mercoledì 30 settembre 2015

Mamma Roma (Mamma Roma, 1962) di Pier Paolo Pasolini

Dopo il matrimonio del suo protettore Mamma Roma, una prostituta, abbandona il marciapiede e si riprende suo figlio Ettore, dato in affidamento ad un’altra famiglia, cercando di ricostruire il rapporto con lui. Ma la realtà delle borgate romane è dura e il ragazzo prende ben presto una cattiva strada. Intensa opera seconda di Pasolini, pervasa dalle medesime dolorose tematiche di borgata già viste in “Accattone”, ma che, innervata da un impianto ideologico di matrice classica (l’ossimoro e la sineciosi), ne allarga l’analisi sociale, passando dalla descrizione di un onere individuale ad uno collettivo. Forte del vigoroso verismo delle immagini, scarne e potenti al tempo stesso, e di un’interpretazione magistrale di Anna Magnani, che si conferma la più grande attrice italiana di ogni tempo, è un’accorata parabola sugli umili, che hanno barattato la loro genuina e feroce spontaneità istintuale con il sogno preconfezionato del benessere borghese, corrompendo la sacra fierezza proletaria con le chimere del consumismo, finendone inevitabilmente schiacciati, in accordo all’ideologia dell’autore. Nonostante qualche schematismo, è una nuova sapiente istantanea pasoliniana sulla realtà delle periferie romane, capace di fondere abilmente la recitazione drammatica della Magnani con la spontaneità dei “ragazzi di vita” dell’autore, mettendo in scena un possente dramma esistenziale carico di connotazioni sociali e di rimandi alla tragedia classica. Il “peccato originale” dei due protagonisti, la madre e il figlio, ovvero quello di esser nati nella parte “sbagliata” del mondo, viene surclassato dall’adesione acritica di lei a quei falsi modelli del perbenismo borghese, che non mirano ad una reale emancipazione intellettuale ma solo ad una effimera omologazione verso un modello sociale ostentato. Ancora una volta il grande regista poeta sembra dirci che solo nella morte l’uomo è capace di trovare la sua vera grandezza, il momento supremo di massima esaltazione tragica.

Voto:
voto: 4,5/5

La ciociara (La ciociara, 1960) di Vittorio De Sica

Nell’Italia del 1943, devastata dal secondo conflitto mondiale, la giovane Cesira abbandona Roma, insieme alla figlia adolescente, Rosetta, per sfuggire ai bombardamenti. Il loro viaggio da sfollati attraverso le terre d’origine della Ciociaria diventa quello di una nazione attraverso gli orrori della guerra, la cui coscienza, spezzata ed umiliata, non tornerà mai più quella di prima. Dal romanzo omonimo di Alberto Moravia, De Sica, insieme al fido Zavattini, ha tratto un film denso, complesso, ben modulato tra la rilettura critica della storia ed il romanzo popolare di forte impatto emotivo, pregno di quella verace sensibilità, tipica del regista, da sempre incline al sentimento della gente comune. Pur con qualche incongruenza nel personaggio di Rosetta, il film ha cuore, anima, patos e sa rievocare con forza uno dei periodi più dolorosi della storia italiana, soprattutto grazie all’interpretazione monumentale di Sophia Loren, premiata con l’Oscar per l’occasione, che ci regala una performance intensa, struggente, sfaccettata, nel suo mix tra sensualità, spontaneità e dolore. Attraverso il suo volto riviviamo il tragico iter di un paese, ingannato, deluso e vilipeso, passato nel giro di pochi anni dall’ingenua esaltazione alla rovinosa caduta. De Sica, forte del suo background neorealista, sceglie di limare la vis polemica del romanzo ispiratore, ponendo invece l’accento sull’umanità dei personaggi, sulla semplicità degli umili, mostrandoci gli effetti della guerra attraverso gli occhi delle vittime, piuttosto che con l’uso saccente di diatribe politiche intellettualistiche. Chi ha accusato l’opera di populismo non ne ha saputo cogliere l’essenza appassionata e compassionevole, tipica del grande regista laziale. Da citare anche le belle musiche di Armando Trovajoli e la presenza nel cast di un giovane Jean-Paul Belmondo.

