domenica 30 aprile 2023

Il colibrì (2022) di Francesca Archibugi

Marco Carrera, di professione medico, è un uomo benestante e posato, dai modi gentili ma con tanti problemi che covano sotto una facciata di apparente tranquillità. E' sposato con Marina, donna depressa e instabile, che cerca compulsivamente in scappatelle clandestine e in sedute di psicanalisi quella felicità interiore che non riesce a trovare in sè stessa. Marco ha anche una figlia (Adele), un fratello (Giacomo) con cui non ha più rapporti a causa di antichi dissidi e due genitori che non si sopportano più ma che non riescono a stare lontani l'uno dall'altro. Nell'esistenza di Marco continuano a riemergere le ombre dolorose di una gioventù impossibile da dimenticare: con il senso di colpa di una sorella morta tragicamente a vent'anni ed il grande amore della sua vita per una donna francese, Luisa, conosciuta durante le vacanze adolescenziali all'Argentario. Un amore mai consumato e mai dimenticato. Questo intenso e dolente film, scritto e diretto da Francesca Archibugi adattando l'omonimo romanzo best seller di Sandro Veronesi, è un melodramma familiare quietamente disperato che procede in modo non lineare, in un continuo gioco di salti temporali all'indietro o in avanti, per raccontare la vita del protagonista, Marco Carrera detto il colibrì, tra la giovinezza, la maturità e la vecchiaia. Ambientato tra Roma, Parigi ed il mare dell'Argentario (dove si svolgono le sequenze migliori), è la storia di un dramma borghese con al centro un uomo pavido e indeciso, così preoccupato di non danneggiare il suo prossimo da non riuscire mai a renderlo felice, ad abbandonarsi ai suoi veri desideri, a prendere in mano la sua vita ed essere finalmente libero, appagato, proattivo. La metafora del colibrì, minuscolo uccello esotico che sbatte le ali vorticosamente restando praticamente immobile, è perfetta per questo protagonista che è l'espressione di un conformismo inetto e insoluto, tipico di un certo ceto sociale abbiente e imbellettato, ossessionato dalla forma a discapito della sostanza. Ma nonostante le buone interpretazioni di un ricco cast che annovera nomi come Pierfrancesco Favino, Laura Morante, Bérénice Bejo, Alessandro Tedeschi, Kasia Smutniak, Nanni Moretti e Benedetta Porcaroli, il film non riesce mai a penetrare compiutamente al di sotto della superficie, per toccare le corde di una emotività più profonda e sfumata, ma gravita costantemente in un limbo di inerzia sentimentale, per poi inciampare in un finale languido fin troppo caricato. I momenti più riusciti sono sicuramente i flashback giovanili, intrisi di una sincera atmosfera nostalgica sulla malinconia del tempo perduto, delle occasioni mancate e delle decisioni non prese. Una menzione speciale va data per tutti i giovanissimi attori (e in particolare per Fotinì Peluso), che confermano il talento naturale della regista romana nello scegliere e dirigere gli interpreti di minore età. E va altresì citato l'efficace cameo di Massimo Ceccherini nei panni di un incallito giocatore d'azzardo pentito, che riesce ad essere felicemente straniante, rendendo sofferta e tenera la sua innata "faccia da Picasso".
 
