va mai oltre la patina ma si limita a girare intorno al cuore nero della vicenda. Anche le scene di sesso, di cui si era fatto un gran parlare prima dell'uscita (probabilmente per motivi pubblicitari) sono puramente convenzionali e nettamente al di sotto degli standard dell'autore. Paradossalmente, visto che stiamo parlando di un thriller psicologico di matrice erotica, le scene che restano più impresse sono quella della piccola Trixie (un vero splendore di bambina) che canta in macchina con suo padre e l'esecuzione canora di Ana de Armas che si cimenta (anche in un accettabile italiano ascoltabile nella versione originale) nell'esecuzione di un grande classico come "Via con me" di Paolo Conte. E questo la dice lunga sull'efficacia della trasposizione del torbido racconto della Highsmith, sempre interessata nelle sue opere al lato oscuro della natura umana.
 
Voto:
voto: 2/5

La persona peggiore del mondo (Verdens verste menneske, 2021) di Joachim Trier

Julie, giovane ragazza di Oslo, disinibita, irrequieta e mutevole, è giunta alla soglia dei 30 anni ma non sa ancora decidere su cosa fare "da grande". Umorale e incline a repentini cambiamenti, modifica di continuo le sue aspirazioni in ambito professionale e, nella vita sentimentale, salta con leggerezza da una relazione all'altra. L'incontro con Axel, scrittore di fumetti politicamente scorretti ben più grande di lei, sembra darle la sicurezza di una storia d'amore solida e concreta. I due decidono di convivere ma, ben presto, le differenze di vedute in ambito di costruzione di una famiglia insieme finiscono per allontanarli. Nonostante l'amore che li lega, la volubile Julie s'invaghisce di Eivind, un baldo giovanotto conosciuto ad una festa che la corteggia con stravagante sensualità. Combattuta tra fedeltà e tentazione, la donna entra in crisi e deve prendere una difficile decisione. Questa frizzante pellicola agrodolce, scritta e diretta con spigliata energia dal danese Joachim Trier, è un audace racconto di formazione in bilico tra commedia e dramma, pervaso da un romanticismo eccentrico, da un'ironia intelligente (e tipicamente nordica), da un fatalismo disarmante, da una sensualità morbida e da una briosa agilità, che gli consente di affrontare tematiche anche molto scottanti senza pedanterie seriose, ma con la grazia dell'incoscienza giovanile. Forte di una sceneggiatura eccellente, di un ritmo sciolto, di dialoghi pungenti e di una protagonista straordinaria, magnificamente interpretata dalla radiosa Renate Reinsve, questo autentico gioiellino norvegese, strutturalmente diviso in 12 capitoli, un prologo ed un epilogo, può essere visto come un lucido affresco delle nuove generazioni, con particolare riferimento all'universo femminile. Julie è l'emblema delle giovani donne moderne: libere, emancipate, inquiete, irrisolte, spavalde, smaliziate, ideologicamente lontane dai vecchi tabù e dai retaggi di un'epoca moralista che hanno sentito raccontare dai padri, pronte ad impugnare con decisione la loro vita, ma anche incapaci di farlo perchè confuse dalla vastità delle scelte, dall'apparente molteplicità di prospettive che, spesso, può provocare frustranti blocchi. Nell'attuale opulenza della privilegiata società occidentale i sogni sono smodati, le aspettative sono enormi, le esigenze sono complesse, le direzioni sono variegate e le possibilità sembrano infinite. Ecco quindi che troppe alternative rischiano quasi di diventare come nessuna alternativa e la troppa libertà, così come la ricerca della felicità ad ogni costo secondo modelli precostituiti, può provocare una vera empasse esistenziale, un blocco emotivo, una frustrante confusione sui propri reali desideri. L'amore, il sesso, le insicurezze sul futuro, la decisione di mettere al mondo dei figli, la paura di fallire, la difficoltà di essere compresi e accettati, i rapporti familiari, la mancanza di riferimenti saldi in un mondo troppo fluido e troppo veloce, e, non di meno, le maggiori problematiche nelle relazioni di coppia, dovute alla costante ridefinizioni dei "ruoli", vengono passate in rassegna con la giusta dose di arguzia e spudoratezza, mettendo al bando predicozzi, moralismi e cadute melense, persino nei momenti più drammatici. Anche le battute apparentemente strambe (come quella sul "pene flaccido") assumono un senso preciso nell'ottica di tratteggiare la personalità di Julie, la sua sensibilità ribollente e la sua tempesta interiore di pulsioni: la nostra "eroina" vuol essere artefice (e non solo partecipe) della propria vita, a cominciare dall'intimità sessuale, ma l'intenzione deve poi inevitabilmente scontrarsi con l'effettiva messa in opera. Diverse sono le sequenze notevoli degne di nota, che testimoniano la fertile ricchezza inventiva ed il gran lavoro di scrittura e regia: dal lungo corteggiamento trattenuto al primo incontro tra Julie ed Eivind alla visione di lei che corre nella città immobile (perfetta allegoria dell'estetica romantica ottocentesca di interiorizzazione della realtà), senza dimenticare la bellezza austera dei panorami scandinavi, la surreale scena del sogno lisergico ed il piccolo capolavoro finale del mondo esterno filtrato attraverso i colori della finestra. Il film ha ottenuto ottimi riscontri da parte della critica, due candidature pesanti agli Oscar 2022 (miglior film straniero e migliore sceneggiatura) ed ha vinto (meritatamente) il Prix d'interprétation féminine al Festival di Cannes per la splendida Renate Reinsve.

