sabato 31 gennaio 2015

La jetée (La jetée, 1962) di Chris Marker

Una visione potente, affascinante, inquietante ed indimenticabile, racchiusa in soli 28 minuti, ovvero la durata di questo cortometraggio, senza dubbio il migliore che sia mai stato girato, definito dal suo autore un “cineromanzo” per la particolare struttura narrativa: un insieme di fotogrammi statici, montati in sequenza e con una voce fuori campo che racconta la storia. Nel film compare anche una solo sequenza filmata, per concedere il massimo risalto espressivo al climax emotivo dell’opera. Cercando nuove forme espressive e inediti linguaggi cinematografici, sull’onda culturale della fiorente Nouvelle Vague francese, il regista ha realizzato un’opera ipnotica, di assoluto spessore tecnico, di altra astrazione simbolica e di profonda fascinazione tematica; un breve film di fantascienza distopica sospeso tra la psico-favola e la poesia onirica, l’apocalisse e l’idillio surreale. E’ una delle vette indiscusse della cinematografia weird, che ha profondamente influenzato pellicole ben più commerciali e famose, come L’esercito delle 12 scimmie di Terry Gilliam, che ne costituisce una sorta di remake in stile americano. Ambientato in un futuro imprecisato, in una Parigi post catastrofe nucleare, dove i sopravvissuti vivono come ratti, costretti in rifugi sotterranei a causa delle radiazioni che hanno contaminato l’ambiente esterno, è una vicenda che mescola, con forti suggestioni, il dolore personale con il destino della razza umana. Il protagonista è un uomo, senza nome, dotato di un forte potere d’immaginazione, che viene sottoposto a dolorosi esperimenti da scienziati che vogliono riportarlo indietro nel tempo, all’origine dell’olocausto atomico che ha distrutto il pianeta, cercando di modificare gli eventi e, quindi, il futuro. L’uomo ha delle ricorrenti visioni del passato, in cui vede se stesso bambino con i suoi genitori, nell’area d’imbarco dell’aeroporto parigino di Orly (“jetée” in francese significa “molo d’imbarco”). Lì assiste ad un incidente, uno sconosciuto che viene ucciso attirando l’attenzione della folla, mentre lui continua, imperterrito, a fissare una donna misteriosa, che cattura totalmente la sua attenzione infantile. I viaggi nel tempo lo ricondurranno in quel luogo fatale, dovrà avrà modo, da adulto, di conoscere la donna e trascorrere del tempo con lei, generando un forte contrasto tra il passato di pace, la dimensione della donna, ed il suo futuro post apocalisse nucleare, che ne ha segnato inesorabilmente la coscienza. Il grottesco rapporto tra il viaggiatore e gli scienziati, scandito da uno slogan in tedesco che scorre di continuo come se fosse un mantra, rappresenta una graffiante critica storica dell’autore al governo di Vichy, che guidò la parte libera della Francia durante l’occupazione nazista. Con un perfetto meccanismo geometrico, che chiude il cerchio dell’opera in un allegorico loop che imprigiona i personaggi, senza concedergli via di fuga, Marker disvela, anticipando l’autoconsistenza novikoviana, il paradosso ideologico insito nell’ipotesi del viaggio nel tempo, ovvero l’immutabilità del passato. Lo stile “fotografico”, che racconta la storia attraverso diapositive, ha il rigore raggelante di un documentario della memoria, che ferma gli istanti, cristallizzandoli per un attimo prima del frame successivo, cercando di rappresentare un modello teorico per il complesso rapporto tra immagini e ricordi, sulla cui inconscia iterazione si fonda l’umana coscienza di sé. E’ dunque corretto affermare che, ad un certo livello, questo film memorabile è una metafora della coscienza umana, eternamente persa nel labirinto sogno-realtà. Nel film è presente un dichiarato omaggio al capolavoro hitchcockiano Vertigo, di cui viene replicata fedelmente la scena in cui James Stewart mostra a Kim Novak la sezione del tronco d’albero per leggerne l’età e trovare, quindi, una simbologia del tempo. Il recente, e un po’ sopravvalutato, Lo zio Boonmee che si ricorda delle sue vite precedenti di Apichatpong Weerasethakul, vincitore della Palma d’Oro al Festival di Cannes nel 2010, fa una lunga citazione/omaggio a La jetée in una celebre scena. Purtroppo quest’opera è quasi sconosciuta ai non cinefili, ma il suo recupero è d’obbligo.