Voto:
voto: 3/5

sabato 29 aprile 2023

Ti mangio il cuore (2022) di Pippo Mezzapesa

Nella Puglia garganica due clan criminali, i Malatesta ed i Camporeale, sono in guerra perenne, fin da quando, nel 1960, l'intera famiglia Malatesta venne sterminata e riuscì a salvarsi soltanto il piccolo Michele. Cresciuto in fretta e diventato boss, Michele Malatesta si è vendicato, uccidendo a sua volta senza pietà i principali membri della famiglia rivale. Ai giorni nostri vige una labile tregua tra le due gang, grazie all'azione paziente di una terza famiglia, i Montanari, che si adoperano per mantenere quella pace necessaria affinché i rispettivi affari criminosi possano svolgersi col massimo profitto. Ma la situazione precipita quando Andrea Malatesta, figlio prediletto del boss Michele, s'innamora della bella Marilena, moglie di Santo Camporeale, gettandosi a capofitto in una relazione appassionata e clandestina sempre più difficile da gestire. E il sangue scorrerà di nuovo a fiumi, ma non senza sorprese. Scritto e diretto dal pugliese Pippo Mezzapesa, che si è liberamente ispirato alla vera storia della donna di mafia Rosa Di Fiore ed all'omonimo libro d'inchiesta di Carlo Bonini e Giuliano Foschini che l'ha raccontata, Ti mangio il cuore è un solido noir all'italiana, violento e teso, crudo e viscerale, ma messo in scena con uno stile di grande fascinazione evocativa e di potente respiro tragico. Tra tutte le mafie italiane, quella garganica della provincia di Foggia è sicuramente la meno conosciuta e meno raccontata ed è forse anche per questo che il film riesce ad avere un impatto così forte, al punto da apparire quasi come un crime movie "originale", in un panorama così inflazionato come quello del genere malavitoso. Mezzapesa compie una precisa scelta innanzi tutto estetica, dimostrando di possedere un talento che merita attenzione: raffigurare la Puglia rurale, in cui personaggi barbari combattono faide antiche e sanguinose, alla stregua di un western "preistorico", con una magnifica fotografia in bianco e nero fortemente contrastata che esalta i conflitti interiori tra i vari personaggi ed una padronanza delle immagini e dei movimenti di camera che ci regala, in una lunga serie di primi piani e campi lunghi, parecchie sequenze memorabili, che riescono a rendere "nuova", ed a tratti visionaria, una storia antica, brutale ed intrisa di veleni ancestrali che si tramandano di generazione in generazione. Impossibile non citare, in tal senso, scene come la strage del prologo, la "sfilata" delle vedove di nero vestite o l'amore nella salina, che ci fanno capire come questa pellicola sia ben sopra la media dei prodotti nostrani di questo tipo. I personaggi principali sono finemente caratterizzati e quasi tutti gli attori del cast risultano bravissimi, praticamente perfetti nei rispettivi ruoli. Menzione speciale per Tommaso Ragno, che riesce a dare al suo Michele Malatesta un volto plumbeo e tetro, quasi scolpito nella roccia. E sua moglie Teresa, splendidamente tratteggiata dalla brava Lidia Vitale, riesce ad essere la figura più emblematica dell'intero racconto, la personificazione della mentalità mafiosa e della sua atavica ineluttabilità. Sono da lodare anche due interpreti navigati e di spessore come Michele Placido e Francesco Di Leva, mentre il protagonista Francesco Patanè è forse un po' l'anello debole del cast. Ma la vera, piacevolissima sorpresa è la cantante Elodie che, al suo vero esordio cinematografico (nel precedente Non c'è campo di Federico Moccia aveva fatto solo una fugace apparizione nel ruolo di sè stessa) riesce a fornire una magnifica raffigurazione di Marilena Camporeale: sensuale, ribelle, torva, dolente, intensa, tormentata. Un esordio davvero difficile da dimenticare. Elodie, cantautrice romana di origini caraibiche, ha raccolto messe di elogi e di consensi per questa performance attoriale ed ha anche scritto e cantato (insieme a Joan Thiele) il brano principale della colonna sonora: "Proiettili (ti mangio il cuore)".

