martedì 31 gennaio 2017

La La Land (La La Land, 2016) di Damien Chazelle

Nella città degli angeli (e dei sogni) Sebastian, appassionato pianista jazz in cerca d’affermazione, e Mia, aspirante attrice che passa da un’audizione all’altra, si conoscono, si frequentano e s’innamorano. Ma il loro grande amore sarà presto messo alla prova dai rispettivi progetti professionali e poi dall’arrivo inatteso del successo, che ne cambierà abitudini e prospettive. Scintillante musical sentimentale del talentuoso Damien Chazelle, che, tra brio e leggerezza, mette in scena un omaggio vivace e nostalgico della vecchia Hollywood del periodo classico, quella dei celebri film musicali con Gene Kelly, Fred Astaire e Ginger Rogers. In un’elegantissima confezione estetica che dona esuberante risalto alle coreografie di danza, alla vitalità dei protagonisti ed alla bellezza dei panorami losangelini, questa luccicante “fiaba” moderna svolazza lieve tra romanticismo trasognato, citazionismo colto ed elegia del sogno. Perché, in fondo, è esattamente di questo che si parla: nella città dei sogni per eccellenza (Los Angeles), tra i locali jazz e gli studios cinematografici, tra le palme e i grandi Boulevards, il Sogno è la linfa vitale che regola le azioni dei due giovani amanti, alla disperata ricerca della realizzazione sentimentale e professionale. Lei sogna di diventare una grande attrice e si accontenta di un misero posto da barista per potersi mantenere e presenziare a tutti i provini che potrebbero aprirle le porte di Hollywood. Lui sogna di aprirsi un locale tutto suo dove poter finalmente suonare quel jazz puro che tanto ama e che ormai non piace più a nessuno. Ed il titolo stesso gioca ambiguamente, nel suo doppio significato, sul tema del Sogno: “La La Land” è un’espressione americana che può essere tradotta come “vivere nel mondo dei sogni”, ma può anche riferisi a Los Angeles (tramite la ben nota abbreviazione L.A.), ovvero la città che da sempre rappresenta, nell’immaginario collettivo, il posto dove i sogni possono essere realizzati. Peccato che il film paghi lo scotto sia di una parte centrale un po’ stiracchiata e meno interessante, sia delle non proprio eccellenti capacità nel ballo e nel canto dei due protagonisti principali, Ryan Gosling ed Emma Stone, la cui indubbia presenza scenica non va di pari passo con le qualità canore. Belle e coinvolgenti, invece, le musiche originali composte da Justin Hurwitz, capaci di esaltare degnamente il cuore e il dinamismo che trasudano dalla pellicola. Chazelle dimostra di saperci fare con il mezzo cinema e dà sfogo a tutto il suo amore per il jazz e per i classici regalandoci un paio di sequenze notevoli (vedi il balletto d’apertura sull’autostrada bloccata dal traffico) ed alcune gustose citazioni (come l’intenso finale che omaggia il famoso “Play it, Sam” di Casablanca o la scena del planetario che celebra un altro “monumento” del cinema hollywoodiano come Gioventù bruciata). Completano il cast Rosemarie DeWitt, John Legend e J. K. Simmons, che torna a lavorare con Chazelle dopo la grande performance di Whiplash e ci regala anche la battuta più riuscita del film. Acclamato unanimemente come pellicola dell’anno da critica e pubblico, era dato come sicuro trionfatore agli Oscar 2017, dove ha vinto sei statuette su ben quattordici candidature mancando però il premio più ambito di miglior film. A dirla tutta non va oltre la bontà di un prodotto certamente sopra la media ma anche in forte odore di sopravvalutazione. La recente tendenza di Hollywood di celebrare (e premiare) i grandi generi classici del passato (il muto nel 2012, il film d’impegno sociale nel 2013, il dramma teatrale nel 2015 e il dossier d’inchiesta nel 2016) è la chiara testimonianza della mancanza di nuove idee. Citando per l’occasione una frase di  La La Land:Come si può essere rivoluzionari se si è così tradizionalisti ?”.

