venerdì 30 luglio 2021

A Classic Horror Story (2021) di Roberto De Feo, Paolo Strippoli

Cinque persone viaggiano in un camper attraverso le zone boscose dell'Appennino calabrese. Fabrizio, giovane studente di cinema, è il conducente e proprietario del veicolo. Gli altri, che si sono aggregati utilizzando un'applicazione di car-pooling, sono una giovane coppia di turisti, un medico scontroso e una ragazza (Elisa) che ha appena scoperto di essere incinta e sta raggiungendo la sua famiglia per interrompere la gravidanza. A causa di un incidente stradale rimangono bloccati in una remota regione montana, priva di segnale per i telefoni cellulari. Al calare della notte decidono di ripararsi in una strana casa posta in una radura nel cuore del bosco. Sarà l'inizio di un incubo. Stravagante e interessante lungometraggio della coppia di giovani registi De Feo-Strippoli, prodotto e distribuito da Netflix sulla sua piattaforma di streaming. E' ascrivibile al particolare sottogenere denominato folk horror (che ebbe il suo più autorevole capostipite in The Wicker Man (1973) di Robin Hardy), contaminandolo con parossistica esasperazione con un citazionismo spudorato (tra i riferimenti più ovvi possiamo ricordare Midsommar - Il villaggio dei dannati (Midsommar, 2019) di Ari Aster, La casa (The evil dead, 1981) di Sam Raimi e Quella casa nel bosco (The Cabin in the Woods, 2011) di Drew Goddard), con un utilizzo beffardo del metacinema, con atmosfere che guardano al postmodernismo degli anni '90 e con un'ironia sarcastica che pone l'accento sulla lunga crisi del cinema horror italiano e sulle "cattive abitudini" degli spettatori, spesso prevenuti, sommari e conformisti nei giudizi. C'è molto e forse troppo in questo straniante horror nostrano, che alterna sequenze macabre a momenti semiseri il cui intento finale è quello di prendere in giro sè stesso e il pubblico, allo scopo di indurre una riflessione derisoria (ma la vera domanda è: quanti tra gli spettatori si renderanno conto che si sta parlando anche di loro e faranno eventuale auto-ammenda?). Esteticamente pregevole, ma non privo di qualche involontario scivolone nel trash folcloristico, va a pescare nel ricco materiale delle tradizioni locali per cucirsi addosso, sardonicamente, un'aura mitologica (la leggenda di Osso, Mastrosso e Carcagnosso, i tre fantomatici fratelli e cavalieri spagnoli che, fuggiti in esilio nel sud Italia, avrebbero fondato le tre principali organizzazioni mafiose: mafia, camorra e 'ndrangheta). Lo scopo caustico degli autori è evidente fin dal titolo, in antifrasi con un film che è tutto tranne che "classico". Nel cast spicca la protagonista, Matilda Lutz, molto bella e molto brava. Efficace l'utilizzo musicale antitetico di popolari hits italiane associate a sequenze horror scioccanti e particolarmente suggestivo il finale (che sembra alludere vagamente a metafore sulla natalità).

Voto:
voto: 3/5

martedì 27 luglio 2021

El Camino: Il film di Breaking Bad (El Camino: A Breaking Bad Movie, 2019) di Vince Gilligan