Voto:
voto: 4/5

venerdì 28 aprile 2023

Everything Everywhere All at Once (2022) di Daniel Kwan , Daniel Scheinert

Evelyn e Waymond sono una coppia di cinesi trapiantati in America dove gestiscono una lavanderia a gettoni. I due vivono insieme al nonno Gong Gong (padre di Evelyn) e alla loro giovane figlia Joy, ragazza irrequieta che ha una relazione omosessuale con Becky che la porta in costante rotta di collisione con sua madre. Convocati nell'ufficio delle imposte dalla zelante ispettrice Beaubeirdre per una faccenda di tasse non pagate correttamente, i due coniugi precipitano in una incredibile "realtà" di universi paralleli e differenti "versioni" di sè stessi, con una fondamentale missione da compiere: riuscire a fermare una pericolosa entità entropica simile ad un buco nero, creata da una misteriosa figura chiamata Jobu Tupaki, che potrebbe distruggere tutti gli universi alternativi esistenti con la sua energia distruttiva. Dopo l'iniziale spaesamento Evelyn capisce di avere un ruolo cruciale in questa surreale avventura e si decide ad entrare in azione quando scopre la vera identità di Jobu Tupaki. Stravagante commedia di azione, scritta e diretta dal duo Daniel Kwan e Daniel Scheinert con tocco leggero e tono grottesco, che mescola, in modo spudorato e canzonatorio, una pletora di stili, suggestioni e generi diversi. Si passa infatti dalla tipica comedy di ambientazione familiare all'avventura fantastica, dalla fantascienza al cinema di arti marziali che ammicca all'action rocambolesco proveniente da Hong Kong, senza dimenticare comicità slapstick, influenze provenienti dai videogiochi e dal mondo dei super eroi, soluzioni visive volutamente artigianali sempre in bilico sul crinale del kitsch ed una forte spruzzata di ironia irriverente e politicamente scorretta, che vira talvolta nel demenziale. C'è davvero molto, anzi troppo, in questo film strambo e visionario prodotto dai fratelli Russo (quelli della Marvel e degli Avengers), che hanno creduto fin da subito in questo copione eccentrico, divertito e divertente, ma anche troppo fracassone per potere andare oltre il semplice intrattenimento. Eppure, tra una battuta spinta ed un combattimento di kung-fu, tra salti nel multiverso e situazioni assurde che cadono nel becero, il film ha anche qualche semiseria ambizione di critica riflessione sociale, svolazzando impunemente attraverso temi importanti come il razzismo verso gli extra-comunitari, i conflitti intergenerazionali tra genitori e figli, i problemi dell'adolescenza, la miope rigidità di certi burocrati e il diritto alla piena libertà dei gusti sessuali. Ma, in questa folle centrifuga di visioni, azioni e dialoghi messa in scena dai registi, c'è una tendenza all'eccesso frenetico che finisce per frastornare, impedendo allo spettatore di gustarsi i momenti migliori, che comunque non mancano. Diviso in tre blocchi narrativi ("Everything", "Everywhere" e "All at Once") il film guarda nostalgicamente agli anni '80, di cui cerca ripetutamente di ricreare le atmosfere, e infatti non è casuale la presenza dell'attore Ke Huy Quan, che divenne famoso da bambino grazie a pellicole di culto come I Goonies (The Goonies, 1985) di Richard Donner e Indiana Jones e il tempio maledetto (Indiana Jones and the Temple of Doom, 1984) di Steven Spielberg. Generalmente apprezzato da gran parte della critica per il suo tono scanzonato e per la sua energia esplosiva, il film ha sorpreso tutti facendo il colpo grosso alla notte degli Oscar, dove ha portato a casa ben 7 statuette "pesanti": miglior film, miglior regia, miglior sceneggiatura originale, miglior montaggio e ben 3 Oscar agli attori (Michelle Yeoh, Ke Huy Quan, Jamie Lee Curtis). Indubbiamente troppa grazia e netta sensazione di sopravvalutazione, se non addirittura abbaglio, da parte dell'Academy, mai così anticonformista come in questo caso.
 