Voto:
voto: 3,5/5

lunedì 30 gennaio 2017

The Lobster (The Lobster, 2015) di Yorgos Lanthimos

In un ipotetico futuro (a noi prossimo) la società ha bandito lo status di single e, tutti coloro che hanno superato una fascia d’età e si trovano senza partner, vengono deportati in un hotel, solo apparentemente lussuoso, nel quale vigono rigide regole comportamentali. Gli “ospiti” sono costretti a socializzare tra di loro e hanno 45 giorni di tempo per trovare l’anima gemella, altrimenti saranno trasformati in un animale da loro scelto al momento del check-in. Per aumentare il periodo di permanenza i single possono anche dedicarsi alla caccia ai ribelli che vivono nel bosco attiguo, guadagnando un giorno per ogni dissidente catturato. David, scialbo uomo di mezza età  lasciato dalla moglie e insofferente rispetto ai rituali imposti nell’albergo, non riesce ad empatizzare con nessuno tra gli “ospiti” e, prima di pagare il dazio della trasformazione, decide di fuggire per unirsi ai ribelli nel bosco. Qui s’innamora, ricambiato, di una rivoltosa con problemi di vista, ma scoprirà, suo malgrado, che le regole del nuovo gruppo proibiscono i legami sentimentali. Ambizioso dramma di fantascienza distopica costruito sul filo del paradosso dal greco Lanthimos, sotto la lente deformante di un grottesco acido che a volte indulge in sequenze truci. L’evidente intento polemico nei confronti del conformismo sociale, che il regista intende deridere attraverso quest'aspra farsa dal tono dark, viene attenuato dall’estrema seriosità di un’opera cinicamente ampollosa, così tronfia da scadere nel sadismo ideologico. Il grande cast (Colin Farrell, Rachel Weisz, John C. Reilly, Léa Seydoux) appare svogliato e poco in sintonia con questo pastiche di suggestioni e di influenze dallo stile asettico che mira a suscitare (riuscendoci perfettamente) un ruvido straniamento nello spettatore. Lanthimos gioca a fare l’Haneke ma senza possederne il rigore concettuale, la densità tematica, l’estro stilistico e la tagliente snellezza. L’eclissi dei sentimenti in un mondo ormai dominato da mode, convenzioni, opportunismo e materialismo, non può che condurre ad un nuovo Medioevo in cui la ragione ha ceduto il posto alla mostruosità e la libertà individuale alle etichette sociali. E’ questo il messaggio di fondo di un’opera troppo austera per essere lucida e troppo bigia per cogliere realmente nel segno. Il film ha ricevuto il Premio della Giuria al Festival di Cannes 2015. Il titolo (lobster) allude all’animale scelto da David in caso di trasformazione: l’aragosta.

