giovedì 26 febbraio 2015

Todo modo (Todo modo, 1976) di Elio Petri

In un’atmosfera da apocalisse urbana, con il paese allo sbando sotto gli effetti di una grave epidemia, alcuni alti esponenti del partito che detiene il potere da decenni, guidati dal Presidente M, si riuniscono in una sorta di lugubre albergo convento, diretto dal gesuita don Gaetano, per un ritiro spirituale comunitario, che porti ad una proficua riflessione sul momento politico attuale. In realtà il vero scopo, non dichiarato ma a tutti evidente, è quello di realizzare una nuova spartizione dei poteri, cercando un equilibrio tra le diverse forze in campo. Ma quando i convenuti inizieranno a morire l’uno dopo l’altro, uccisi da un assassino misterioso, scoppierà il caos e tutti sospetteranno di tutti. Liberamente tratto dal romanzo omonimo di Leonardo Sciascia, questo metafisico apologo sul potere segna l’ultima collaborazione tra il regista Elio Petri ed il grande attore Gian Maria Volonté. Un connubio, artistico ed umano, straordinario, che ha reso grande il cinema politico italiano degli anni ’70. In quest’opera astratta, dai tratti surreali e grotteschi, nata non a caso negli anni del così detto “compromesso storico”, l’autore intende tracciare un’evidente metafora della decadenza della DC, ispirandosi all’allegoria del “palazzo” utilizzata da Pasolini per raffigurare l’atteggiamento monolitico e corporativo dei galoppini del potere, che operano sempre e comunque per preservare il loro status quo di privilegio. Il personaggio del Presidente M, interpretato, come al solito, in modo straordinario da Volonté, è chiaramente modellato sulla figura di Aldo Moro, che, all’uscita del film, era presidente del consiglio. La caratterizzazione di M, oltre all’incredibile somiglianza fisica con il vero Moro, ne ricalca i modi, gli atteggiamenti, le espressioni, lo stile, attuandone però una distorsione allegorico surreale, una maschera caricaturale, per non incappare in problemi di censura. Dopo la prematura e tragica scomparsa di Pier Paolo Pasolini, l’intellettuale scomodo per eccellenza, Petri ne prende, idealmente, il posto in questo film di denuncia, che ambisce ad essere una sorta di “processo” pubblico, in forma derisoria e farsesca ma con toni di cupa amarezza, alla classe politica dirigente democristiana che ha governato il paese per un trentennio. Tutti i personaggi hanno una connotazione ambigua a sfondo negativo, tutti dimostrano la medesima rapacità nell’ottenimento o nella conservazione della rispettiva “poltrona”. Lo stesso M, dai modi raffinati, affabili e conciliatori, nasconde molti lati oscuri che si disvelano nel corso della pellicola. Il marcato utilizzo del grottesco e lo straniamento espressionista che pervade l’opera, conferendogli un’allucinata atmosfera onirica, rispondono all’esigenza del regista di voler realizzare una denuncia della corruzione e dei malcostumi democristiani, evitando opportunamente gli strali censori grazie all’uso del surrealismo. In questo caotico pamphlet di fantapolitica trovano spazio e spessore elementi eterogenei come le suggestioni sadiane (nell’aula bunker sotterranea dell’albergo-fortino si consuma un’autentica orgia di sadomasochismo politico), le allegorie sessuali (il democristiano eunuco impotente sia sessualmente che politicamente), le profezie apocalittiche (l’autodistruzione di una dirigenza politica arrivata al culmine del suo delirio decadente), le metafore religiose (l’autoflagellazione mortificatrice di uomini che hanno tradito i principi religiosi furbescamente sbandierati e dietro al cui stemma hanno costruito il loro stesso potere temporale, ma anche l’evidente connotazione rituale della cerimonia blasfema con cui i miserabili funzionari scelgono di auto-terminarsi). Quest’opera importante, pretenziosa e, senza dubbio, ermetica, voleva essere la summa dell’arte di Petri, il manifesto definitivo della sua estetica ed il simbolo solenne del suo cinema politico. Ma, con tutti i suoi indubbi meriti satirici e stilistici, non riesce a raggiungere lo status di capolavoro perché manca di equilibrio, di sintesi concreta, ed è troppo rancorosa nella sua programmatica critica distruttiva che finisce per scadere nella retorica di un’agiografia negativa, perdendo, quindi, sia in lucidità che in capacità di sublimazione universale, che sappia elevarsi al di sopra delle beghe meschine della nostra “italietta”. Alla sua uscita il film scatenò furibonde polemiche e venne aspramente criticato sia dalla Democrazia Cristiana che dal Partito Comunista, trovando nel solo Sciascia un veemente difensore. Dopo il rapimento di Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse, del cui tragico epilogo quest’opera sembrò dare una sinistra anticipazione profetica, il film fu puntualmente “oscurato” dal potere censorio, finendo nel dimenticatoio per molti anni, come un ingombrante documento di un periodo oscuro che la ragion di stato preferisce far scivolare nell’oblio per una sorta di pavida “decenza”. Al di là di ogni faziosità politica, si può riconoscere, col senno di poi, che la previsione di Petri sulla capitolazione implosiva di DC e PCI si è rivelata del tutto esatta. Nel grande cast spiccano, oltre al protagonista Volonté, Marcello Mastroianni, Michel Piccoli, Mariangela Melato, Franco Citti e Ciccio Ingrassia. Una menzione speciale va data alle inquietanti scenografie visionarie di Dante Ferretti, sospese tra l’incubo espressionista e la distopia surreale.

