venerdì 31 marzo 2017

Antichrist (Antichrist, 2009) di Lars von Trier

Un uomo e una donna fanno l’amore con grande trasporto ma, intanto, il loro piccolo figlio esce dalla culla, si arrampica sul davanzale della finestra, affascinato dalla neve che cade, e muore precipitando all’esterno. La coppia viene distrutta dal tragico evento e lui, psicoterapeuta, decide di portare la donna in un isolato chalet nel bosco per farle superare la crisi depressiva e le sue paure recondite, legate all’idea di malvagità della natura. Ma il percorso terapeutico si trasforma presto in un massacro psicofisico. Oscuro dramma allegorico di Lars von Trier, sotto forma di incubo malsano di tetra malia, dedicato dal regista ad Andrej Tarkovskij ma evidentemente influenzato anche da altri grandi Maestri della settima arte (Lynch, Bergman, Kubrick). E’ il film maledetto dell’autore, scandalo annunciato della stagione 2009, che ha diviso la critica alla sua presentazione al Festival di Cannes suscitando orrore, scherno o ammirazione. Per ammissione stessa di von Trier, provocatore impudente nato per scandalizzare la morale borghese, quest’opera estrema (e indubbiamente coraggiosa) è stata la sua personale “terapia” per uscire da un lungo periodo di depressione personale. Diretto con enfasi anarchica e con stile ipnotico (che trova il suo tripudio nella tetra fotografia di Anthony Dod Mantle e nei cupi ambienti che emanano atmosfere “malate”), è un’opera controversa e crudele, impulsiva e feroce, un disperato trattato di psicopatologia sadica (in forte odore di misoginia) che rilegge il rapporto maschio-femmina sotto forma di reciproca tortura. E’ indubbio che i contenuti siano scioccanti e che la violenza di alcune scene sia quasi insostenibile, ma chi ha evocato presunti legami con il moderno sottogenere horror chiamato torture-porn l’ha fatta fuori dal vaso. In realtà chi conosce lo stile sprezzante del regista (da sempre attratto da storie al limite capaci di scandalizzare, pur di fornire uno scossone intellettuale al pubblico) non si sorprenderà più di tanto. E’ altresì inequivocabile la sottile architettura allegorica dell’opera, che può essere letta come grande metafora nera sull’Avvento dell’Anticristo (evocato fin dal titolo), attraversata da suggestioni misticheggianti, echi religiosi e da un magma di elementi in antitesi, in un continuo gioco di opposti che si elidono. Tutti gli elementi e i personaggi del film sono evidenti figure archetipe: i due protagonisti (che non hanno nome ma vengono identificati come “Lui” e “Lei”) sono una nuova versione della sacra famiglia, la Madonna è diventata una strega, il bosco si chiama Eden, i re Magi sono i tre mendicanti latori di sentimenti negativi, il Male (raffigurato come entità oggettiva) è parte integrante della natura madre/matrigna, in un inestricabile groviglio di empie pulsioni (come suggerito dalla memorabile sequenza del coito nell’intreccio di rami e di corpi). L’eterna lotta tra i sessi diventa, quindi, territorio di pascolo per il demonio, lo spirito maligno che risiede in tutte le cose naturali, e il sesso (linguaggio istintivo e ancestrale) diventa un’arma di offesa, uno strumento punitivo, un atto disperato che vuole unire piacere e dolore, estasi e perversione, sperma e sangue, epurazione e annichilimento. Straordinari i due attori protagonisti (Willem Dafoe e Charlotte Gainsbourg), sottoposti dal regista-tiranno a una prova di estenuante impegno psicologico per gli indubbi estremismi di alcune scene. Entrambi hanno aderito con assoluto mimetismo ai rispettivi ruoli, dando vita a una sfida recitativa che viaggia in parallelo alla guerra psicologica e simbolica tra i due personaggi, novelli Adamo ed Eva persi in un tenebroso Eden sotto il giogo del Male. E, manco a dirlo, la sfida è stata vinta dalla Gainsbourg, premiata al Festival di Cannes con il prestigioso Prix d'interprétation féminine. Non si può non ricordare come la tendenza di Lars von Trier di spingere le sue attrici fino ai limiti estremi (non senza compiacimento sadico) ci abbia spesso regalato interpretazioni di straordinario livello, portando le stesse ai vertici artistici della loro carriera. E, non a caso, quasi tutte le “sue” attrici non hanno mai voluto ripetere l’esperienza, a suo modo traumatica, con il regista. Esistono due versioni circolanti della pellicola: una di 104 minuti, denominata “cattolica”, un po’ alleggerita nelle sequenze shock, e la versione integrale di 109 minuti, denominata “protestante”. Al di là delle esagerate polemiche (che, come sempre, finiscono per giocare a vantaggio dei produttori) va chiaramente detto che, come spesso accade in caso di opere “maledette” dirette da grandi autori, lo stile tutto soccorre e la franchigia dell’artista che si deve ai grandi (di cui von Trier fa parte) fa sbiadire le accuse e sublima la crudezza dei contenuti in una più alta valenza allegorica di chiaro intento artistico. Lo straniante prologo in bianco e nero, con l’atto sessuale esplicito sulle note classiche di “Lascia ch’io pianga” di Georg Friedrich Händel, è un momento di stordente turbamento visivo, in pura scuola von Trier. Questo film diseguale e ardito, atroce e radicale, ma non privo di elementi di pura genialità visionaria, è un pugno allo stomaco che stimola la mente, elude la morale, titilla l’istinto e provoca una vertigine emotiva nello spettatore. Diviso in quattro capitoli (“Pena”, “Dolore (il caos regna)”, “Disperazione”, “I tre mendicanti”), più un prologo e un epilogo, è un’opera disturbante, indimenticabile e definitiva. La tragica chiosa di un percorso umano ed artistico da cui potrà solo uscire un nuovo Lars von Trier. Forse migliore, forse peggiore, ma inevitabilmente diverso.