Voto:
voto: 3/5

mercoledì 25 gennaio 2017

Il figlio di Saul (Saul fia, 2015) di László Nemes

Saul è un ebreo ungherese prigioniero in un campo di sterminio nazista e reclutato come “sonderkommando”, ovvero come aiutante degli aguzzini nell’esecuzione del loro folle disegno criminale. Le sue attività quotidiane, vissute con dolente assuefazione, consistono nell’accompagnare gli ignari deportati appena scesi dai treni nelle docce della morte, ripulire la scena dell’eccidio, trasportare i poveri corpi nudi verso i forni crematori e trafugare gli eventuali oggetti di valore nascosti nei miseri cenci delle sventurate vittime. Ma un giorno Saul crede di riconoscere suo figlio nel cadavere di un ragazzo e decide di trafugarne il corpo per risparmiarlo al fuoco e concedergli una degna sepoltura. Come pervaso da una mistica follia, l’uomo si mette alla disperata ricerca di un rabbino che possa officiare con rito religioso la tumulazione del ragazzo, ignorando del tutto gli evidenti rischi dell’impresa e le azioni furtive dei suoi compagni che stanno organizzando una rivolta contro i tedeschi. Straordinaria opera prima di László Nemes (già assistente del grande Béla Tarr) con questo autentico capolavoro che affronta il sempre scottante tema della Shoah con una potenza estetica, un rigore formale, una lucidità espressiva ed un pudore di sguardo che non hanno eguali nelle numerose pellicole finora dedicate all’Olocausto ebraico. Durante il periodo più oscuro della storia occidentale, all’interno delle atroci “fabbriche della morte” edificate dalla follia nazista, c’erano i sadici carnefici, le povere vittime e anche i prigionieri “di robusta costituzione” costretti a collaborare con il nemico nell’esecuzione del lavoro “sporco”, nella speranza di potersi salvare la vita. In realtà, nella spietata logica delle SS, i “sonderkommando” duravano pochi mesi, per poi essere a loro volta eliminati e sostituiti da nuovi arrivi più “freschi”. L’emblematica vicenda di Saul è quella di un uomo annichilito dagli orrori a cui ha assistito, abbrutito dalle condizioni di “vita” disumane in cui è costretto e tenuto in piedi dal solo primordiale istinto di conservazione, l’unica possibile fonte da cui attingere l’energia che gli consente di andare avanti, come un inerte automa che annaspa in un mare di brutalità e di dolore. Il fatale incontro con il ragazzo, che potrebbe essere suo figlio, saprà riaccendere in lui quella scintilla di umanità annientata da anni di atrocità e darà un senso (nella morte) alla sua non vita. La suggestiva scelta estetica dell’autore, girare il film in formato 4:3 (come a voler comprimere l’abominio) attraverso la prospettiva di Saul, con la macchina da presa perennemente incollata alle sue spalle o al suo volto, costituisce la geniale cifra stilistica ed il punto di forza assoluto di quest’opera magistrale. Attraverso il continuo ed inquieto “pedinamento” compiuto dalla camera nei confronti del protagonista, ci vengono pietosamente risparmiati gli orrori insostenibili che avvengono tutt’intorno, costantemente tenuti fuori fuoco, e la pellicola acquisice un dinamismo plastico che letteralmente ci immerge, e ci travolge, in un claustrofobico incubo ad occhi aperti. Un incubo di truce alienazione in cui tutte le coordinate morali sono state smarrite, da cui la dignità umana è volata via per sempre ed in cui la pur folle impresa del protagonista appare come l’unica cosa sensata. La disperata corsa di Saul diventa quella dello spirito dell’uomo che cerca costantemente (per dirla alla Dante Alighieri) la “via delle stelle” anche nel più profondo degli inferni. E il finale, tragicamente straordinario, che sublima tutti gli orrori con l’ultimo lampo visionario, è la chiosa perfetta per un film memorabile, capace di esprimere eroici frammenti di disperata umanità in un semplice gesto. Una menzione speciale va anche data all’intenso protagonista Géza Röhrig, alla fotografia “sporca” di Mátyás Erdély ed alle musiche angoscianti di László Melis. Il film, giustamente applaudito dalla critica di tutto il mondo, è stato meritatamente premiato con l’Oscar al Miglior Film straniero e con il Grand Prix Speciale della Giuria al Festival di Cannes.