Voto:
voto: 4/5

La decima vittima (La decima vittima, 1965) di Elio Petri

In un futuro imprecisato le guerre sono state abolite, ma lo sfogo degli istinti aggressivi, tipici dell’uomo, viene garantito attraverso un crudele gioco di caccia all’uomo, in cui ciascun partecipante si alterna nel ruolo di preda e di cacciatore, fino alla morte di uno dei due contendenti. Il gioco viene trasmesso, con grande enfasi, in diretta televisiva ed i campioni più longevi sono equiparati a delle star internazionali per la notorietà che hanno raggiunto. Il regolamento prevede che, chi per primo riuscirà a vincere dieci cacce, sarà eletto campione Decathlon. La bella americana Caroline Meredith, che è riuscita a superare indenne nove incontri, uccidendo sempre i suoi avversari, è ad un passo dal prestigioso riconoscimento ma, per raggiungerlo, deve eliminare la vittima che le è stata designata dall’estrazione computerizzata: l’italiano Marcello Poletti, negligente e senza particolari abilità, che ha superato incolume sei cacce per pura fortuna. Interessante commistione tra fantascienza, dramma e commedia, con picchi satirici irridenti e lampi visionari degni del regista, che qui si cimenta in un genere inusuale per lui e per il cinema italiano. Tratto dal racconto breve “La settima vittima” di Robert Sheckley, di cui sovverte clamorosamente il finale, è un film disomogeneo che ha i suoi punti di forza nelle ambientazioni geometriche, nell’estetica antirealistica e cromaticamente vivace, intrisa delle suggestioni “pop art” tipiche del tempo, di cui incarna perfettamente l’esuberanza visiva e lo straniamento anacronistico. In tal senso la pellicola restituisce con precisione il sapore dell’epoca e le sue ammalianti atmosfere “arty” possono essere accostate a quelle del Diabolik di Mario Bava, opera di culto per gli amanti del cinema di genere italiano. La vicenda fantastica, ereditata dal romanzo ispiratore, viene utilizzata da Petri, attraverso gli strumenti espressivi tipici della nostra commedia nobile, per tracciare una beffarda critica ai mass media, che, con la loro invadenza gratuita, portano in scena lo “spettacolo” del dolore per alimentare il voyeurismo di massa. Anche il sistema capitalistico occidentale non sfugge alla caustica denuncia dell’autore, che ne evidenzia il lato oscuro, la perversione omologatrice, che tende a considerare tutto, persino l’uomo, come un prodotto di consumo, da sottoporre alle feroci regole del ciclo produttivo, finalizzato al profitto, ed alla rapida sostituzione del “bene”, facilmente sacrificabile in nome di queste, se non più necessario. Quello che però non convince è l’estrema esiguità della vicenda, banalizzata da un maldestro epilogo sentimentale che non rende giustizia né al libro di Sheckley, né alle affascinanti atmosfere dell’opera, né alla carriera dell’autore, solitamente ben più cinico e mordace. Vale come modello storico e di costume di un periodo di enorme vitalità del nostro cinema, che ha spinto i più disparati registi a sperimentare linguaggi e forme espressive nuove, con una contagiosa spudoratezza che, spesso, ha portato a risultati eccellenti, oggi irripetibili. Nel cast svettano i due protagonisti: un inedito Marcello Mastroianni, con i capelli ossigenati, ed una prorompente Ursula Andress, che conferma le sue doti di bomba sexy che l’hanno resa celebre.