Voto:
voto: 4,5/5

Thelma & Louise (Thelma & Louise, 1991) di Ridley Scott

Thelma e Louise, due donne deluse e non più giovanissime, fuggono dallo squallore del loro quotidiano per imbarcarsi in un viaggio attraverso la grande provincia americana, quella degli spazi sterminati, delle strade polverose e della musica country. Ben presto dovranno fare i conti con la violenza brutale del mondo maschile, la stessa da cui speravano di fuggire, ed il viaggio si trasformerà in una fuga disperata, pericolosa ed irreversibile. Straordinario road movie al femminile di Ridley Scott, inquieto, adrenalinico, intenso ed accorato, proprio come le due formidabili protagoniste, interpretate in modo eccellente da Susan Sarandon e Geena Davis, che bucano lo schermo e toccano il cuore del pubblico nel loro mix di fragilità, vitalità e coraggio. Nonostante l’evidente impostazione a tesi (di matrice femminista), è un vigoroso inno alla libertà che celebra la mitologia del viaggio come ricerca di se stessi e desiderio di affermazione del proprio diritto di esistere e di essere accettati senza discriminazioni di sorta. Trasversale ai generi e pregno di tutta la meraviglia delle grandi pellicole “on the road” americane, ha il piede costantemente premuto sull’acceleratore e trova i suoi punti di massima forza nei duetti tra le due splendide protagoniste, diverse ma complementari, nelle suggestive musiche di Hans Zimmer e nel finale di grande effetto e a suo modo memorabile, che è rimasto nell’immaginario collettivo per la forte carica emozionale. E’ l’ultimo grande film di Ridley Scott che, da questo momento in poi, smarrirà, purtroppo, la grande vena creativa che lo ha reso famoso. Candidato a 6 premi Oscar, vinse solo quello alla sceneggiatura di Callie Khouri.

Voto:
voto: 4/5

Mary Poppins (Mary Poppins, 1964) di Robert Stevenson

La famiglia londinese dei Banks è in fibrillazione per trovare una nuova governante che sappia badare ai due vivaci figlioletti. Dopo una lunga fila di aspiranti non gradite, come evocata da un desiderio sincero espresso ad alta voce dai bambini, arriva dal cielo una ragazza misteriosa che emana un alone naturale di grazia e di gioia al solo passaggio. Questa comunica all'esterrefatto Mr. Banks che intende mettere alla prova l'intera famiglia in una settimana, prima di decidere se accettare il posto. La donna, che dice di chiamarsi Mary Poppins, cambierà le loro vite per sempre facendo diventare ciascuno di loro una persona migliore. Dopodiché andrà via nello stesso inspiegabile modo con cui è arrivata. Grande classico della Walt Disney, per uno dei maggiori successi della major hollywoodiana, entrato nella storia del cinema per il sapiente mix tra musiche, canzoni, attori reali e cartoni animati, con una scintillante Julie Andrews, premiata con l’Oscar e rimasta nel cuore del pubblico di ogni età e di ogni latitudine insieme alle celeberrime canzoni, che sono divenute il marchio di fabbrica del film. Tratto dai romanzi di Pamela Lyndon Travers, è un efficace carrozzone traboccante di buoni sentimenti, la cui inevitabile melassa edificante viene, in parte, riscattata dall’imponente spettacolo visivo che, nonostante le inevitabili ingenuità connotate al genere, vira nella gradevole favola per famiglie, moraleggiante ma divertente. Ma senza le musiche di Richard M. Sherman, Robert B. Sherman e Irwin Kostal e la delicata grazia della Andrews, il film non sarebbe mai divenuto il classico che è oggi. Oggettivamente meriterebbe una mezza stelletta in meno ma gli va riconosciuto un voto in più di stima per il suo indubbio valore storico come fenomeno musicale e di costume. Continua a piacere anche ai bambini di oggi è questo è un indiscutibile segno di merito.

La frase: "Vento dall'est, la nebbia è là, qualcosa di strano fra poco accadrà, troppo difficile capire cos'è, ma penso che un ospite arrivi per me."