Voto:
voto: 3/5

Avatar - La via dell'acqua (Avatar: The Way of Water, 2022) di James Cameron

Dopo avere sconfitto e scacciato gli invasori terrestri che volevano sottometterli per sfruttare le enormi risorse naturali del loro pianeta, i Na'vi sembrano aver trovato finalmente la pace. Il marine Jake Sully ha trasferito definitivamente la propria essenza vitale nel suo avatar ed ha avuto tre figli con la sua compagna Neytiri: il primogenito Neteyam, il turbolento Lo'ak e la vivace Tuk. Alla famiglia si sono poi uniti, come figli adottivi, la brillante Kiri (nata dall'avatar della defunta dottoressa Augustine Grace) e l'adolescente Spider, figlio dello spietato colonnello Quaritch e cresciuto insieme al popolo Omaticaya. Ma il periodo di serenità non dura a lungo, infatti gli umani, spinti dalla crisi energetica di un pianeta Terra ormai allo stremo, tornano più agguerriti di prima, guidati da un clone di Quaritch che, sebbene ucciso dalle frecce di Neytiri, si è "reincarnato" in un avatar Na'vi. La guerra scoppia di nuovo più violenta di prima e Jake è costretto a fuggire insieme alla sua famiglia, trovando rifugio presso il popolo acquatico dei Metkayina, pacifici abitatori di un lussureggiante arcipelago marino dove sorge una grande barriera corallina. Ma il perfido Quaritch non intende rinunciare alla sua vendetta e riuscirà a scovarli, scatenando tutta la sua furia contro Sully e gli abitanti del mare che lo hanno accolto. Tredici anni e (quasi) 3 miliardi di dollari dopo, James Cameron ritorna su Pandora per il tanto atteso (ed a lungo rimandato) seguito di Avatar, film del 2009 dallo straordinario successo di pubblico, fino a diventare (al netto dell'inflazione) il maggior incasso della storia del cinema mondiale. In qualità di produttore, sceneggiatore (insieme a Rick Jaffa ed Amanda Silver) e regista, Cameron ha trascorso molti anni in Nuova Zelanda per lavorare sui seguiti di Avatar, che dovrebbero essere in totale quattro, con un calendario di uscite al momento previsto fino al 2028. E visti gli incassi stratosferici ottenuti anche da questo secondo capitolo (ad oggi arrivato a ben 2,3 miliardi di dollari, ma la sua corsa non è ancora finita), non c'è da meravigliarsi se il famoso regista canadese resterà impegnato ancora a lungo con le "sue" creature aliene del pianeta Pandora. Questo secondo film, altisonante e anche lungo (ben 192 minuti), si muove sulla falsariga del predecessore, ne mantiene inalterata la struttura narrativa, ne aumenta la spettacolarità visiva e ne conserva pedissequamente pregi e difetti. Una trama esile e facilmente prevedibile, il consueto iter drammatico di caduta ed ascesa, un sontuoso apparato tecnico figurativo di effetti speciali mirabolanti (ma, invero, non così tanto "innovativi" rispetto a quanto già visto nella pellicola del 2009) ed un finale aperto maggiormente proteso verso il lancio dei sequel che verranno. Il cast "storico" (Sam Worthington, Zoe Saldana, Sigourney Weaver, Stephen Lang, Giovanni Ribisi) è tornato al completo, con qualche innesto eccellente (ma poco sfruttato) come Kate Winslet, Cliff Curtis ed Edie Falco. Le cose migliori del film, che ne giustificano la visione, sono le nuove tecniche di performance capture digitali applicate (per la prima volta con questi risultati) alle riprese subacquee, che garantiscono l'immersione visiva in un affascinante mondo sottomarino popolato da creature fantastiche e nativi dalla pelle blu. E, soprattutto, il bel personaggio di Kiri, realizzato in CGI catturando le espressioni facciali di Sigourney Weaver, che si è cimentata (con ottimi risultati) nella sfida, non solo tecnologica, di "interpretare" una ragazzina adolescente. Su 4 candidature agli Oscar (tra cui quella per il miglior film), Avatar 2 ha portato a casa soltanto l'obbligatoria statuetta agli effetti speciali.

Voto:
voto: 3/5

The innocents (De uskyldige, 2021) di Eskil Vogt

Durante le vacanze estive la piccola Ida si trasferisce con la sua famiglia in popoloso sobborgo periferico norvegese. Nonostante il suo disagio per il nuovo quartiere e per la presenza (per lei ingombrante) di sua sorella maggiore Anna, affetta da una grave forma di autismo che le impedisce di esprimersi e di comunicare attraverso un linguaggio comprensibile, Ida fa amicizia con il suo coetaneo Benjamin, uno strano ragazzino un po' inquietante che sembra possedere poteri telecinetici e che la trascina in "giochi" sempre più sinistri e pericolosi. Quando nel gruppo entra anche Aisha, che riesce a comunicare telepaticamente con Anna con la quale stabilisce fin da subito un rapporto stretto e privilegiato, le dinamiche interne alla compagnia iniziano a corrompersi e scoppia presto il dramma. Secondo lungometraggio del talentuoso Eskil Vogt, sette anni dopo il precedente Blind (2014), principalmente conosciuto al pubblico come fedele sceneggiatore di Joachim Trier, per il quale ha finora scritto  tutte le pellicole. The innocents è un inquietante thriller che vira nel fantastico, algido nelle atmosfere, cupo nei toni e fortemente crudele nei contenuti, ma senza mai indulgere nella morbosa esplicitazione grafica della violenza che, saggiamente, resta quasi sempre fuori fuoco, pur essendo concettualmente raccapricciante. Il titolo è un evidente omaggio al capolavoro omonimo di Jack Clayton del 1961, che è uno dei capisaldi assoluti del genere horror, volutamente richiamato per la tematica comune dei bambini "diabolici"; una materia forte, politicamente scorretta, per molti addirittura insostenibile, ma che, se declinata con la giusta astrazione metaforica, riesce ad essere incredibilmente potente ed incisiva. Come in questo caso. Il contrasto tra il candore infantile dei personaggi e le azioni malvagie che essi commettono è indubbiamente disturbante, ma in perfetto sincrono con l'intento narrativo: i piccoli protagonisti, proprio in virtù della loro incontaminata "innocenza", sono puri, categorici, limpidi e quindi anche capaci di un male assoluto, perchè esercitato senza condizionamenti, vincoli, ipocrisia, sensi di colpa o mediazioni etiche. Prendendosi tutto il tempo necessario per approfondire la psicologia dei personaggi principali, Vogt riesce a rendere straniante anche l'antitesi tra il microcosmo di un ambiente sociale scandinavo (notoriamente sinonimo di efficienza, disciplina ed operosità) e quello che avviene all'interno del gruppo di bambini. Inoltre l'autore riesce (e questa è la miglior cosa del film) a scavare un solco profondo, che sancisce il netto confine tra il mondo degli adulti e quello dei minori, come splendidamente evidenziato a livello simbolico nella memorabile sequenza finale, che è effettivamente difficile da dimenticare (la tragica "lotta" che avviene silenziosa alla luce del giorno, davanti a tutti e senza che nessuno se ne accorga). Da rimarcare altresì qualche passaggio inutilmente tortuoso, qualche eccessivo calo di ritmo e qualche forzatura nella tematica sovrannaturale; sono peccati veniali "di gioventù" di un artista che è bravissimo nella scrittura ma che ancora deve trovare la piena asciuttezza nella regia, in modo da rendere il proprio racconto per immagini persino più aguzzo. E, nel caso di una storia come questa, più agghiacciante.
 