Voto:
voto: 3,5/5

Io la conoscevo bene (Io la conoscevo bene, 1965) di Antonio Pietrangeli

La bella Adriana lascia la provincia toscana d’origine e sbarca a Roma, inseguendo il miraggio di sfondare nel mondo del cinema. In un ambiente ostile ed ipocrita passerà tra diversi lavori di fortuna, subdoli corteggiatori, promesse mancate, relazioni sentimentali deludenti, in cui la sua solare ingenuità viene mortificata da un mondo cinico. Questo ritratto feroce dell’Italia del boom economico, audace nella struttura e nella messa in scena, è il capolavoro dell’autore, che, nella sua carriera, purtroppo tragicamente interrotta, ha sempre guardato con particolare attenzione e sensibilità all’universo femminile. Straordinaria Stefania Sandrelli, in una delle migliori interpretazioni della sua carriera, nel dar vita a questa donna vulnerabile, sognante, imbronciata a maliziosa, carica di aspettative, figlia dolente di una provincia bigotta, che passa con rassegnata leggerezza da un incontro all’altro, celando un cupo abisso di disperazione interiore. Una figura paradigmatica nella folta galleria di protagoniste dell’autore, perfettamente inquadrata in un contesto storico ricostruito con puntiglioso rigore: quello italiano degli anni ’60, in cui l’entusiasmo post bellico per l’evidente accelerazione economica aveva diffuso il concetto di benessere, dando vita a nuovi modelli sociali e culturali, ad una maggiore spregiudicatezza dei costumi, rimpiazzando di colpo le antiche radici patriarcali, retaggio della società contadina. Fu il regista a volere assolutamente la Sandrelli, qui al suo primo vero ruolo da protagonista assoluta, preferendola alle varie ipotesi avanzate dalla produzione che volevano Natalie Wood o Brigitte Bardot. Anticipando le atmosfere della rivolta femminista, il regista traccia un bilancio, in perdita, della condizione femminile del suo tempo, non rinunciando ad un lucido atto d’accusa verso il suo mondo, quello del cinema, che, sotto la patina dorata, nasconde un meccanismo spietato che promette in fretta e dimentica in minor tempo. L’affresco fornito da Pietrangeli è impietoso quanto veritiero: quello di una “italietta” meschina e moralista, che si atteggia a nuova potenza industriale ma mantiene immutati i suoi modi subdoli di viscido provincialismo. I personaggi che gravitano intorno ad Adriana, un triste circo di profittatori cinici, gretti e ruffiani, sono la logica espressione di questo conformismo dilagante, che mina le basi della cultura e dell’etica popolare grazie alla sterile omologazione imposta dalla mentalità consumistica. Tra questi spiccano, in apparizioni brevi quanto pregnanti, Ugo Tognazzi (premiato con il Nastro d’Argento), Enrico Maria Salerno e Nino Manfredi. La struttura del film è divisa in episodi quasi disconnessi, ognuno dei quali corrisponde ad una diversa fase, un nuovo lavoro, un nuovo incontro o una nuova pettinatura, dell’esperienza romana di Adriana. La musica della colonna sonora, continua e spesso assordante, costituita dalle hits dell’epoca, assume la funzione di un surrogato emotivo, necessario a riempire i vuoti interiori della protagonista o a distoglierla da pericolose riflessioni sulla sua squallida esistenza. Questa splendida pellicola del dimenticato Pietrangeli è uno dei ritratti più lucidi, amari e pungenti sull’illusione della felicità nella società del benessere economico.