Voto:
voto: 4/5

Il grande capo (Direktøren for det hele, 2006) di Lars von Trier

Ravn dirige un’azienda informatica danese in incognito: per non addossarsi il peso delle decisioni impopolari si è infatti inventato un fantomatico “grande capo” che nessuno ha mai visto. Ma quando decide di vendere la società ad un gruppo di imprenditori islandesi, è costretto a far apparire questo irreperibile leader e assolda Kristoffer, attore disoccupato, perché ne interpreti il ruolo. Ma il comportamento dell’attore gli farà presto sfuggire la situazione di mano. Perfida commedia degli inganni, densa di umori acri e di spunti satirici, con cui von Trier si diverte a mettere sulla graticola la falsità dei rapporti di lavoro (ma, più in generale, umani) e l’incompatibilità tra etica e profitto. In un pirandelliano gioco di specchi e di scatole cinesi, tra dialoghi surreali e momenti irresistibili, l’autore prende in giro la decadenza del suo paese e l’ipocrisia di chi ogni giorno è costretto a indossare la maschera del conformismo. E, al contempo, non disdegna caustici graffi all’odiata Islanda (raffigurata attraverso personaggi ricchi e volgari), antica rivale storica della Danimarca che l’ha governata per quasi quattro secoli. Il limite tra finzione e realtà (e tra cinema e teatro) viene qui spinto fino ai limiti estremi e il gioco paradossale messo in scena dall’autore diventa un fertile punto d’incontro tra provocazione e caricatura, non privo di riferimenti ai generi classici del passato (la voce fuori campo, dello stesso von Trier, ripercorre i modelli delle vecchie commedie americane del periodo d’oro). La famosa scena erotica, che costò al film un divieto ai minori di 14 anni nel nostro paese, è un impagabile inserto farsesco che spinge il demenziale su livelli esilaranti. Nei crediti finali il direttore della fotografia viene riportato come “Automavision”, in riferimento alla tecnica sperimentale utilizzata dal regista in questo film: la macchina da presa non è comandata da un operatore ma da un computer che “decide”, in modo casuale, cosa e come riprendere. In questo modo l’eccentrico von Trier instaura una sorta di commedia nella commedia, mettendo in dubbio chi sia realmente il “grande capo” alla guida del suo film. Più irriverente di così …