Voto:
voto: 3,5/5

Smile (2022) di Parker Finn

Rose è un psichiatra molto dedita al suo lavoro e con un angoscioso trauma del passato che non riesce a cancellare: la morte per suicidio della madre alcolizzata a cui lei, adolescente, assistette senza intervenire. Un giorno una giovane paziente arriva da lei in preda ad una totale disperazione e le racconta una strana storia: ritiene di essere perseguitata da un demone che, dopo essersi impossessato di un corpo, si manifesta agli altri attraverso un inquietante sorriso del volto e che conduce il posseduto prima alla follia e poi al suicidio. Quando Rose vede la ragazza tagliarsi la gola davanti a lei, col sorriso stampato sulla faccia, inizia a sospettare che il racconto della vittima possa nascondere una oscura verità. Ben presto il demone del sorriso inizierà a tormentare anche lei, facendola scivolare in un orrendo incubo. Ma è tutto reale o si tratta di allucinazioni contagiose? Questo horror psicologico dell'esordiente Parker Finn (che lo ha anche scritto oltre che diretto, ispirandosi ad un suo precedente cortometraggio del 2020 intitolato "Laura Hasn't Slept") è un film di paura che gioca abilmente con i violenti traumi, e relativi sensi di colpa, sepolti nella psiche umana, senza disdegnare fugaci accenni sarcastici a certe consuetudini sociali di facciata che "impongono" un atteggiamento felice come esibizione del proprio status di benessere e di affidabilità. La pellicola ha i suoi punti di forza in una prima parte molto inquietante, in alcuni momenti di notevole tensione e nella lodevole interpretazione della protagonista, la californiana Sosie Bacon (figlia d'arte del più famoso Kevin e di Kyra Sedgwick), che risulta intensamente credibile nella caratterizzazione tormentata della psicologa che combatte contro i (propri) demoni. Ma va anche detto che molto si perde in un finale troppo esplicito ed esplicativo, nel quale la resa degli effetti visivi suscita più imbarazzo che terrore. Inoltre non potrà sicuramente sfuggire agli appassionati del genere come il film sia ampiamente derivativo e fortemente debitore di celebri (e più riusciti) predecessori, Ringu (1998) di Hideo Nakata (che già aveva avuto un remake americano nel 2002 con Naomi Watts) e soprattutto l'agghiacciante It Follows (2014) di David Robert Mitchell, per l'espediente narrativo della maledizione che si trasmette, come una catena, di persona in persona fino alle estreme conseguenze.