Voto:
voto: 4,5/5

mercoledì 25 febbraio 2015

La famiglia (La famiglia, 1987) di Ettore Scola

Storia di una famiglia borghese romana nell’arco di 80 anni, dai primi del ‘900 alla fine degli anni ’80. Il protagonista narratore è Carlo, un anziano professore di lettere ormai in pensione, che rievoca, in flashback, attraverso nove segmenti narrativi principali, la sua vita e quella della sua famiglia. Tra le mura della casa nel cuore del quartiere Prati assistiamo ad amori, delusioni, litigi, speranze, ambizioni, segreti, che si susseguono nel corso di una vita mentre, al di fuori, scorrono i grandi eventi epocali: il fascismo, le guerre mondiali, l’Andrea Doria. Dramma corale e malinconico in forma, pudica, di saga familiare “in un interno”, perché il regista, tornando a fare il cinema che sa fare egregiamente e che lo ha reso famoso, effettua una precisa scelta stilistica: mostrare gli eventi sempre al riparo delle mura della grande casa romana, lasciando costantemente fuori la Storia, i cui accadimenti arrivano sempre, indirettamente, attraverso i racconti, i dialoghi, i comunicati a mezzo radiofonico o televisivo. Il tempo che passa, inesorabile, viene scandito, attraverso le nove parti del racconto (una per ciascun decennio), sul volto dei protagonisti che, a mano a mano, si trasforma impietosamente. Il loro naturale declino, guidato dal patriarca Carlo nella sua parabola esistenziale da bambino a nonno, è vissuto con garbo, con grazia, concedendosi solo struggenti punte di nostalgia. Con rigorosa lucidità ed asciutto lirismo, Scola esplora gli spazi scenici con lunghe carrellate, in avanti o all’indietro, che segnano sempre il passaggio da una stagione di vita all’altra, e scegliendo, emblematicamente, di aprire e chiudere il film con una fotografia, la sola traccia materiale delle memorie passate. Il senso intimo dell’opera, splendida ma non originale, perché il regista ha già trattato, e meglio, questi argomenti, è quello di mostrare il cambiamento dei costumi, della società, dell’economia, delle idee e finanche del cuore, attraverso un pregnante microcosmo simbolico, ovvero l’istituzione per eccellenza su cui si fonda la nostra storia: la famiglia. La granitica sceneggiatura, scritta dal regista con Maccari e Scarpelli, viene messa in scena con delicatezza, e trova il suo completo tripudio espressivo nelle grandi interpretazioni del cast straordinario, in cui spicca Vittorio Gassman, mattatore assoluto, e poi, a seguire, Stefania Sandrelli, Fanny Ardant, Massimo Dapporto, Philippe Noiret, Jo Champa, Sergio Castellitto. E’ l’ultimo grande film del regista avellinese, che, anche se non vale quanto i suoi due capolavori (C’eravamo tanto amati e Una giornata particolare), resta comunque una pellicola importante, tra le migliori in assoluto del cinema italiano degli anni ’80. Il film fu candidato all’Oscar come miglior film straniero, ma gli venne preferito, per il premio finale, Il pranzo di Babette di Axel.

Voto:
voto: 4/5

Barton Fink - È successo a Hollywood (Barton Fink, 1991) di Ethan Coen, Joel Coen