Voto:
voto: 5/5

Silence (Silence, 2016) di Martin Scorsese

Nella prima metà del XVII secolo, al tempo delle violente persecuzioni in Giappone contro la minoranza cristiana, due giovani gesuiti portoghesi, padre Rodrigues e padre Garupe, decidono di partire verso la terra del sol levante alla ricerca del loro mentore, padre Ferreira, sparito nel nulla da molti anni. I due decidono di sfidare il grave pericolo degli spietati persecutori nipponici (che intendono eliminare dal loro paese ogni influenza occidentale), non solo per ritrovare il loro vecchio Maestro religioso ma anche per smentire le voci infamanti che lo accusano di aver abiurato la fede cristiana e di esser passato dalla parte avversa. Dal romanzo omonimo di Shûsaku Endô, Scorsese ha tratto un sontuoso capolavoro, di raggelante potenza visiva e di doloroso struggimento interiore, realizzando così un suo personale sogno rimasto a lungo nel cassetto. Il grande regista italoamericano ha infatti pensato a questo film per circa 25 anni, rimandandone più volte l’attuazione, prima di poterlo finalmente realizzare. Il tema centrale dell’opera letteraria, ovvero il Silenzio di Dio di fronte alla sofferenza umana, viene ampiamente sviscerato (e addirittura esteso) in questo film imponente, austero, teso, tetro, un denso apologo sulla fede e sul suo significato più recondito. Lineare nella struttura ma sfaccettato e sfuggente nei sottotesti, è un film cristiano e non catartico, un affresco problematico e meditabondo, ricolmo di dubbi e di tormenti (fisici ma soprattutto spirituali), che intende esplorare il cuore intimo della fede, ovvero il rapporto tra uomo e Dio in termini di patos interiore. Costruito abilmente come una via Crucis sempre più lacerante, riesce a sintetizzare con soprendente rigore espressivo una molteplicità di temi di elevato spessore (storia, politica, religione), mettendo sovente in discussione lo stesso punto di vista trainante (come già detto trattasi di una pellicola cristiana) e offrendoci anche le motivazioni della parte avversa, attuando così un fertile relativismo di giudizio. I confini tra follia e misticismo, evangelizzazione e invasione, intolleranza e rispetto delle proprie tradizioni, fanatismo e dogma, istinto di conservazione e codardia, sono, in fondo, molto esili e quest’opera magniloquente riesce quietamente a percorrere questa sottile linea di demarcazione, indugiando ora da un lato ora dell’altro del “baratro”, per mostrarci sprazzi di un abisso (interiore) fin troppo vasto per essere realmente compreso. Più che alla ragione Silence parla al nostro animo e al nostro cuore, a quell’essenza ora sublime ora miserabile che costituisce il nadir della spiritualità umana. Ponendo grandi domande, ma senza la banale pretesa di fornire risposte, quest’opera monacale e privata ci illustra un possibile percorso mistico esistenziale e, senza concedere sconti afflittivi, si erge prepotentemente come un nuovo modello con cui il cinema a sfondo storico dovrà fare i conti. Dal punto di vista tecnico è un capolavoro assoluto con la suggestiva fotografia di Rodrigo Prieto, i plastici movimenti di macchina, le prospettive dall’alto, l’imponente ricostruzione storico ambientale, le realistiche scenografie e i costumi di Dante Ferretti e Francesca Lo Schiavo, che letteralmente ci immergono, con feroce realismo, nel Giappone del 1600. Numerose le sequenze memorabili (l’agghiacciante prologo con le torture nella caldara naturale, l’arrivo sul mare nebbioso, il confronto tra Rodrigues e l’Inquisitore buddista), altrettanti i momenti di volo alto e le citazioni colte al grande cinema d’autore orientale (Mizoguchi e Kurosawa in primis). Nel cast tra Andrew Garfield, Liam Neeson, Tadanobu Asano e Adam Driver, i più efficaci sono i giapponesi Issei Ogata e Yōsuke Kubozuka. Interessante e fonte di non banali riflessioni la figura del “Giuda” nipponico, eternamente sospeso tra pentimento e debolezza, opportunismo e rimorso. Il ritorno di Martin Scorsese ai grandissimi livelli artistici che gli erano abituali è una notizia di cui ogni appassionato di cinema non può che gioire.

Voto:
voto: 4,5/5

Escobar (Escobar: Paradise Lost, 2014) di Andrea Di Stefano

Nick, giovane surfista canadese, raggiunge il fratello in Colombia e qui si ferma, convinto di aver trovato il paradiso terrestre. L’incontro con la bella Maria, di cui il nostro s’innamora perdutamente, cambierà per sempre la vita del ragazzo, a partire dal giorno in cui Maria gli farà conoscere il suo potente e temuto zio, Pablo Escobar, il più celebre narcotrafficante di tutti i tempi, adorato dalle folle come un eroe popolare. L’inevitabile ingresso di Nick negli “affari di famiglia” trasformerà la sua vacanza colombiana in un incubo. Interessante esordio registico dell’italiano Andrea Di Stefano (finora più conosciuto come attore per aver preso parte a grandi produzioni internazionali), con questo film teso e cupo, a metà strada tra il biopic, il thriller, l’action movie ed il noir. Diretto con buona perizia tecnica e lucido senso della narrazione drammatica, contiene già nell’eccellente citazione del titolo originale (Paradise Lost) il suo senso più intimo: il giardino dell’Eden in cui i due giovani amanti, pieni di entusiasmo e di passione, si perdono a causa della presenza del diavolo, che prima li tenta, poi li ammalia e infine li travolge nel suo disegno malefico. Ma l’autentico punto di forza del film risiede nell’eccellente interpretazione del sempre grande Benicio Del Toro, che prima si trasforma fisicamente in Escobar e poi ce ne mostra il carisma, il fascino sinistro, la violenza sanguinaria, ma anche gli slanci sentimentali e la tenerezza nei confronti della sua famiglia. Memorabile, in tal senso, la sequenza in cui Del Toro/Escobar canta in pubblico la versione spagnola di “Dio come ti amo”, dedicandola alla moglie. Tra i deliri di onnipotenza, le fiabe lette ai figli, le colorite riunioni familiari e gli stermini brutali dei suoi rivali, l’autore ci mostra la quotidianità del male del feroce “re della cocaina”, divenuto popolarissimo negli anni ’80 e ’90 fino alla sua tragica fine. La gigantesca performance di Del Toro è il baricentro dell’azione e fa ovviamente sbiadire quelle del resto del cast, in cui citiamo Josh Hutcherson e Claudia Traisac, a loro agio nei panni dei due giovani innamorati alle prese con un destino più grande di loro. Il senso di tragedia incombente che pervade la pellicola fin dalle prime scene diventa la cifra stilistica di un’opera che si lega al male indissolubilmente come il suo titanico protagonista.