Voto:
voto: 3/5

giovedì 27 aprile 2023

Gli sfiorati (2011) di Matteo Rovere

Mète è un giovane di buone maniere che lavora come tecnico grafologo e non riesce a perdonare suo padre Sergio, che vent'anni prima ha lasciato la famiglia per amore di un'altra donna (Virna) da cui ha avuto una figlia: l'adolescente Belinda, tanto bella quanto impertinente. In occasione delle nozze tra Sergio e Virna, Belinda si trasferisce momentaneamente nell'appartamento del suo fratellastro Mète, che è sempre stato segretamente attratto da lei. La presenza della fascinosa ospite turba l'abitudinaria quotidianità del ragazzo, che, combattuto tra desideri e sensi di colpa, cerca in tutti i modi di "sfuggirle", trascorrendo la maggior parte del tempo fuori casa insieme agli amici di sempre: il vispo Damiano (sciupafemmine impenitente) e l'ombroso Bruno (cronicamente depresso per problemi familiari). Ma la sensuale sorellastra diventerà ben presto l'elemento catalizzatore e disgregatore della compagnia. Il secondo lungometraggio di Matteo Rovere, tratto dall'omonimo romanzo di Sandro Veronesi, è un quieto dramma generazionale che, rispetto alla fonte letteraria di ispirazione, sposta l'azione dalla fine degli anni '80 al 2010. Con passo lento e tono mesto si accende solo quando è in scena la sexy "lolita" Belinda, che rifulge di maliziosa carnalità grazie alla performance "generosa" della giovane attrice italo-spagnola Miriam Giovanelli, ma che è forse un po' troppo caricata nei suoi stereotipi di acerba ammaliatrice. Il senso intimo del film, espresso già dal perentorio titolo, è quello di tracciare un affresco decadente, implosivo ed a tratti psichedelico dei così detti "sfiorati", ovvero una generazione di persone smarrite, annoiate, irrisolte, fuori tempo e fuori luogo, che oscillano tra abitudini ed eccessi senza mai riuscire a trovare una propria chiara identità, quasi inconsapevolmente sospesi in un limbo inerte. La riuscita metafora della grafologia (che consente di individuare "scientificamente" gli appartenenti alla categoria degli "sfiorati" attraverso l'analisi della scrittura) serve a fornire una base di astrazione alla suddetta condizione esistenziale, in bilico tra l'autodistruzione e la ricerca del piacere. La possibile via d'uscita suggerita dall'autore è, manco a dirlo, l'eros, inteso come elemento di ancestrale vitalità che sfugge all'inedia e vira verso un'inevitabile trasgressione, che funge sia da mezzo di soddisfazione che di oblio. Un oblio in cui perdersi, attenuando per un attimo il proprio stato di spaesamento. Non tutto funziona bene in questa pellicola altalenante, ad esempio la riflessione critica sulla generazione degli "sfiorati" appare troppo di maniera, oltre che ristretta ad una èlite abbiente ed alto borghese. Sono generalmente di buon livello le interpretazioni degli attori, in particolare Andrea Bosca, Michele Riondino, Aitana Sánchez-Gijón e Claudio Santamaria. La "ninfetta" di Miriam Giovanelli convince solo in parte, mentre Asia Argento, nel ruolo di una giovane donna, fatale nell'aspetto ma intimamente disperata, viene tenuta a briglia corta dal regista e risulta più misurata del suo solito. L'operazione complessiva riesce soltanto a metà e il film, alternando momenti ottimi ad altri di ingenuo impaccio, arriva appena a sfiorare il suo intento di esegesi sociale sulla gioventù contemporanea.