Negli anni ’40 Barton Fink, giovane saccente commediografo ebreo, sbarca a Hollywood per scrivere una sceneggiatura commissionata da un produttore. Alloggiato in un fatiscente albergo che trasuda degrado, fa amicizia con il bonario Charlie, agente assicurativo e vicino di camera. Colto da crisi d’ispirazione ed incapace di procedere nel lavoro, Barton chiede aiuto al vecchio sceneggiatore William Preston Mayhew, ma questi, ormai alcolizzato cronico, gli manda la sua segretaria Audrey, che da tempo scrive al suo posto. Dopo una focosa notte d’amore con lei, Barton avrà una brutta sorpresa al suo risveglio. Straordinario dramma evocativo dei Coen, stilisticamente raffinato, dalle suggestive atmosfere rarefatte e dall’evidente impostazione antirealistica, in cui le verosimiglianze storico ambientali lasciano il posto ad un ipnotico surrealismo onirico, ermetico ed ambiguo, che intende suggerire una valutazione grottesca, più che raccontare una storia classica. Il personaggio di Barton, presuntuoso, occhialuto e spiritato, è un evidente proiezione fantastica dei geniali registi del Minnesota, un alter ego simbolico necessario ad attuare una corrosiva critica al sistema hollywoodiano, che compra geni per creare le storie che daranno linfa alla “fabbrica dei sogni”, per poi distruggerli nel vizio. In questa immersione del protagonista in un universo sospeso, emblematico, denso di suggestioni mefistofeliche, ci vengono presentati numerosi temi: il rapporto tra arte e vita, l’impossibilità del realismo in un processo creativo, la caducità del successo, la solitudine dolorosa dell’artista, il transfert emotivo tra persona e personaggio, la banalità sinuosa del male nella forma che non ti aspetti, l’estasi creativa che diventa illusione suprema e, quindi, fuga dalla realtà. Con la consueta mirabile capacità di rileggere i generi, contaminandoli e piegandoli alle proprie esigenze, gli autori ci regalano il loro film più astratto e ostico, denso delle immancabili citazioni colte (quella a Mezzogiorno di fuoco è strepitosa) e con numerose sequenze magistrali, come quella della zanzara, il rito del bere nella camera d’albergo o il dialogo con Charlie sulla necessità di provarci. Questo importante film d’autore ha un record: è l’unico ad aver vinto ben tre premi al Festival di Cannes: la Palma d’Oro, il Premio alla Regia e quello alla miglior interpretazione maschile per lo straordinario John Turturro. Tra gli altri elementi del cast ricordiamo un eccellente John Goodman e Steve Buscemi, in un piccolo ma incisivo ruolo.

Voto:
voto: 4/5

Clerks - Commessi (Clerks, 1994) di Kevin Smith

Dante e Randal sono due amici che lavorano come commessi in negozi adiacenti: un minimarket ed un centro di noleggio di videocassette. Durante le pause l’uno va a trovare l’altro, per spezzare la noia della routine lavorativa. Il film ci racconta una loro giornata, con un via vai di personaggi strampalati e fuori di testa che passano per i due negozi, dando vita a situazioni al limite dell’assurdo. Commedia grottesca dell’esordiente Kevin Smith, brillante e divertente, che, tra attori sconosciuti, un bianco e nero granuloso, una struttura esile, dialoghi irriverenti e personaggi bizzarri, garantisce un intrattenimento vivace e spudorato. Film indipendente ed a basso costo, nella struttura e, soprattutto, nell’anima, è fedele all’estetica “grunge” tipica del regista, con richiami evidenti al cinema di Jarmusch ed a quei movimenti culturali giovanili di ribellione, che oppongono un uso disinibito del politicamente scorretto da opporre alla facciata edificante del mainstream hollywoodiano. Denso di umori urticanti, programmaticamente cinico, a tratti sgradevole, stralunato per definizione, ma non privo di idee e di momenti di caustico brio, ha fatto proseliti tra le nuove generazioni, elevando il suo regista a figura di culto delle nuove tendenze trasgressive, volte a scardinare il conformismo dello “showbiz”. Come tutte le opere estreme preferisce distruggere piuttosto che costruire, ma è lucido nella sua deriva surreale e si concede persino il lusso di un finale coerente. Osannato al Sundance Film Festival, ha avuto anche un seguito, Clerks II, più ad alto budget, a colori ma meno feroce, nel 2006. Il regista compare anche come attore, interpretando, per la prima volta, il personaggio di Silent Bob, che sarà presente anche in altre sue opere successive: pacifico e taciturno, sempre in coppia con l’alter ego Jay, logorroico e sboccato.