Voto:
voto: 4/5

Festen - Festa in famiglia (Festen, 1998) di Thomas Vinterberg

Una famiglia dell’alta borghesia danese si riunisce al gran completo nella tenuta di campagna per festeggiare i 60 anni del fiero patriarca Helge. Quando viene chiesto al primogenito Christian di tenere un discorso, prima del brindisi, in memoria di sua sorella gemella Linda, morta suicida l’anno prima, sarà l’inizio del caos. Tra le pieghe acide di una crudele “cena delle beffe” si nasconde il più cupo e feroce film antiborghese degli anni ’90. Diretto con esagitata enfasi espressiva da Thomas Vinterberg, uno dei fondatori del manifesto artistico “Dogma 95 insieme al più famoso Lars von Trier, è un lucido apologo iconoclasta che mira a scardinare, ideologicamente, alcuni fondamenti della borghesia: la figura paterna, la coesione familiare, il conformismo ipocrita, l’insieme di rituali, buone maniere e mondanità che nascondono miserie morali e drammi inconfessabili. Un po’ programmatico nel suo impianto “a tesi”, guarda al cinema dell’ultimo Bergman e al teatro strindberghiano, ma stilisticamente aderisce pedissequamente al “Dogma” con un uso frenetico della camera a spalla che bracca i personaggi e la totale rinuncia delle luci di scena. L’ottima direzione del cast, la sicurezza della messinscena ed il costante ribaltamento tra ciò che sembra e ciò che è, ne fanno un’opera ammaliante, importante e, a suo modo, solenne. Una parabola anarchica degna di Buñuel che ammicca alla tragedia greca di Euripide e trasforma lo scenario della festa in una cannibalica resa dei conti, in cui ciascuno smette la propria maschera sociale per dar voce ai dolori repressi, scoperchiando cupi abissi di disperazione e antichi orrori indicibili. L’unico momento di sincera tenerezza della pellicola è nell’incontro onirico tra Christian e la sua defunta sorella, girato a lume di candela con un’atmosfera rarefatta che concede un toccante momento di pausa al clima belligerante innescato dalle atroci rivelazioni del protagonista. Premiato al Festival di Cannes con il gran Premio della giuria e acclamato dai critici come nuovo fiore all’occhiello del cinema nordico, questo film duro e puro annovera nel cast Ulrich Thomsen, Henning Moritzen, Thomas Bo Larsen, Paprika Steen e Birthe Neumann.

Voto:
voto: 4/5

giovedì 30 marzo 2017

L’isola (Seom, 2000) di Kim Ki-duk

Un’isola. Un lago pieno di case galleggianti. Qui vive Hee-Jin, barcaiola di giorno e prostituta di notte. Qui arriva Hyn-Shik, ex poliziotto in fuga da un crimine passionale e con intenzioni suicide. I due s’incontrano e si amano di un amore intenso e disperato, creando un legame di bollente ardore e di mutua dipendenza psicologica. E niente sarà più lo stesso. Inquietante trattato di psicopatologia amorosa, carico di malia oscura e di potenti simbolismi, diretto con aspra crudezza da Kim Ki-duk. E’ impressionante il contrasto tra le atmosfere lente, liquide, avvolgenti, suggerite dalle particolari ambientazioni acquatiche, e la violenza disturbante di alcune scene che metteranno a dura prova gli spettatori dallo stomaco debole. Enigmatico e duro, questa metafora amara della solitudine esistenziale riporta la relazione uomo-donna a uno stato primordiale, denso di istintualità feroci e di indulgenze sadiche, con l’atto sessuale che diventa un ultimo solenne gesto con cui trovare rifugio nel corpo dell’altro. La scarnificazione narrativa è compensata dalla potenza delle immagini, che si alternano ora evocative ora scioccanti, con i dialoghi ridotti al minimo per suggerire il concetto di vacuità della parola in un mondo annichilito dal malessere interiore. Le suggestioni che attingono al patrimonio del mito si condensano nel flusso del racconto attraverso un andamento ciclico fondato sulle contrapposizioni: amore e morte, dominio e sottomissione, tenerezza e brutalità. Aspro e puro nella sua severa crudeltà (che però non è mai gratuita perché finalizzata alla sublimazione metaforica), è un film ostico e austero, stilisticamente sontuoso e pervaso da tetra bellezza. Un film che difficilmente potrà essere apprezzato dal pubblico poco avvezzo ai ritmi (e agli eccessi) di un certo cinema orientale.