Voto:
voto: 3/5

lunedì 10 aprile 2023

John Wick 4 (John Wick: Chapter 4, 2023) di Chad Stahelski

Miracolosamente sopravvissuto agli eventi del precedente terzo capitolo, il killer solitario John Wick si nasconde con l'aiuto dei pochi amici che gli sono rimasti e cura le sue ferite nell'attesa di riprendere la lotta contro la Gran Tavola (il governo reggente del crimine mondiale) che lo ha scomunicato e continua a braccarlo senza tregua. Per stanarlo e ucciderlo una volta per tutte, i suoi nemici reclutano il viscido Marchese de Gramont, a cui vengono dati pieni poteri pur di ottenere il suo scopo. In un lungo peregrinare tra New York, Osaka, Berlino e Parigi, John Wick cerca disperatamente di risolvere il suo problema, incontrerà figure emerse dal suo oscuro passato ed affronterà in una sfida all'ultimo sangue nuovi terribili nemici, tra cui un imbattibile assassino giapponese, Caine, cieco ed esperto di arti marziali, ed un misterioso cecchino di colore che lo segue ovunque e sembra prevedere in anticipo tutte le sue mosse. Il quarto roboante e (si spera) ultimo film della saga crime di John Wick, ancora diretto egregiamente dall'ormai navigato Chad Stahelski, riesce ad alzare, nuovamente, un tantino più in alto l'asticella qualitativa del cinema d'azione americano, senza tradire le smisurate attese che lo accompagnavano e facendo la gioia dei sempre più numerosi fans del franchise, il cui inaspettato successo commerciale è stato puntualmente crescente ed oltre ogni aspettativa, proprio come il valore artistico e stilistico dei singoli episodi. In un mix sfavillante e adrenalinico di violenza da fumetto, scontri selvaggi con ogni tipo di arma, inseguimenti forsennati, duelli d'altri tempi, mattanze inaudite e antiche "sette" criminali, questo John Wick 4 sa regalarci azione al fulmicotone, una suggestiva varietà di luoghi e di ambientazioni, magnifici personaggi tridimensionali ed un finale di potente suggestione evocativa, che chiude nel miglior modo possibile la saga iniziata nel 2014. C'è quasi da gridare al piccolo miracolo per quanto saputo fare da Stahelski, che ha donato una nuova giovinezza artistica alla carriera di Keanu Revees ed ha creato un universo mitologico di oscura fascinazione simbolica, sospeso tra il mondo dei comics e quello dei videogiochi, agile nella messa in scena e mai serioso, anzi pervaso da una sottile ironia nera che tutto soccorre e tutto giustifica, garantendo stabilmente un irresistibile intrattenimento senza mai fare troppo a pugni con la sospensione dell'incredulità. Questo nuovo capitolo delle imprese del killer silenzioso e letale come la morte stessa, vede il ritorno di tutti i vecchi personaggi, con l'aggiunta di nuovi amici e di nuovi cattivi, tutti ben caratterizzati. Al cast storico (Keanu Reeves, Ian McShane, Laurence Fishburne, Lance Reddick) si aggiungono le new entry Bill Skarsgård, Shamier Anderson, Clancy Brown, Scott Adkins e, soprattutto, Donnie Yen e Hiroyuki Sanada, che con il loro carisma e la loro fisicità sanno offrire una decisiva marcia in più alla pellicola. Prendendosi tutto il tempo necessario nella sue quasi tre ore di durata, il film alterna con giusto equilibrio i momenti di azione iperbolica (sempre splendidamente coreografati con la consueta cornice stilistica, vigore plastico e ricchezza di invenzioni) a quelli più meditativi, nei quali abbiamo modo di conoscere i nuovi personaggi, approfondire le rispettive motivazioni e scoprire ulteriori elementi sul passato del nostro (anti)eroe. Estremamente curato in ogni dettaglio e nuovamente impaginato in una confezione estetica lussureggiante, il film viaggia spedito verso il finale "perfetto" attraverso una lunga serie di sequenze da incorniciare, una più riuscita dell'altra: la battaglia di Osaka, i sotterranei della Ruska Roma, la discoteca berlinese che sembra un girone dantesco, la sparatoria nella vecchia casa ripresa come un videogame, lo scontro furioso nel traffico caotico dell'Arco di Trionfo, le lunghe scalinate del Sacré-Cœur parigino, fino alla stupefacente resa dei conti all'alba, un attimo prima che la capitale francese si risvegli per un nuovo giorno. John Wick 4 stratifica quanto visto nelle pellicole precedenti e lo sublima con eccellenza, tramutando in epica il mondo, le gesta e la leggenda dell'infallibile assassino venuto dall'Est, senza dimenticare un pizzico di romanticismo tragico, il solito gustoso autocitazionismo e la teatrale arena del fato, dove tutto deve concludersi alla maniera antica, in un lavacro purificatore di sangue da versare, di colpe da espiare, di sacrifici da compiere e di vendette da ottenere.