Voto:
voto: 3,5/5

Léon (Léon, 1994) di Luc Besson

Léon è un italiano emigrato a New York, uomo schivo, solitario, semianalfabeta, metodico e di pochissime parole. L’unica persona di cui si fida e con cui ha contatti è un vecchio boss della mafia italoamericana, che gestisce un ristorante a Little Italy e che gli procura “lavori” su commissione. Infatti Léon è un killer abilissimo e spietato, una sorta di leggenda vivente negli ambienti della mala, che non ha mai fallito un incarico affidatogli e non ha mai deluso il suo mentore. Ma la sua vita cambia quando la famiglia di sbandati che abita sul suo stesso pianerottolo viene sterminata da Stansfield, uno sbirro corrotto, psicopatico e violento, per questioni di droga. L’unica superstite della strage, l’adolescente Mathilda, trova rifugio, e salvezza, nell’appartamento di Léon che, dopo l’iniziale ritrosia, accetterà di prenderla con sé, insegnandole la sua “arte” di assassino professionista. Tra l’uomo e la ragazzina si instaurerà un rapporto strano, tenero e paradossale, fino a quando il diabolico Stansfield non ricomparirà nelle loro vite. Thriller adrenalinico, esagitato ed eccessivo, denso di violenza esasperata, azione frenetica, esagerazioni “all’americana”, ma anche di momenti cult che gli hanno fruttato una lunga schiera di estimatori. Fedele al cinema del suo autore, nero, inverosimile e spettacolare, ha il suo punto di forza nei tre personaggi principali (Léon, Mathilda e Stansfield), tutti straordinari e, a loro modo, indimenticabili. Vorticoso ed ammaliante, impetuoso e irriverente, garantisce un gradevole intrattenimento action da serata “popcorn”, ma sa anche toccare il cuore del pubblico nei momenti di tenerezza, garantiti dal surreale rapporto tra il killer burbero ed introverso e la ragazzina sveglia e già disincantata, che, platonicamente, se ne innamora e lo idealizza, eleggendolo ad eroe personale, il padre che non ha mai avuto. Besson, manierista un po’ snob che fa dell’iperbole narrativa e della patina formale le sue cifre stilistiche predominanti, ci regala, nel suo primo film americano, un allucinato fumetto drammatico che vira nella favola nera, riscuotendo un buon successo di pubblico. Nel cast svettano i protagonisti: Jean Reno, Gary Oldman e l’esordiente “lolita” Natalie Portman, già conturbante nell’aspetto e nei modi.

Voto:
voto: 3,5/5

martedì 24 febbraio 2015

Una pura formalità (Una pura formalità, 1994) di Giuseppe Tornatore

Una notte buia e tempestosa, un bosco tenebroso, un colpo di pistola, un uomo che fugge sotto la pioggia battente. La sua corsa si conclude in una fatiscente stazione di polizia, dove uno zelante e serafico commissario lo interroga fino allo sfinimento, accusandolo di omicidio. L’uomo nega ogni addebito e dice di essere un famoso scrittore, ma non riesce a ricordare che cosa ha fatto nelle ultime ore. La lunga notte svelerà tutti i misteri. Ambizioso dramma kafkiano sotto forma di mistery allucinato, di struttura teatrale per l’uso massiccio di dialoghi, l’unità di tempo e di luogo, denso di atmosfere inquietanti sospese tra realtà e sogno, è un unicum nella filmografia di Tornatore, una sorta di esperimento metafisico che denota un lungo e non banale lavoro preparatorio di scrittura. E’ un film indubbiamente affascinante, a suo modo intrigante per l’alone di mistero che lo accompagna fin dalle prime immagini, un’opera notturna, pirandelliana, con tratti da incubo e personaggi carismatici, evidentemente simbolici, egregiamente interpretati da un cast di stelle: Gérard Depardieu nel ruolo dello scrittore accusato, Roman Polanski in quelli del commissario e Sergio Rubini, come giovane gendarme dai modi gentili. E’ una di quelle pellicole da vedere “al buio”, ovvero sapendo il meno possibile della trama, lasciandosi trasportare dalla sua malia ipnotica per poi ragionare, a visione ultimata, sulle possibili conclusioni. Più che narrare un’autentica storia, l’opera intende suggerire un’idea, indurre una riflessione sul senso stesso del vivere umano, attraverso le sue immagini ambigue, spettrali, distorte sotto la lente di un delirio onirico. Il titolo allegorico gioca abilmente a due livelli, con il lungo interrogatorio, solo in apparenza rassicurante, che costituisce il cuore della vicenda e con la struttura stessa del film, ad evidente sospetto di esercizio stilistico costruito sulla negazione delle immagini, innescando quindi la classica dicotomia tra finzione e realtà. Paradossale nelle conclusioni, artificioso nelle svolte, quanto sagace nell’intreccio, è una pellicola senza mezze misure, da prendere o da lasciare. Sono invece innegabili il suo coraggio, la sua struttura sperimentale, l’ermetismo oscuro delle scene madri e la grande interpretazione degli attori, perfetti nei rispettivi ruoli, dove il minuto Polanski e l’imponente Depardieu sono gli aghi della bilancia del destino, in una sfida allegorica che ha evidenti ambizioni trascendenti. La canzone “Ricordare”, che si può ascoltare sui titoli di coda, è composta da Ennio Morricone e cantata, in italiano, dallo stesso Depardieu.