Voto:
voto: 5/5

venerdì 30 gennaio 2015

Questa è la mia vita (Vivre sa vie, 1962) di Jean-Luc Godard

Nanà lavora come commessa in un negozio di dischi a Parigi, ma guadagna troppo poco e non riesce a pagare l’affitto. Inizia a fare, occasionalmente, la prostituta, ma viene ben presto assorbita da quel tipo di vita e finisce sul marciapiede a tempo pieno. Dopo un po’ di tempo vorrebbe uscirne e tornare ad un’esistenza normale, ma il suo protettore non è d’accordo, anzi intende “venderla” ad un nuovo sfruttatore. Ispirandosi all’inchiesta giornalistica “Où en est… la prostitution?” di Marcel Sacotte, Godard ha realizzato un rigoroso documento di denuncia, di incredibile realismo e di fervido impegno sociale, sul mondo della prostituzione, sfrondandolo di ogni sorta di fascinazione “romantica” e di ogni morbosità pruriginosa, ma esibendolo, semplicemente, nudo e crudo, filtrato attraverso il suo sguardo originale. Il film è diviso in 12 segmenti tra loro slegati e annunciati da una didascalia, alla maniera del cinema muto, ispirandosi, in parte, alla struttura di Francesco, giullare di Dio (1950) di Rossellini. Questo film è uno degli indubbi capolavori del primo periodo dell’autore, assolutamente pregevole per la capacità di conciliare il senso di rottura del suo linguaggio d’avanguardia con l’analisi critica della società contemporanea, rifratta attraverso il suo inquieto scandaglio dell’immediato, per catturare il divenire della vita in un quanto “definitivo”. L’opera, altamente sperimentale nella struttura e nello stile, con suono in presa diretta, brani letterari letti dagli attori, un registro narrativo diverso in ciascun segmento ed un uso massivo dei piani sequenza, è densa di citazioni colte, da Edgar Allan Poe a Bertolt Brecht, da Dreyer a Rossellini. La prostituzione viene presentata come una metafora del teorema euristico del consumismo: domanda, offerta, vendita, consumo, in un gioco di scatole cinesi. La messa in scena straniante e prosciugata dell’autore parigino rendono quest’opera una sorta di asettico trattato, di valenza sociopolitica, sul commercio sessuale, privo di ogni forma di sensualità e di compiacimento voyeuristico: la prostituzione è, innanzi tutto, intellettuale, il resto sono solamente dettagli morbosi. Come sempre nel primo Godard, egli non entra mai dentro le storie che racconta, ma le utilizza per definire se stesso, ed il suo pensiero, in uno stile personale e fortemente riconoscibile. Memorabile, in tal senso, l’episodio in cui Nanà va al cinema per vedere La passione di Giovanna d’Arco di Dreyer, grande Maestro del cinema nordico divenuto un simbolo della purezza dell’immagine, dell’essenzialità narrativa e della rinuncia alla decorazione strumentale. La sovrapposizione dei volti di Nanà e di Giovanna, messa in atto da Godard, mentre la protagonista si rispecchia nel dramma della “pulzella d'Orléans” per evidenti affinità emotive, è un po’ la summa della sua estetica: arte e vita in un gioco di specchi, realtà e finzione nel medesimo piano visivo. I 12 segmenti che costituiscono il film vennero definiti “quadri” dallo stesso regista, ovvero 12 pezzi della vita di Nanà, 12 istantanee diverse per definire un personaggio, un percorso individuale, oppure, se li si intende come 12 riflessi di uno specchio in frantumi, per arrivare a concludere che Nanà non può essere definita, che la sua reale identità è sfuggente, è altrove. Le tante inquadrature fatte di spalle, o in posizioni strane, alla protagonista, farebbero propendere per quest’ultima interpretazione, come se l’ultima trasgressione dell’autore alle convenzionali regole della grammatica cinematografica sia quella di negarne l’esistenza, ammettendo che non esistono regole. Come chiosa sopraffina di questo discorso complesso sulla mercificazione del corpo, visto alla stregua di un oggetto dotato di un valore, e, quindi, vendibile, Godard regala alla “sua” attrice un atto d’amore, con la lettura, nell’ultimo “quadro”, de “Il ritratto ovale” di Poe, eseguita dalla sua stessa voce. Eccellente l’interpretazione di Anna Karina, all’epoca moglie del regista, nel ruolo della protagonista Nanà, non priva di reali tormenti interiori e difficoltà extra cinematografiche, che hanno, probabilmente, giovato alla riuscita finale del personaggio. Il film vinse il premio speciale della giuria al Festival del Cinema di Venezia.