Voto:
voto: 4/5

Babylon (2022) di Damien Chazelle

Nella Hollywood degli anni '20, durante l'età d'oro del cinema muto, s'incrociano le storie di diversi personaggi: un'aspirante attrice tutto pepe (Nellie LaRoy), bella, sfacciata, ambiziosa e con le unghie affilate per realizzare il suo sogno di diventare una diva. Un celebre attore di successo (Jack Conrad), alcolizzato e sottaniere ma dal cuore buono, perso tra vizi, problemi sentimentali e party goderecci. Un immigrato messicano (Manuel Torres), determinato e dal cervello fino, che fa il fattorino per gli studios e che riesce ad entrare nelle grazie di Conrad, grazie al quale saprà fare una incredibile carriera, diventando un abile produttore esecutivo. E ancora: un talentuoso trombettista jazz afroamericano (Sidney Palmer), che dalle feste dei vip arriva a recitare nei film musicali, una scaltra giornalista di gossip (Elinor St. John), i cui articoli taglienti riescono spesso ad influenzare vite e carriere dei divi del cinema, ed una sensuale cantante di cabaret (Fay Zhu), dall'irresistibile fascino esotico e dai gusti omosessuali. Il traumatico passaggio dal muto al sonoro li travolgerà tutti, segnando la fine di un'era e cambiandone per sempre i destini. Il quinto lungometraggio di Damien Chazelle è un imponente, lungo e sfarzoso dramma storico d'epoca, elegantissimo nella forma, sontuoso nella ricostruzione ambientale, di grande ambizione e dalle molte bellezze, variegato nel ritmo e nelle atmosfere, con un tono narrativo che spazia attraverso generi diversi, passando dal melodramma in costume all'affresco d'epoca, dalla commedia grottesca fino al noir. Probabilmente davvero troppo per convincere e soddisfare i critici che lo hanno generalmente stroncato, accusandolo di dismisura e di egocentrismo autoreferenziale, decretandone così il flop commerciale, visti anche gli alti costi produttivi. E invece Babylon è un film di grandiosa fattura e di equilibristico stile, in cui l'autore dà libero sfogo a tutto il suo estro per dar vita ad una malinconica epopea visiva per raccontare, attraverso figure decadenti, romantiche e maledette, il tramonto di un'epoca, il lato oscuro di Hollywood, i pericoli del divismo ed il peggio della natura umana. Nella Babilonia di Chazelle, un mondo chiuso e dissoluto fondato su effimeri piaceri e tossica vanità, fatto di eccessi sfrenati e di storie al limite, c'è tutto e il contrario di tutto, in una miscela di contraddizioni, debolezze e perdizioni in cui si alternano sogni, miti, energie, piaceri, leggende, aneddoti e misfatti dalla vecchia Hollywood del "periodo aureo", in cui ogni cosa sembrava possibile ed ogni cosa era permessa. Diviso idealmente in tre parti, con un approccio che alterna lo stile del classico d'antan alla satira sulfurea, con evidente intento di pungente critica iconoclasta facilmente applicabile anche allo star system di oggi, con qualche eccesso, qualche passaggio tortuoso, diverse semplificazioni e più di una indulgenza goliardica, questo film scomodo e magniloquente narra una storia ed un mondo già raccontato (talvolta egregiamente) da altri autori, ma resta sempre fedele all'idea di cinema del regista ed al suo nostalgico romanticismo caustico e contro tendenza. Nonostante l'evidente intento critico ed il bilancio amaramente in perdita di quella che fu la vecchia "eroica" fabbrica dei sogni americana, Chazelle mette dentro al suo film tutte le sue passioni ed infonde il suo smisurato amore per il cinema in ogni fotogramma, persino nelle scene più estreme e stravaganti (irresistibile quella di Nellie, ubriaca, che non riesce a tenere a freno la lingua durante il convegno dei potenti, inamidati benpensanti e parrucconi). Ma le sequenze straordinarie che esalano grande cinema da ogni frame sono davvero tante (l'orgiastico baccanale iniziale, la vita sui set durante le riprese, il viaggio infernale nella Los Angeles sotterranea, le prime difficoltà tecniche con le riprese sonore, l'epilogo al cinema) e la visione di questo rutilante "barnum" sarcastico mitologico non potrà che fare la gioia di ogni cinefilo che si rispetti. Fortemente voluto ed a lungo cullato dall'autore Damien Chazelle (che ne ha anche scritto la sceneggiatura), il film si avvale di un cast di prim'ordine in cui spiccano Margot Robbie (di una bellezza "isterica"), Brad Pitt (elegante e sornione), Diego Calva (una vera piacevole sorpresa), Li Jun Li (di magnetica raffinatezza) ed il Tobey Maguire "luciferino" che non ti aspetti. Senza dimenticare Jovan Adepo, Jean Smart, Olivia Wilde, Samara Weaving, Katherine Waterston ed Eric Roberts, tutti impeccabili e diretti con maestria. Tre nomination tecniche agli Oscar e nessun premio per quest'opera fortemente incompresa e sottovalutata, che testimonia come la critica "ufficiale" si muova spesso seguendo correnti di pensiero omologate ed "alla moda".

Voto:
voto: 4/5