Dopo il meritato e straordinario successo mondiale della serie televisiva di culto Breaking Bad, il suo creatore Vince Gilligan ha pensato di produrre, scrivere e dirigere questo sequel cinematografico di chiara matrice nostalgica, che riporta sullo schermo i personaggi principali dello show attraverso una doppia struttura narrativa: quella basilare che prende le mosse dagli eventi finali dell'ultima puntata della stagione conclusiva e si concentra sulle vicende che riguardano Jesse Pinkman (Aaron Paul), ed una serie di flashback sfasati, temporalmente collocabili in momenti diversi dei vari fatti raccontati nel serial. Pinkman, sopravvissuto alla memorabile puntata finale del settembre 2013 ("Felina") è il protagonista assoluto di questo film insolito (e inevitabilmente "monco", perchè necessita della conoscenza di quanto accaduto nella serie), chiaramente dedicato ai (e apprezzabile dai) numerosi fans di Breaking Bad. L'altro personaggio a cui viene dato un certo spazio è l'inquietante Todd Alquist di Jesse Plemons, di cui vengono mostrate (in sequenze retrospettive) le sinistre attitudini criminali e il suo rapporto di carnefice con Pinkman. Più che un film brutto è un film irrisolto e incompiuto, che da un lato non si regge da solo sulle proprie gambe e, dall'altro, non riesce ad aggiungere molto altro a quanto già detto nello show ispiratore, che esce quindi ulteriormente rafforzato nella sua esaustiva perfezione da questo tentativo più ardimentoso che realmente ispirato. Al di là del piacere che tutti gli ammiratori di Breaking Bad proveranno nel rivedere in scena dei volti noti e amati (di cui ci guardiamo bene dal rivelare i nomi), anche solo per un brevissimo cameo, la pellicola non offre molto altro, per quanto gli attori (in particolare Aaron Paul e Jesse Plemons) confermino il loro talento e la propria alta capacità di immedesimazione in dei ruoli importanti per la loro carriera, e che hanno evidentemente amato al di là della mera prestazione professionale. Il film è stato girato principalmente ad Albuquerque (la storica location della serie) e prende il titolo dall'automobile Chevrolet El Camino guidata da Pinkman nell'ultimo episodio dello show. Senza nulla togliere all'indubbia bravura dell'attore Aaron Paul, questa pellicola è anche la riprova di quanto il suo personaggio perda moltissimo in assenza del suo mentore Walter White, la vera anima del racconto, entrato nel cuore del pubblico grazie al perfetto lavoro di scrittura di Gilligan ed alla indimenticabile interpretazione di Bryan Cranston.

Voto:
voto: 2,5/5

Il giorno sbagliato (Unhinged, 2020) di Derrick Borte

Rachel, una giovane madre che sta accompagnando suo figlio a scuola in notevole ritardo, ha un alterco con un automobilista, Tom Cooper, per futili motivi di partenza ritardata alla luce verde del semaforo. Quello che la donna non può sapere è che Cooper, uomo depresso e disturbato con gravi problemi di gestione della rabbia, si trova decisamente nel suo "giorno sbagliato" e per lei e la sua famiglia sarà l'inizio di un sanguinoso incubo. Violento thriller urbano del tedesco Derrick Borte, che intende descrivere a tinte forti tutto l'orrore della società contemporanea in cui le voraci leggi del capitalismo su larga scala hanno imposto un modello di vita disumano, frenetico, competitivo, frustrante, egoistico e rancoroso: un quotidiano gioco al massacro dove molti sembrano essere sul punto di esplodere. Pur tra esagerazioni, effettismi brutali e forzature ideologiche, il tema della pellicola ha un suo oggettivo fondamento di verità, ma il suo intento di critica sociale appare velleitario e poco lucido, perchè al servizio di una logica di messa in scena spettacolare tipicamente hollywoodiana e di un divo come Russell Crowe che, imbolsito e a tratti decisamente spaventoso, riesce ad essere credibilmente efficace in un ruolo scomodo per la sua fama, ma finisce per cannibalizzare tutte le attenzioni, anche per colpa di una sceneggiatura che non brilla per originalità. E' pressoché inevitabile che la memoria corra immediatamente a Un giorno di ordinaria follia (Falling Down, 1993) di Joel Schumacher, un film molto simile a questo nelle premesse, nei temi e negli esiti, ma francamente più accattivante e riuscito nel suo intento di denuncia generalista. Completano il cast Caren Pistorius, Gabriel Bateman e Jimmi Simpson. Uscito in sala con notevole ritardo e con un numero di copie ridotte a causa della pandemia di covid-19, ha ottenuto comunque un discreto risultato al botteghino mondiale (probabilmente per il richiamo della presenza di Russell Crowe).
 