Voto:
voto: 3,5/5

Arrival (Arrival, 2016) di Denis Villeneuve

La dottoressa Louise Banks è una stimata linguista con una tragedia familiare alle spalle, che viene convocata dall’esercito per una missione straordinaria: cercare di comunicare con entità aliene che hanno inviato dodici astronavi in punti diversi della terra. Coadiuvata dal fisico Ian Donnelly, la Banks dovrà trovare un protocollo di comunicazione con i misteriosi visitatori per capire chi sono, cosa vogliono e da dove vengono. Mentre tutto intorno cresce l’isteria dei paesi più belligeranti, che vorrebbero attaccare gli alieni in cui vedono una possibile minaccia, la Banks cerca di decifrare la scrittura simbolica degli ospiti e stabilire con essi un rapporto di reciproca fiducia, in una disperata corsa contro il tempo. Dal racconto "Storia della tua vita" di Ted Chiang, il promettente Denis Villeneuve ha tratto un ambizioso film di fantascienza esistenziale con intenti filosofici, corroborato da spunti scientifici verosimili (la teoria di Sapir-Whorf) per rinforzarne la tesi e nobilitarne l’impianto concettuale. Il tema dell’incontro tra umani e alieni è stato ampiamente abusato da tutta la fantascienza (sia letteraria che cinematografica) al punto che ormai è difficile aspettarsi qualcosa di nuovo. Il regista canadese ci riesce solo in parte, muovendosi sulla scia di Spielberg (Incontri ravvicinati del terzo tipo), Zemeckis (Contact) e soprattutto del recente Interstellar di Christopher Nolan. Senza svelare troppo della trama possiamo limitarci a dire che il tentativo (encomiabile) di realizzare un’opera di fantascienza “colta” per il grande pubblico ha dato vita ad un’affascinante miscela di sci-fi emotiva improntata sul fattore umano, che cerca di scavare nel profondo del nostro animo. Ma non tutto quadra e non tutto convince tra pseudo scienza divulgativa e digressioni filosofiche esistenzialistiche. Come a dire: prendi Tarkovskij e piegalo alle regole del mainstream, barattandone la poesia con il sentimentalismo e la capacità di astrazione con un più rassicurante didascalismo. Ma il film (che ha raccolto consensi quasi unanimi presso la critica e il pubblico) ha anche i suoi meriti nelle suggestioni ipnotiche (la straordinaria sequenza degli eptopodi che tracciano gli ideogrammi circolari sulla vetrata di separazione vale da sola il prezzo del biglietto), nell’approccio intimistico (come una dolce poesia malinconica sussurrata all’orecchio) e nel suo reale significato di elegia della vita nella sua pienezza, perchè, anche se il finale è certo, vale comunque la pena di assaporarne le emozioni. La confezione tecnica è di primissimo ordine e Villeneuve conferma il suo talento di autore emergente. Nel grande cast, che annovera Amy Adams, Jeremy Renner, Forest Whitaker e Michael Stuhlbarg, svetta la protagonista femminile con un’interpretazione di coinvolgente intensità drammatica.