Voto:
voto: 4/5

Ex Machina (Ex Machina, 2015) di Alex Garland

Caleb, giovane programmatore che lavora per una grande compagnia che si occupa di hi-tech e di internet, vince un concorso aziendale che gli consente di trascorrere una settimana in un isolato e iper-tecnologico rifugio nei boschi. Qui incontra Nathan, leggendario fondatore e capo della società, geniale ed eccentrico, che gli svela il reale motivo del suo soggiorno nella remota località. Caleb dovrà interagire (e quindi testare) un nuovo prototipo di intelligenza artificiale, chiamato Ava, installato nel bel corpo di una ragazza robot. Il primo film diretto dallo sceneggiatore Alex Garland è un thriller fantascientifico “da camera” costruito su atmosfere rarefatte e sospese. I tre personaggi principali appaiono allo spettatore come i pesci di un acquario: un genio creatore malato di egocentrismo, un nerd ingenuo usato come marionetta, una femmina robot sensuale e vulnerabile. Partendo da un tema più che abusato (il rapporto uomo-macchina), la pellicola si dipana con stile claustrofobico tra romanticismo d’antan e suggestioni horror, nascondendo sotto la patina hi-tech la sua vera anima di parabola sulla manipolazione e sulla solitudine. Una solitudine inesorabile che attanaglia, in modi e livelli diversi, tutti i tre protagonisti principali. Il contrasto tra le ambientazioni asettiche ed il fuoco che, evidentemente, anima i personaggi (pur celato sotto una coltre di falsa imperturbabilità), non si traduce in accattivanti spunti narrativi e la (presunta) “sorpresa” del finale appare frettolosa e disordinata. Probabilmente le femministe incallite apprezzeranno, sebbene tutto sia riconducibile ai soliti clichè sull’emancipazione della donna che il moderno conformismo impone come dazio da pagare al politicamente corretto. In quest’opera di intrigante impaginazione estetica, che saggiamente preferisce la malia psicologica al fracasso di analoghe pellicole hollywoodiane, ciò che manca è quel lampo di estro creativo che sappia renderla originale, elevandola sopra la media di un’onesta maestranza. Nel cast figurano Alicia Vikander (che fu preferita a Felicity Jones, scelta iniziale del regista), Domhnall Gleeson e Oscar Isaac. Il film ha comunque riscosso molti consensi (un po’ esagerati) ed ha ottenuto un Oscar per i migliori effetti speciali sulle due nomination ricevute (la seconda era per la sceneggiatura originale, scritta dallo stesso regista).