Voto:
voto: 2,5/5

Sound of Metal (2019) di Darius Marder

Ruben è un abile batterista con un passato di tossicodipendente, che vive in un camper insieme alla fidanzata Lou, di origine francese, con cui forma un duo musicale heavy metal che riscuote un discreto successo nei club della provincia americana. I due si amano teneramente e trascorrono un'esistenza randagia sulle strade d'America all'insegna di musica e intimità passionale, ma un'ombra oscura cova sotto la cenere del loro rapporto apparentemente solido. Quando Ruben si ammala di una grave forma di acufene improvvisa, che lo porta verso una inesorabile e progressiva sordità, i demoni del suo passato ricompaiono all'orizzonte. Lou lo abbandona in una comunità per sordomuti gestita da un rigido veterano di guerra, dove Ruben deve imparare un nuovo stile di vita, un nuovo linguaggio e una differente prospettiva da cui vedere le cose, per riuscire a convivere con la sua disabilità. L'uomo non si dà per vinto e lotta giorno per giorno, con il sogno di un costoso intervento medico, che potrebbe restituirgli l'udito attraverso l'installazione di un impianto elettronico semi-permanente. Il primo lungometraggio di Darius Marder è un intimo ed intenso dramma esistenziale che utilizza lo stile del documentario per raccontare in modo asciutto una storia di solitudine, senza orpelli retorici o effettismi gratuiti, ma con sguardo asettico ed estetica sobria, forte di un realismo scabro che persegue la totale immersione sensoriale dello spettatore nel mondo "disconnesso" del protagonista, attraverso un'ardito utilizzo di sperimentazioni sonore fatte di ronzii, rumori ovattati, distorsioni uditive, che ci restituiscono con aspro naturalismo la situazione di Ruben. E' un film esperienziale sullo smarrimento, con vaghi accenti metaforici che potrebbero suggerire un allargamento del discorso ad una generazione sbandata cresciuta senza miti e senza ideali, e "costretta" alla felicità in un'epoca di apparente benessere economico collettivo. La pellicola mette al centro il suono (in tutte le sue forme, assenza compresa) come filo conduttore di un viaggio attraverso l'alienazione, il male di vivere e l'istinto di conservazione, che spinge l'uomo a lottare per conquistare la seconda occasione, la catarsi salvifica. Non privo di qualche vezzo stilistico tipico di certo cinema indipendente americano, sa toccare con semplicità le corde emotive degli spettatori e si avvale di un finale ambiguo di mirabile potenza espressiva. Ha vinto due Oscar tecnici (montaggio e sonoro) ed ha ottenuto un vasto consenso di critica internazionale, riscuotendo anche un buon apprezzamento da parte del pubblico, nonostante la distribuzione in sala a tiratura limitata. Dal dicembre 2020 è stato reso disponibile sulla piattaforma di streaming Prime Video. Eccellente interpretazione del rapper attore anglo-pakistano Riz Ahmed, che ha meritatamente ricevuto la nomination agli Oscar come miglior protagonista. Abraham, fratello del regista, è coautore della sceneggiatura e della bella colonna sonora.
 
Voto:
voto: 3,5/5

Sex List - Omicidio a tre (Deception, 2008) di Marcel Langenegger

Jonathan McQuarry è uno zelante contabile di umili origini che lavora come revisore dei conti nel mondo dell'alta finanza newyorkese. Brillante nel suo lavoro ma impacciato nella vita privata, fa la conoscenza di Wyatt Bose, fascinoso avvocato rampante della upper class, che lo introduce nel mondo proibito della New York notturna. A causa di un fortuito scambio di cellulari con Wyatt e della prolungata assenza di lui per un viaggio di lavoro in Europa, il timido Jonathan entra a far parte di un riservato club di incontri sessuali occasionali, di cui fanno parte uomini e donne d'affari che cercano uno svago erotico trasgressivo senza coinvolgimenti e complicazioni. L'incontro con la bella e misteriosa S. farà perdere la testa al romantico contabile, che ben presto scoprirà anche il lato oscuro della seducente vita avventurosa in cui è entrato di soppiatto. Il primo (e finora unico) lungometraggio di Marcel Langenegger, regista svizzero proveniente dal mondo degli spot pubblicitari, è un thriller di suspense patinato e prevedibile che, tra brividi erotici, suggestioni da mistery e colpi di scena "telefonati", procede per accumulo di situazioni convenzionali fino al finale, che è un tripudio di banale implausibilità. Un'occasione decisamente sprecata alla luce di un cast di grandi attori (Ewan McGregor, Hugh Jackman e Michelle Williams) e della affascinante fotografia del nostro Dante Spinotti, che incornicia la New York di notte in una sontuosa confezione visiva. Ma, oltre alla regia inesperta, le colpe maggiori sono da attribuire decisamente alla fragile sceneggiatura di Mark Bomback, che zoppica vistosamente nei passaggi cruciali, cercando maldestramente di creare sorprese che non sono mai tali. Da segnalare un cameo di Charlotte Rampling nei panni di una matura (e famelica) "regina" di Wall Street. Il presunto tentativo di critica del dark side del capitalismo americano è stereotipato e incolore, totalmente privo del necessario mordente.