Voto:
voto: 4/5

Reality (Reality, 2012) di Matteo Garrone

Luciano è un pescivendolo napoletano che trascorre le sue giornate tra lavoro saltuario, piccole truffe, una famiglia pittoresca ed ingombrante e la sua naturale carica di simpatia e loquacità, che lo spinge ad improvvisate “esibizioni” davanti ai clienti della pescheria. Spinto da familiari e conoscenti, partecipa ai provini per il reality televisivo “Grande Fratello” e, da quel momento, la sua vita cambia. Il nostro entra in una patologica spirale ossessiva, nell’attesa della fatidica chiamata, e non riuscirà più a distinguere la realtà dalla fantasia. Grottesca commedia di costume dagli accenti tragici, mirabile nella messa in scena ambientale, nei personaggi stralunati, patetici figli illegittimi della società dell’immagine, della tv spazzatura e della deriva morale e culturale dei nostri tempi. Sospeso abilmente tra il kitsch più greve e la geniale invenzione visiva, è un dramma surreale di appariscente antirealismo in cui si ride, amaramente, e si partecipa, nella più cupa seconda parte, all’involuzione interiore del protagonista, emblema dolente del percorso intellettuale dell’italiano medio contemporaneo. Rifacendosi alla grande tradizione dei maestri italiani, De Sica, Germi, Eduardo, ma anche Fellini nello splendido finale onirico, il regista conferma tutte le sue notevoli qualità di narratore di razza, probabilmente il migliore nel panorama odierno del nostro cinema, firmando un’opera estremamente personale, lucida, caustica, anticonformista, che affonda le sue radici in quel florido e variopinto sottobosco che è il proletariato napoletano di strada. Un’opera che parte come una graffiante satira caricaturale, per poi sfociare in un apologo potente, di agghiacciante simbologia astratta, sulla perdita di identità provocata dalla società dello spettacolo televisivo, che, con le sue logiche “usa e getta” ed il suo miraggio di facili scorciatoie per il successo, ha annichilito la coscienza collettiva. Lo sguardo del regista è, come sempre, benevolo verso i suoi protagonisti, ritratti come degli imbelli tanto maldestri quanto teneri, ed il punto di forza dell’opera risiede nel fertile contrasto tra sogno e realtà, nelle paradossali evasioni fantastiche, di suggestione pirandelliana, di Luciano, egregiamente interpretato dal non professionista Aniello Arena, condannato per gravi crimini di camorra e prestato al cinema per l’occasione. Tutta la seconda parte dell’opera diventa un viaggio, con tratti da incubo, nella personalità disturbata di Luciano, ovvero il moderno fruitore di prodotti televisivi di largo consumo, la cui tragica mutazione è solamente l’apice di una teledipendenza che, per molti, è il pane quotidiano e che conduce ad un cortocircuito esistenziale, lo smarrimento dei confini tra oggettivo e soggettivo, nella ricerca disperata di poter salire, anche solo per pochi minuti, sul grande carrozzone viaggiante dello spettacolo, fiera di vanità e di illusioni, emblema di una generazione smarrita e priva di prospettive, che ricerca la fama in vacui modelli di massa. Chi ha accusato l’opera di essere arrivata in ritardo, ovvero quando le luci sul fenomeno dei Reality show si erano già spente da tempo, non ne ha colto il tagliente senso generalista della denuncia: Reality non è un film sul “Grande Fratello”, ma sull’inerzia culturale della società moderna, che si nutre, avidamente, di futili sogni preconfezionati da altri, per colmare un vuoto ideologico profondo, figlio di fallimenti lontani, di ideologie barattate con il benessere materiale, di disillusioni antiche, di cui siamo tutti, indistintamente, complici o colpevoli. Il film è stato premiato al Festival di Cannes con il Gran Premio Speciale della Giuria, presieduta da Nanni Moretti.

Voto:
voto: 4/5