Voto:
voto: 3/5

mercoledì 29 marzo 2017

Gli amanti del Pont-Neuf (Les Amants du Pont-Neuf, 1991) di Leos Carax

Alex (Denis Lavant) è un clochard, artista di strada e “mangiafuoco”, che vive sul Pont-Neuf, il più antico ponte parigino. Michèle (Juliette Binoche) è una studentessa di pittura, fuggiasca da un’oppressiva vita borghese e con un occhio malato. I due s’incontrono, si amano e si lanciano in una relazione problematica ma appassionata, vivendo sul Pont-Neuf, chiuso al pubblico per lavori di ristrutturazione. Quando la famiglia di lei, per metterla a conoscenza di una nuova cura che potrebbe salvare il suo occhio, tappezza Parigi di manifesti, Alex, per paura di perderla, opta per il silenzio e si mette in azione per bruciare tutti gli affissi. Ma la tragedia è dietro l’angolo. Forsennato dramma sentimentale di Leos Carax, visionario e magniloquente, sospeso tra un’abbacinante surrealismo fantastico ed un’ipertrofia formale in forte odore di manierismo. C’è tutta la folgorante arte del regista (eccessi compresi) in quest’opera intrigante costruita sui contrasti (di cui quello tra gli elementi acqua e fuoco è solo il più tangibile). Alla sua uscita fu il film più costoso nella storia del cinema francese per la ricostruzione del celebre Pont-Neuf in un gigantesco set all’aperto collocato a Lansargues, vicino Montpellier, con un tempo complessivo di quasi tre anni per ultimare le riprese. Estremo, allegorico, affascinante, in bilico perenne tra genio e follia, estasi e delirio, ha spaccato in due la critica (suscitando entusiasmo o delusione) e non ha mai recuperato gli ingenti costi produttivi. Nonostante le evidenti sproporzioni di molte parti dell’opera, è un film ammaliante e potente, una delle più abbaglianti e disperate declinazioni dell’amor fou viste sul grande schermo. Gli evidenti omaggi a Vigo confermano la passione del regista, cinefilo incallito e citazionista devoto, per i grandi classici e la memorabile sequenza della visita notturna al Louvre vale, già da sola, il prezzo del biglietto ed è uno dei momenti più alti del cinema degli anni ‘90. Autore nato per dividere, Carax realizza, con questo film coraggioso, un altro prezioso oggetto di culto per i suoi fans. Barocco ? Sì. Ridondante ? Certamente. Geniale ? Pure.

Voto:
voto: 4/5

Rosso sangue (Mauvais sang, 1986) di Leos Carax

Il passaggio di una cometa su Parigi provoca strani eventi climatici e la diffusione di un virus detto STBO che colpisce tutti coloro che fanno sesso senza amore. Una coppia di delinquenti in cattive acque, Marc e Hans, decidono di rubare da un laboratorio segreto l’antidoto contro il virus STBO, sperando così di poter racimolare l’ingente somma di denaro che devono a una gang rivale. Per fare il colpo ingaggiano il giovane Alex, abile prestigiatore appena uscito di galera e figlio di un loro socio morto in circostanze misteriose. Alex perde la testa per Anna, la donna di Marc, che però sembra attratta solo da uomini più maturi di lei. Ma i criminali interessati all’antidoto sono parecchi e il furto si rivelerà più pericoloso del previsto. Thriller fantastico posseduto da un’estetica poderosa e viscerale, propria del geniale regista di Suresnes, cinefilo eccentrico ed enfant terrible del nuovo cinema francese, diviso tra la nostalgia per la Nouvelle Vague e la contaminazione di nuove forme espressive (fumetti, videoclip, videogiochi). Il cinema di Carax è pregiato, inquieto e favolistico, fatto di anime perse, amori estremi, poesia e miseria, realtà e sogno, erotismo e adrenalina, pathos e malinconia. E non fa eccezione questa sua sfavillante opera seconda, capolavoro anarchico dall’anima naif che rielabora la potenzialità delle immagini oscillando tra classico e moderno, un film pervaso da un’energia furiosa, da un romanticismo disperato, da un estro creativo vertiginoso costantemente combattuto tra feticismo della forma e astrazione poetica. Eletta immediatamente come pellicola di assoluto culto dai giovani cinefili europei, è un’opera spiazzante e affascinante, un’odissea apocalittica ambientata in una Parigi abulica e girata quasi tutta in interni, per conseguire la trasfigurazione poetica della realtà da cui l’autore volutamente si distacca, per dar vita ad un’affresco antirealistico che sceglie la via di un frenetico fantastico sociale, ignorando i fermenti politici che infiammavano la Francia al tempo della sua uscita (le manifestazioni studentesche contro la legge Devaquet sulla riforma al sistema universitario). Non mancano comunque le connessioni al reale (il virus STBO è un’ovvia metafora dell’AIDS) e le citazioni colte: molte sequenze sono veri e propri “altari” eretti dell’autore ai suoi miti cinefili (Cocteau, Godard, Chaplin, Griffith), in osservanza della sua idea di cinema come “religione” dei miti, dei sensi e dei desideri, e come atto estremo di fusione tra arte e vita. Rendendo asincroni il montaggio e la narrazione Carax riempie il film di un dinamismo impellente che si compiace nei personaggi fragili e nevrotici, icone nostalgiche di una cifra stilistica che s’inchina al culto dell’immagine. Assolutamente memorabile la sequenza della corsa finale di Alex (interpretato da Denis Lavant, attore feticcio del regista) sulle note di “Modern love” di David Bowie, che arricchisce la colonna sonora e si erge come manifesto musicale del cinema dell’autore. Completano il magnifico cast Michel Piccoli, Juliette Binoche, Hans Meyer, Julie Delpy e c’è persino un gustoso cameo del disegnatore Hugo Pratt, “padre” di Corto Maltese. Una caratteristica comune a tutti i film di Leos Carax è che sono girati come se non ci fosse un domani e, non a caso, sembrano evocare un'apocalisse, figurativa più che sostanziale. E Rosso sangue, acerbo e rivoluzionario gioiello degli anni ‘80, ha dato il via a questo brillante processo artistico di ammirevole coerenza, che ha poi trovato il suo pieno compimento nell’ultimo esplosivo capolavoro del regista, Holy Motors.