Voto:
voto: 2/5

lunedì 26 luglio 2021

Midsommar - Il villaggio dei dannati (Midsommar, 2019) di Ari Aster

La giovane Dani soffre per i disturbi psicologici della sorella bipolare che cerca spesso il suo aiuto con chiamate e messaggi preoccupanti, ma che lei scambia per morbose richieste di attenzione. Le sue convinzioni sono rafforzate dai discorsi del fidanzato Christian, che sembra premuroso e prodigo di consigli ma che in realtà vorrebbe rompere con lei e non ha il coraggio di dirglielo. La situazione familiare di Dani precipita in tragedia e lei si sente in colpa per averla evidentemente sottovalutata. Christian decide di invitarla per un viaggio in un remoto villaggio bucolico svedese insieme ad alcuni amici, in cui il gruppo di americani si aggrega alla strana comunità locale che vive all'insegna di arcani rituali sospesi tra il paganesimo e una forma di misticismo tribale che celebra la natura nelle sue forze più selvagge. Gli amici di Dani vogliono effettuare degli studi antropologici sugli abitanti del luogo, che si preparano ad una festa che occorre ogni 90 anni in onore del solstizio d'estate. Ben presto gli eventi assumeranno una piega sinistra e i riti dei nativi del villaggio riveleranno il loro lato inquietante. Il secondo lungometraggio di Ari Aster è un film lungo e teso, a tratti disturbante nei contenuti ideologici e nelle scene macabre, un folk horror ansiogeno e lisergico attraversato da sequenze shock, malia oscura e momenti di straniante ironia nera che ammiccano alla parodia metaforica e che svelano, tra le righe, il vero intento del regista: tratteggiare una cupa parabola, a due livelli, sulla natura umana e sugli orrori indicibili che albergano in essa. Mescolando esoterismo tetro, riti pagani, violenza primordiale e oscure pratiche ancestrali che rimandano alla sanguinaria tradizione celtica, l'autore mette in scena un horror tutto girato alla luce del sole, che viaggia sul contrasto tra l'abbacinante bellezza della campagna scandinava nel periodo in cui il sole non tramonta mai e il truce incubo di sangue con cui i protagonisti dovranno gioco forza fare i conti. La descrizione (molto dettagliata) dei due microcosmi umani che vengono messi a confronto (il gruppo di turisti americani e l'amena comunità svedese che obbedisce ad antiche leggi di brutale misticismo) pone l'accento sulle differenze ma, soprattutto, sugli aspetti comuni: se infatti la violenza dei nativi nasce da una fede di natura primordiale che si tramanda da generazioni, quella dei "civilizzati" ragazzi statunitensi è meno esplicita ma più subdola nel suo sottobosco di falsità, ipocrisie, immoralità celate, tradimenti ed egoismi. In tal senso non è scorretto affermare che il regista sia ben più critico verso la società americana (di cui mette in evidenza famiglie disfunzionali, rapporti ingannevoli e mancanza di empatia) rispetto alla inquietante comunità rurale svedese, la cui selvaggia purezza, sostenuta da un dogmatismo primitivo, appare tanto crudele quanto asettica, e sostenuto da uno spirito di collettivismo insano ma anche solido. Il cuore e il perno della vicenda risiedono nella protagonista Dani, interpretata magnificamente dalla bravissima Florence Pugh, attrice rivelazione degli ultimi anni sicuramente destinata ad una sfavillante carriera. La sua progressiva trasformazione, sia interiore che esteriore, sembra quasi suggerire il recupero di una dimensione esistenziale che guarda ai miti ancestrali e alla forza dell'istinto, come risposta alla deriva sociale dei modelli di vita occidentali, prigionieri di un materialismo spersonalizzante, obnubilati dalle leggi rapaci del consumismo e incapaci di vivere in reciproca armonia con i propri simili e con la natura. Il tentativo di connubio tra il cinema di genere e quello d'autore è in buona parte riuscito, in un film che però risulta a tratti un po' prolisso e dilatato, distogliendo l'attenzione dello spettatore dal senso intimo della storia. La pellicola lascia dentro, a fine visione, un senso di disagio con il suo epilogo di ambigua catarsi tragica, e questo lo rende un'opera decisamente interessante e sopra la media dei suoi simili. Anche gli appassionati dell'horror puro troveranno pane per i loro denti in alcune sequenze di forte impatto, realizzate con immagini di oscura suggestione onirica e con efficaci effetti visivi.
 