Voto:
voto: 3,5/5

Bella addormentata (Bella addormentata, 2012) di Marco Bellocchio

Ispirandosi al drammatico caso di Eluana Englaro, salito prepotentemente e dolorosamente alla ribalta delle cronache nazionali, Marco Bellocchio ricostruisce gli ultimi giorni di vita di una ragazza in coma irreversibile usando punti di vista differenti: quello di una madre distrutta dal dolore, che abbandona tutta la sua vita per dedicarsi alla figlia, quello di un medico che cerca in ogni modo di salvare una giovane donna dal tunnel della droga e quello di un'attivista cattolica impegnata nella protesta per il caso Englaro. Con una messa in scena cupa e rigorosa, Bellocchio confeziona un film coraggioso, aspro, tagliente, provocatorio. Il regista emiliano fa un cinema duro e puro, che sa ergersi bene al di là di una posizione idelogica di natura morale o politica, mescolando abilmente finzione e realtà, simbologia e denuncia sociale. Non mancano i momenti visionari, come la magnifica sequenza della sauna in cui l'ostico dilemma alla base dell'opera viene spostato dal piano morale a quello politico, attraverso il confronto di figure archetipe. Notevole tutto il cast (Maya Sansa, Toni Servillo, Isabelle Huppert, Alba Rohrwacher), al servizio di una storia di denuncia di grande spessore, come pochi sanno fare oggi in Italia.

Voto:
voto: 4/5

Non ti muovere (Non ti muovere, 2004) di Sergio Castellitto

Storia di un amore intenso, proibito, tragico e "maledetto" tra un brillante chirurgo romano, Timoteo, ed una derelitta immigrata albanese, Italia, spezzata dalle angherie della vita ma ancora capace di rimettersi in gioco con disperata passione. Tra un matrimonio borghese ipocrita e fasullo ed il dramma familiare di una figlia ridotta in coma da un incidente stradale, l'inquieto Timoteo rivive nella memoria i momenti vibranti di questo suo amore segreto ed ingombrante, che ha segnato inesorabilmente la sua vita con un solco profondo impossibile da richiudere. Dall'omonimo romanzo della moglie Margaret Mazzantini, Castellitto ha tratto un film vibrante, viscerale, una dolorosa riflessione sul senso (anzi sulla mancanza di senso) della vita e dell'amore, come suggerito dalla fortunata canzone di Vasco Rossi, scritta per la colonna sonora. Non esente dal furbo sentimentalismo, dall'estetica da "soap opera" e dalla retorica a buon mercato dei prodotti nostrani di questo tipo, la pellicola riesce ad ergersi sopra la media grazie all'interpretazione intensa e struggente di Penelope Cruz che, imbruttita ad arte per l'occasione, afferma prepotentemente il suo talento di attrice drammatica, e grazie alla regia ricercata di Castellitto che, con una serie di soluzioni visive interessanti, cerca in tutti i modi di elevarsi dal format "televisivo" in cui il nostro cinema "commerciale" è perennemente invischiato. Il risultato finale è decoroso, probabilmente amplificato (ahinoi!) dalla risibile pochezza dei suoi simili.

Voto:
voto: 3/5

Il cuore altrove (Il cuore altrove, 2003) di Pupi Avati

Nella Roma degli anni '20 il goffo trentenne Nello viene mandato a Bologna dal padre, nella speranza che possa finalmente trovare una compagna, garantendo così la discendenza familiare. L'incontro con una ragazza cieca, bellissima e disinibita, cambierà la sua vita per sempre, ma con esiti diversi da quelli sperati. Tipica pellicola di Avati, che risponde esattamente a tutti i requisiti di un film "alla Avati": leggerezza del tocco, raffinata ricostruzione di un mondo piccolo borghese filtrato attraverso la lente nostalgica della memoria, amabile candore dei personaggi principali, con tocchi narrativi soffusi che oscillano tra l'edificante ed il poetico. Costantemente in bilico sul filo sottile tra dramma e commedia, intrattiene con agile eleganza, nascondendo abilmente i tratti esili della sceneggiatura grazie alla forte carica espressiva degli interpreti, in cui spiccano soprattutto quelli di contorno come il sanguigno barbiere napoletano del sorprendente Nino D'Angelo, che ha fortunatamente barattato la patetica mielosità ed il caschetto d'oro degli anni giovanili, con una più impegnata vena artistica anticonformista. L'anello debole è, manco a dirlo, la protagonista Vanessa Incontrada, tanto bella quanto impacciata. Il film, tutto sommato dignitoso, ha avuto un buon riscontro di pubblico e critica, risollevando la carriera in declino del regista bolognese.