Voto:
voto: 3,5/5

La via lattea (La voie lactée, 1969) di Luis Buñuel

Due viandanti percorrono il famoso cammino di Santiago di Compostela dalla Francia alla Spagna. Durante il tragitto s’imbattono in una serie di stravaganti personaggi e di situazioni al limite dell’assurdo: bambini che invocano anatemi, un alto prelato che dubita della Trinità divina e condanna al rogo il suo predecessore, un gruppo di anarchici che vogliono fucilare il Papa, due religiosi che si sfidano a duello dopo un litigio su questioni dogmatiche, il marchese De Sade che spiega alle sue vittime perchè Dio non esiste, la Madonna che dona un Rosario a un cacciatore sacrilego. Alla fine del viaggio una prostituta svelerà ai due uomini la vera identità del corpo, ritenuto dell’apostolo San Giacomo, sepolto nel celebre santuario spagnolo, meta annuale di migliaia di pellegrini. Capolavoro sarcastico di Buñuel, sotto forma di metafora surreale, intrisa di caustici graffi alla religione, che intende rappresentare il percorso del cristianesimo nell’arco dei secoli. L’irriverente verve iconoclasta dell’autore tocca il suo apice in questo film indubbiamente non facile e a volte un po’ confuso, ma stracolmo di inserti geniali e di trovate di visionarietà superiore, volte a mettere alla berlina le contraddizioni, i fanatismi, le ingiustizie ed i soprusi perpetrati dalla religione cristiana in nome di Dio. Paradossale e impudente, in bilico tra dramma e grottesco, storia e dottrina, satira e ideologia, questa personale versione della storia della Chiesa, reinterpretata da un ateo surrealista impenitente, può anche esser letta come libello sul potere o elegia della libertà. Ma la vera forza della critica dissacrante del grande Maestro di Calanda risiede nel suo intelligente relativismo: Buñuel, da sempre critico verso la Chiesa ed il suo dogmatatismo arrogante, non lesina rispetto verso l’importanza del Cristianesimo nella cultura occidentale, nè commette mai l’errore di incorrere nel medesimo peccato che qui intende condannare: il fanatismo capzioso che porta a ritenere la propria tesi come unica depositaria della verità. Ed è altresì evidente che, più che la dottrina in sè, egli intende attaccare l’uso demagogico che gli uomini ne hanno fatto per esercitare il proprio potere su altri uomini. Affilato e illuminato nel suo intento “sacrilego”, questo personale affresco metastorico è figlio (legittimo) degli anni di forte contestazione socioculturale in cui venne concepito.

Voto:
voto: 4,5/5

venerdì 20 gennaio 2017

Cafè Society (Cafè Society, 2016) di Woody Allen

Negli anni ’30 il giovane ebreo newyorkese Bobby Dorfman decide di lasciare la sua famiglia nel Bronx per tentare il successo a Los Angeles con l’aiuto di suo zio Phil, potente produttore cinematografico di Hollywood. Giunto nella mecca del cinema Bobby s’innamora perdutamente della bella segretaria Vonnie, che però è già legata sentimentalmente ad un uomo sposato ben più grande di lei. Bobby non si dà per vinto e cerca in ogni modo di conquistare il cuore della ragazza, ma un’amara sorpresa lo attende. Scintillante commedia nostalgica di Allen, che omaggia i suoi miti (il cinema della vecchia Hollywood, la musica jazz degli anni d’oro), ammicca al passato con riverente melanconia e ripropone con solida coerenza i suoi temi prediletti (la difficoltà dei rapporti di coppia, New York contro Los Angeles, la formazione ebraica, il cinismo esistenziale, l’ineluttabilità del destino). Nonostante una filmografia smisurata che non ammette pause (Allen fa praticamente un film all’anno e questa è la sua 46° pellicola da regista!), il grande autore americano sa ancora regalarci lampi di genio e piccole perle come quest’opera elegantissima e agile, la cui consueta leggerezza del tocco è impreziosita dalla sontuosa confezione estetica, con la splendida fotografia del nostro grande Vittorio Storaro, le ricche scenografie di Santo Loquasto ed il commento musicale jazz abilmente selezionato dallo stesso autore. Tra bettole del Bronx, sfarzose ville hollywoodiane e night club sofisticati, Allen ci offre un’abbagliante fotografia dal gusto retrò della “Cafè Society”, epoca ammirata e idealizzata, ma filtrata attraverso la propria personale concezione della vita e sensibilità artistica. Non mancano, quindi, i graffi alla dissolutezza degli ambienti hollywoodiani, i caustici strali alla religione e l’amaro disincanto in merito alle relazioni umane, perennemente fugaci e fallibili a causa della congenita debolezza dei suoi protagonisti. Il finale beffardo ambientato nella notte di Capodanno è un po’ un compendio dell’Allen pensiero in merito al rapporto di coppia e lo sguardo, ormai maturo, dell’autore sembra accarezzare con bonaria saggezza i bei volti dei suoi giovani attori, costretti a fare i conti con la realtà. Quello che manca è la tipica battuta fulminante che suggella il senso tragicomico della vicenda, ma dobbiamo accontentarci di un sapido aforisma che il regista fa pronuciare al giovane Bobby: “La vita è una commedia scritta da un sadico commediografo”. Nel grande cast segnaliamo: Jesse Eisenberg, Kristen Stewart, Blake Lively e Steve Carell, che svetta su tutti gli altri confermando la sua recente predisposizione ai ruoli drammatici.