Voto:
voto: 3,5/5

giovedì 15 luglio 2021

Barry Seal - Una storia americana (American Made, 2017) di Doug Liman

Nel 1979 Barry Seal, scaltro e ambizioso pilota di aerei di linea che vive in Louisiana e si arrangia con il contrabbando, viene scoperto e reclutato dalla CIA per spiare le attività dei guerriglieri sandinisti in Nicaragua. Barry è costretto ad accettare ma, durante i suoi lunghi viaggi nel continente latino americano, scopre una serie di attività illegali che fanno al caso suo e che gli consentiranno di diventare ricchissimo. Prima opera come trasportatore di armi per i Contras nicaraguensi e poi farà il grande salto, accettando il ruolo di corriere della droga dalla Colombia agli USA, al servizio del Cartello di Medellin di Pablo Escobar. Ma, ovviamente, dove ci sono ingenti profitti e forti interessi economici, grandi sono anche i rischi. Dramma biografico di Doug Liman, scritto da Gary Spinelli e liberamente ispirato alla storia vera del pilota americano Barry Seal, contrabbandiere, spia del governo, trafficante di droga e poi informatore della DEA. Come si evince dal titolo originale il film è una parabola semiseria (con toni da commedia nera, scene di azione avventurosa e ambientazione crime) sul mito tutto americano del "self made man", in questo caso nella sua aberrazione distorta, criminosa e figlia di una ideologia arrogante e spudorata, tipica di molti strati sociali della popolazione statunitense, che antepone l'avida scalata economica e il brivido del potere ai valori morali e civili. Pur nella sua narrazione infarcita di luoghi comuni, effettismi ruffiani e semplificazioni spettacolari, il film ha scatto e agilità, si avvale di una perfetta ricostruzione del clima d'epoca, ha il merito di non prendersi mai troppo sul serio e poggia sulle solide spalle del suo protagonista, egregiamente interpretato da un Tom Cruise ormai maturo e perfettamente cosciente del suo ruolo naturale di star del cinema d'azione di intrattenimento popolare. Da quando il celebre attore ha definitivamente accantonato le sue ambizioni di sfondare nel cinema d'autore per conquistare la critica e vincere dei premi importanti, è diventato più credibile, più pragmatico e (forse) persino più simpatico. Lo supportano un solido cast di sostegno (Domhnall Gleeson, Sarah Wright, Jesse Plemons, Lola Kirke), un montaggio snello ed una regia col pilota automatico, che racconta una pagina nera della democrazia americana (con tutti i suoi sporchi giochi di potere, oscure connivenze e traffici criminali) con il tocco leggero di una beffarda autoironia.
 
Voto:
voto: 3/5

mercoledì 14 luglio 2021

Il nascondiglio (2007) di Pupi Avati

Davenport (Iowa), Stati Uniti: una donna italiana che vive in America viene dimessa dopo un lungo periodo di degenza in una casa di cura per malattie mentali, dove era stata ricoverata per una forte depressione (in seguito al suicidio del marito) che le provocava angoscianti allucinazioni. Tornata alla vita normale, la donna decide di realizzare il suo sogno di aprire un ristorante italiano in città e, per lo scopo, affitta ad un prezzo stracciato una vecchia dimora isolata, Snakes Hall, disabitata da più di 20 anni, che un tempo era stato un convitto di suore. Durante le notti da sola nel grande edificio, la donna inizia a sentire strani rumori e una voce lamentosa che sembra provenire da dietro le pareti. Nessuno le crede e lei prende a indagare sul passato dell'antica casa. Scoprirà che negli anni '50 in quel luogo è avvenuto un tragico fatto di sangue, con tre donne uccise in modo efferato in una notte di tempesta e le due giovani ragazze sospettate del crimine sparite nel nulla senza lasciare traccia e mai più ritrovate. Ma quello che lei crede di sentire è reale o sono soltanto nuove allucinazioni generate dalla sua mente ancora inferma? Il settimo film di paura di Pupi Avati (il secondo di ambientazione americana, di cui il nostro è nuovamente unico autore di soggetto e sceneggiatura) è un oscuro thriller psicologico che ruota intorno alla protagonista, interpretata con nervosa adesione dalla brava Laura Morante, intrecciando una lunga parte investigativa di matrice gialla (non sempre convincente nelle svolte narrative e nei personaggi di contorno), con una introspettiva dalle suggestioni horror che intende mescolare le carte, generare il patos e confondere lo spettatore. E' un film bifronte, in cui le scene ambientate in esterni, in una provincia statunitense luminosa e impenetrabile, sono prolisse, ridondanti, a volte poco plausibili, mentre quelle che si svolgono nell'interno della casa, tetre e inquietanti, costituiscono la parte migliore dell'opera. Nuovamente il regista bolognese dimostra tutto il suo mestiere e la sua naturale dimestichezza con la materia dell'horror: abilissimo nel creare atmosfere spaventose attraverso elementi semplici e arcani, preferendo suggerire piuttosto che mostrare, sospendere le attese invece che accelerare il ritmo. Il meccanismo funziona egregiamente e la pellicola trova i suoi momenti di forte impatto negli orrori del passato, nei rumori, nelle voci sinistre, nei cunicoli nascosti, nelle scenografie gotiche, in bilico tra incubo e realtà. Il cast anglofono (in cui appaiono Rita Tushingham, Burt Young e Treat Williams) sembra meno a suo agio di quello nostrano, forse perchè Avati gira un film intimamente italiano pur scegliendo di ambientare la storia negli USA. Da segnalare le belle musiche d'archi dell'esperto Riz Ortolani e l'apparizione di Giovanni Lombardo Radice, un caratterista molto apprezzato dai fans dell'horror italiano per le sue apparizioni (negli anni '80) in numerose efferate pellicole "maledette", divenute a loro modo di "culto" per gli appassionati del cinema underground e dello splatter. Il finale (che ha lasciato perplessi la maggior parte degli spettatori) è invece uno dei punti di forza del film.
 