Voto:
voto: 3/5

Kaos (Kaos, 1984) di Paolo e Vittorio Taviani

L'opus numero 10 dei fratelli Taviani è un eccellente adattamento delle "Novelle per un anno" di Luigi Pirandello, in particolare dei quattro racconti "L'altro figlio", "Mal di luna", "La giara" ed "Epilogo".  Racconto uno: una donna continua a sperare di avere notizie di due figli emigrati in America da anni che non hanno dato più notizie mentre rifiuta di accettare un terzo figlio, tranquillo e laborioso, perchè frutto di uno stupro subito da un bandito assassino. Racconto due: una giovane ragazza scopre che il marito che ha da poco sposato è un licantropo e cerca di approfittare della sua assenza nelle notti di plenilunio per tradirlo con il suo più avvenente cugino. Racconto tre: un conciabrocche chiamato per riparare la gigantesca giara di un ricco latifondista vi resta chiuso dentro e, per uscire, deve romperla di nuovo: ma lui non ci sta perchè non vuol pagare i danni. Racconto quattro: Pirandello si rivolge allo spettro della madre morta, rimpiangendo una bella storia che non è riuscito a scrivere per mancanza delle giuste parole. Il filo conduttore che accomuna i quattro segmenti è un corvo che vola nei cieli di Sicilia con un piccolo campanello appeso al collo. Raffinato ma al tempo stesso sobrio, rigoroso e lucido, addirittura magistrale nella creazione visiva del complesso universo interiore del grande scrittore siciliano, è uno dei migliori film italiani degli anni '80, capace di fondere insieme la minuziosa ricostruzione dei dettagli con l'allegoria caotica che ha sempre accompagnato, negli scritti pirandelliani, il male di vivere dell'uomo del '900. Nella versione televisiva esiste anche un quinto segmento, "Requiem", ideato dai registi ispirandosi liberamente ad altre novelle pirandelliane. E' stato l'ultimo film interpretato da Franco Franchi e Ciccio Ingrassia.

Voto:
voto: 4/5

Al di là del bene e del male (Al di là del bene e del male, 1977) di Liliana Cavani

Roma, 1882: Paul lascia l'amico Fritz (Nietzsche) in un hotel, tra corpi di prostitute nude e fumate di oppio, per andare a una festa dove conosce la russa ebrea Lou Salomé, donna libertina e di bell'aspetto. La relazione tra Paul e la donna diventerà presto, per volere di lei, un ménage a trois che coinvolge anche Fritz, suscitando lo scandalo generale. Ma la strana relazione non durerà a lungo: al subentrare della noia Paul e Lou prenderanno strade diverse, pur continuando ad avere rapporti all'insegna della trasgressione, mentre Fritz finirà vittima dei propri demoni interiori. Dall'opera omonima del celebre filosofo Friedrich Nietzsche, la Cavani ha tratto un film potente e sfarzoso, di alti intenti ma non immune da cadute calligrafiche ed a volte appesantito da un apparato ideologico ingombrante, che ne riduce la portata semantica in nome dell'accumulo manieristico di "orpelli" retorici. Ma il triangolo amoroso tra Nietzsche, la disinibita Lou Salomé e l'impedito Paul Rée è un possente trattato psicologico sul rapporto tra sesso e potere, con le consuete commistioni tra erotismo e sadismo, tipiche della regista emiliana. Il burrascoso ménage a trois, che non farà sconti a nessuno, diventa metafora degenere della fine del diciannovesimo secolo e dell'inizio del '900: l'età della follia e dei grandi crimini storici. La fotografia è sontuosa, la ricostruzione ambientale impeccabile e nel cast spiccano le interpreti femminili: da una sensuale Dominique Sanda ad un'austera Virna Lisi.

Voto:
voto: 3,5/5