Voto:
voto: 4/5

mercoledì 16 marzo 2022

Le streghe di Salem (The Lords of Salem, 2012) di Rob Zombie

La bionda Heidi fa la DJ in una radio di Salem, Massachusetts. La cittadina di provincia è tristemente nota per un lugubre evento accaduto nel 1692, quando 19 donne (passate poi alla storie come "streghe di Salem") furono processate e condannate al rogo con l'accusa di stregoneria da parte di un sistema di potere fanatico, misogino, superstizioso e sanguinario. Heidi è ignara di questi vecchi fatti ma, dopo aver ascoltato un disco in vinile ricevuto in regalo da un anonimo misterioso, cade in una strana trance ossessiva che le fa perdere progressivamente il contatto con il mondo reale, come se fosse posseduta da una forza diabolica. Dopo la diffusione via radio della musica del disco, anche altre donne sembrano avere le stesse allucinazioni di Heidi. E' soltanto l'inizio di un terribile incubo, che sembra riportare direttamente ad un'antica maledizione lanciata da una delle donne bruciate vive 300 anni prima. Il quinto lungometraggio horror diretto dal cantante regista Rob Zombie, che lo ha anche scritto e prodotto, è, da un lato, un ritorno alle sue origini (il nostro è nato e cresciuto nella contea di Essex, in cui sorge la città di Salem) e, dall'altro, un tentativo solo parzialmente riuscito di fare un film diverso rispetto al suo stile, meno truce, meno efferato, ma più basato sulle atmosfere malefiche, sugli spettri del passato, sull'inquietudine strisciante, lasciando fuori fuoco spiegazioni ed elementi macabri. Se l'intento è lodevole e l'ambizione è alta, il risultato non è pienamente convincente, perchè Zombie è un regista viscerale, decisamente più a suo agio con la sciabola che con il fioretto, e, in questo caso, stenta a trovare il giusto filo narrativo, girando talvolta a vuoto. Però dal punto di vista tecnico la pellicola è pregevole, l'autore conferma la sua attitudine di visionario "maledetto" e la sua voyeuristica passione per il (bel) corpo della moglie Sheri Moon, a cui offre, per la prima volta, il ruolo di protagonista assoluta. Questo gotico moderno con le radici piantate in un oscuro passato di violenze, abusi e superstizioni all'alba della nazione americana, gioca con la fascinazione del male, con le suggestioni sinistre e cerca ardite connessioni con il cinema di Roman Polanski o di Ken Russell, dal cui talento però Rob Zombie è parecchio lontano. Ma il cambiamento estetico e la ricerca di un diverso registro espositivo sottintende un approccio autoriale al genere horror, ponendo il regista su un livello diverso (e più elevato) rispetto ai tanti mestieranti di categoria, che si limitano ad un bieco accumulo di scioccanti truculenze per fini puramente commerciali. Anche in questo film fa la sua apparizione il caratterista Sid Haig, interprete "feticcio" di Rob Zombie, scomparso nel 2019.

Voto:
voto: 3/5