Voto:
voto: 4,5/5

lunedì 27 marzo 2017

Faust (Faust, 2011) di Aleksandr Sokurov

Il dottor Faust, medico acuto e tormentato, si fa tentare da Mefistofele, demonio in forma di vecchio laido, che lo convince a barattare la sua anima in cambio di sapienza illimitata e di un momento di piacere infinito, che si concretizza nella giovane Margarete, da sempre oggetto del desiderio dell’uomo. Memorabile capolavoro di Sokurov, liberamente ispirato alla celebre opera omonima di Johann Wolfgang von Goethe, che conclude in apoteosi la sua tetralogia sul potere, iniziata con Moloch (1999), dedicato a Hitler, proseguita con Toro (2000), dedicato a Lenin, e poi ancora con Il Sole (2005), dedicato a Hirohito. Dopo tre figure storiche realmente esistite, tutte portatrici di un’incarnazione malata ed egocentrica del concetto di potere, al punto di farlo collassare su se stessi, l’autore russo sceglie di rileggere la leggendaria opera del “Faust”, simbolo leggendario della brama di grandezza del genere umano. Va subito detto che l’adattamento operato da Sokurov del testo di Goethe è (volutamente) infedele, artistico, possente, visionario. Un’indimenticabile esperienza sensoriale e sensuale, fisica e straniante, pregna di materialismo e di spiritualità, una fantasmagorica epica del grottesco (stilisticamente resa in formato 4:3 con una “putrida” fotografia verdognola) che dà forma ad un Medioevo sporco e onirico, livido e tetro, in cui terribile e sublime convivono in unico corpo lacero che ambisce alle altezze del metafisico ma è incatenato al salmastro terragno dalla sua stessa gravità. La visione del regista è unica, intrigante, geniale, un apologo solenne pervaso da una mefitica atmosfera di morte, costantemente sul filo sottile tra orrido e ridicolo, latore di un ghigno beffardo che vuol essere, nello stesso tempo, derisione della pochezza umana, presa d’atto del tragico paradosso che è la vita ed amara consapevolezza del relativismo terreno, che nega, inesorabilmente, ogni possibile aspirazione di assoluto. Faust è anche un film ostico e faticoso, teatrale e barocco, deforme e deformato, una visione terribile e potente che per certi versi ricorda le opere pittoriche di Bruegel il vecchio. Gli ambienti fangosi, i colori marcescenti, il putrido lezzo che quasi deborda dalla pellicola, ci immergono fisicamente nel mondo in putrefazione immaginato dal regista, un ammasso di corpi e di concetti danzanti in una disturbante sinfonia paradossale che oscilla tra iperuranio e Golconda, che ora sembra celebrare il tripudio dello spirito umano (attraverso le sue altezze filosofiche) e, subito dopo, ne sancisce il requiem, declinato attraversi un’estetica dell’orrido così ricercata da sublimarsi in un’austera poesia tragica che guarda dritta al mito. Questa scelta stilistica (e tematica) così arditamente contrastata è evidente già dalla straordinaria sequenza d’apertura, con la macchina da presa che parte dall’alto e poi piomba, in volo tra le nubi, nel lurido laboratorio in cui Faust sta smembrando un cadavere per analizzarlo. Ambizioso, ammaliante e straripante d’inventiva, il film procede “faustianamente” verso il magistrale finale, girato tra i geyser islandesi, che ci regala, probabilmente, la più alta e terrificante rappresentazione dell’inferno mai vista sul grande schermo. Premiato con il Leone d’Oro al Festival del Cinema di Venezia e osannato dalla critica in modo plebiscitario, è uno dei più alti capolavori del nuovo millennio. Un’odissea umana così densa e disarmante che viene quasi da chiedersi se lo stesso Sokurov non abbia stipulato un proprio patto col diavolo per realizzare questo film.