Voto:
voto: 3/5

martedì 13 luglio 2021

...E tu vivrai nel terrore! L'aldilà (1981) di Lucio Fulci

Louisiana, 1927: una folla inferocita irrompe nell'albergo "Sette Porte", considerato maledetto, e uccide barbaramente un pittore accusato di stregoneria, crocifiggendolo e ricoprendone il corpo con la calce viva. Nel 1981 Liza, giovane stilista di New York, eredita l'hotel e, nonostante i minacciosi avvertimenti di una donna cieca con doni da veggente, decide di restaurarlo. Ma ben presto scoprirà l'orribile potere che si nasconde in quel luogo, i cui segreti sono racchiusi nelle pagine di un antico libro malefico conosciuto come "Eibon". Celeberrimo horror fantastico di Lucio Fulci, amatissimo dai suoi fans e di notevole successo anche fuori dai nostri confini nella schiera dei nostalgici appassionati dello splatter d'antan. E' un film discontinuo, estremo, selvaggio e mortifero, debordante dei morbosi effetti macabri che resero famoso il regista negli anni '80, così come di scivoloni nel greve e momenti trash, ma anche pervaso da una feroce energia creativa che ha il suo tripudio negli efferati trucchi artigianali realizzati dall'esperto Giannetto De Rossi e in una lunga serie di invenzioni visive, probabilmente le più memorabili della filmografia fulciana. Tra queste vanno ricordate: l'inquietante e violentissimo prologo ambientato nel passato e virato in seppia, l'apparizione della veggente sul ponte della highway deserta e l'epilogo onirico visionario, di potente suggestione oscura e di matrice nichilista. Non mancano ovviamente le atrocità gratuite, volte a scioccare lo spettatore colpendolo allo stomaco, le immancabili scopiazzature da altri horror coevi di successo e i momenti pateticamente imbarazzanti (il top del kitsch è la presenza nel cast di Michele Mirabella, che "interpreta" un personaggio americano!). I distributori tedeschi pretesero che il regista inserisse delle sequenze con gli zombi (che all'epoca attiravano molta gente in sala) e Fulci, pur non gradendo la cosa, le inserì (in maniera posticcia) nella parte finale. Nelle numerose interviste rilasciate negli anni successivi l'autore romano ha sempre dichiarato di essersi molto pentito di aver ceduto all'ingerenza. Tra i vari aneddoti e curiosità che gravitano intorno a quest'opera di culto citiamo i seguenti: nella scena dell'attacco dei ragni (che Fulci pretese di girare realmente e senza protezioni) il povero Mirabella ebbe un malore e svenne quando vide i grossi aracnidi camminargli addosso. I tanti corpi nudi che si vedono distesi a terra nel finale appartenevano a una banda di barboni di strada che il regista convinse in cambio di una grossa fornitura di alcolici. Il film è stato restaurato e ridistribuito negli USA nel 1998 nella sua versione uncut, grazie all'opera instancabile di Quentin Tarantino, che ne è un fervente ammiratore. Tra le sue diverse versioni presentate per il mercato estero ne esistono alcune intitolate semplicemente L'aldilà (poi divenuto The beyond nei paesi anglofoni). Il regista Lucio Fulci fa un doppio cameo, apparendo brevemente in due scene (nella prima si vede per un attimo riflesso in uno specchio).
 
Voto:
voto: 3/5