Voto:
voto: 4/5

Sully (Sully, 2016) di Clint Eastwood

Chesley Sullenberger, detto “Sully”, è un esperto pilota di aerei di linea con tanti anni di servizio all’attivo. La mattina del 15 gennaio 2009 il volo US Airways partito dall’aeroporto newyorkese di LaGuardia con oltre 150 passeggeri a bordo, di cui il nostro è comandante, viene colpito da uno stormo di uccelli subito dopo il decollo, con conseguente avaria di entrambi i motori. Sullenberger è costretto a prendere rapidamente una decisione drastica e opta per un disperato tentativo di ammaraggio sul fiume Hudson. Il “miracolo” riesce e tutte le persone a bordo vengono tratte in salvo. La gente acclama “Sully” come un eroe popolare ma una commissione d’inchiesta della compagnia aerea lo mette sotto torchio e lo accusa di aver rischiato la vita dei passaggeri con una manovra avventata. Il comandante dovrà difendere la sua reputazione e la sua carriera dalle accuse infamanti. Quarto biopic consecutivo per Clint Eastwood, che ha un’evidente predilezione per il genere, con questo dramma biografico teso e denso che è anche il migliore del lotto citato. Diretto con mano sicura (sarebbe il caso di dire con il “pilota automatico”) e con stile asciutto, è un ritratto intimo di un eroe del nostro tempo, un uomo affidabile e discreto che ha fatto del lavoro e della dedizione la sua stessa vita. Interpretato da Tom Hanks con ammirevole senso della misura, il Sullenberger di Eastwood vuole essere la risposta elegante al clamore mediatico, all’esibizionismo della società tecnologica, all’arroganza dei venditori di fumo. Mirando a ridefinire il concetto stesso di eroe, attraverso un sagace  minimalismo dal sapore umanistico, l’autore ci regala un film compatto, agile, solido, un’accorata elegia dell’uomo comune che lavora dietro le quinte, con passione e competenza, e che non teme di metterci la faccia quando ritiene di essere nel giusto. Attraverso la figura di Sullenberger il regista intende lodare quella parte di umanità silente ed operosa che costituisce la spina dorsale del modello sociale capitalistico. E per ridurre il rischio di agiografia, sempre alto in operazioni di questo tipo, Eastwood sceglie di puntare soprattutto sullo scandaglio interiore del suo protagonista, evidenziandone anche la dimensione privata, le fragilità, i dubbi e le insicurezze. Dal punto di vista tecnico la pellicola è sontuosa: splendida fotografia “glaciale”, ottimo montaggio e perfetta realizzazione delle adrenaliniche sequenze dell’ammaraggio. A completare il cast un Aaron Eckhart baffuto e Laura Linney nel ruolo della moglie amorevole e determinata. Da un (grande) regista che ha fatto della sobrietà la sua cifra stilistica, un nuovo impeccabile esempio di nuovo cinema classico con cui fare i conti.

Voto:
voto: 4/5