Voto:
voto: 5/5

Il tempo dei lupi (Le temps du loup, 2003) di Michael Haneke

Una famiglia agiata ed equamente rappresentata (padre, madre, figlio, figlia) si reca nella sua casa di campagna ma la trova occupata da profughi ostili e violenti che uccidono il capofamiglia a fucilate. Sconvolti e derubati dei loro averi, i superstiti vagano attraverso campagne desolate, dove ben presto si rendono conto che non sono i soli a vivere quest’odissea e che un qualche evento catastrofico ha reso gli uomini simili a bestie feroci. Incapaci di capire cosa sia realmente avvenuto, i tre, dopo un po’, smettono di chiederselo, strenuamente impegnati nella lotta per la sopravvivenza. Tetro apologo apocalittico di Haneke, che “ruba” il titolo a un poema tedesco, trae possibile ispirazione da un misconosciuto film di Ingmar Bergman (L’ora del lupo (Vargtimmen, 1968)), allargandone però la prospettiva da scala individuale a collettiva, e dà forma concreta ad un celebre proverbio latino (“Homo homini lupus”). Obbediente al suo stile asettico e alla sua tirannica estetica del diniego, che bandisce ogni orpello in favore di un cinema duro e puro, l’autore realizza un fosco affresco “a tesi”, glaciale nei toni e radicale nei temi. Antiretorico e del tutto privo di sovrastrutture sociali, connotazioni geografiche e collocazioni storiche, questo opus n. 8 di Haneke va letto come agghiacciante parabola sulla propensione umana alla violenza. Con un utilizzo ossessivo della luce naturale, il rifiuto di implicazioni psicologiche e la totale rinuncia a qualsiasi spiegazione (fedele alla lezione hitchcockiana su come amplificare la portata angosciosa di un’apocalisse), questo freddo trattato di antropologia estrema è un ritorno allo stadio ferino ed un viaggio di smarrimento del sé. Senza concedere sconti al consumismo imperante che ha impoverito il “terzo mondo” (nella parte iniziale la brutalità degli aggressori è chiaramente imputabile alla loro disperata condizione di fame) e alle ipocrisie dei nuovi modelli politici liberisti, il regista austriaco abbraccia una dimensione corale, a lui poco congeniale, che finisce per indebolire il suo aspro intimismo antropologico. Meno geometico e più metafisico rispetto ai suoi standard, Haneke concede anche una non banale apertura nel finale che suggerisce una luce di speranza, ricorrendo a un artificio fantastico che dovrebbe suggerire la potenza ancestrale dell’istinto di sopravvivenza, ovvero la più grande forza insita nell’uomo. Nel cast segnaliamo Isabelle Huppert (musa del regista), Maurice Bénichou, Patrice Chéreau e Béatrice Dalle, diva “maledetta” del cinema francese specializzata in ruoli estremi. E’ un film chiaramente al di sotto degli altissimi livelli qualitativi a cui l’autore ci ha abituati (che, non a caso, è stato stroncato dalla critica in modo unanime), ma comunque non privo di spunti interessanti e di momenti di possente suggestione figurativa.

Voto:
voto: 3,5/5