Voto:
voto: 5/5

Il disprezzo (Le mépris, 1963) di Jean-Luc Godard

Lo scrittore Paul Javal, che vive a Roma con la bella moglie Camille, viene chiamato dal produttore americano Prokosch per scrivere un adattamento de “L’Odissea”, da cui trarre un film diretto da Fritz Lang. Durante i primi contatti con produttore e regista, tra Cinecittà e l’isola di Capri, la coppia appare in crisi profonda e Paul sembra non battere ciglio di fronte alla corte assidua di Prokosch nei confronti di Camille. Nel giro di due giorni avverrà la rottura sentimentale e la donna lascerà l’isola campana insieme al produttore, in direzione Roma. Dal romanzo omonimo di Alberto Moravia, Godard ha tratto uno dei film più famosi, più costosi e di maggior successo della sua carriera. Fu prodotto da Carlo Ponti, che avrebbe voluto la coppia “storica” Marcello Mastroianni e Sophia Loren nel ruolo dei due protagonisti, ma il regista optò per una soluzione diversa, e, dopo il rifiuto di Frank Sinatra e Kim Novak, la parte andò a Michel Piccoli e Brigitte Bardot, che qui, al massimo del suo splendore fisico, ci regala anche la più celebre interpretazione della sua carriera. Il disprezzo è un film solare, luminoso, mediterraneo come le sue ambientazioni, perfettamente esaltato dalla saturazione cromatica della fotografia in technicolor. Sotto la patina di critica al disvalore della media borghesia europea, l’opera nasconde un sontuoso omaggio al Cinema ed al suo ruolo, rinnovato dalla Nouvelle Vague, di “occhio”privilegiato, attraverso cui filtrare la vita, che, in questo caso, assume le fattezze di una tragedia. Geniale la sovrapposizione tra il film e l’Odissea, con Lang che diventa Omero ed il tema del viaggio, fondamentale, che si fa metafora del percorso dell’uomo occidentale, smarrito, alla ricerca di una sua identità nel nuovo modello sociale. Il risultato è un film stupefacente, perfetto nella sua equilibrata commistione tra modernità e classicismo, romanticismo e realismo. Interessante la rilettura eseguita da Godard sulla crisi della coppia moderna, alla luce del rinnovamento dei costumi, dello sdoganamento dei tabù sessuali e dell’emancipazione femminile: accantonate le ingenue illusioni di “amore eterno”, fondate sul vincolo del matrimonio religioso, i segni del disagio sentimentale sono diventati più sotterranei, più intimi, più subdoli, come evidenziato dalla lunga sequenza della “scenata” posta, emblematicamente, nella parte centrale della pellicola e conclusa con la celebre frase tagliente che dà titolo al film. Il disprezzo è anche un’opera carnale e, in tal senso, omaggia, esaltandolo ed assecondandolo, il corpo statuario della Bardot in tutta la sua prorompente carica erotica. Il personaggio di Camille è, praticamente, l’incarnazione dell’icona “BB”, esposta al top del suo fascino divistico, nell’immaginario del pubblico. Ponti chiese inizialmente al regista di girare tre scene di nudo della famosa attrice, ma Godard mantenne solo la prima, famosissima, che appare nel prologo e che è divenuta una sorta di spot della sexy diva francese. Il rapporto professionale tra il regista e l’attrice fu comunque freddo, scostante e numerosi sono stati gli aneddoti in merito, fuoriusciti dai “dietro le quinte” del set. Esistono due diverse versioni del film: quella originale di 105 minuti, straordinaria, e quella italiana, pessima, inopinatamente tagliata dal produttore di circa 20 minuti, censurando e modificando molte sequenze (tra cui anche il famoso nudo iniziale della Bardot), al punto da disperdere il senso reale dell’opera. Il regista ha sempre disconosciuto la versione italiana voluta da Ponti. Nel dvd, uscito nel 2004, sono presenti entrambe le varianti. Da segnalare, nel cast, la partecipazione del Maestro Fritz Lang nel ruolo di se stesso e di Jack Palance, che pure ebbe un rapporto burrascoso con Godard, nel ruolo di Prokosch.

La frase: “Quando sento parlare di cultura, metto mano al libretto degli assegni.

Voto:
voto: 4,5/5

La leggenda del santo bevitore (La leggenda del santo bevitore, 1988) di Ermanno Olmi

Andreas Kartak, minatore alcolizzato cacciato dal suo paese, la Slesia, per un omicidio involontario, vive come senza tetto sotto i ponti della Senna, a Parigi. Un giorno un signore distinto gli offre 200 franchi che Andreas dovrà restituire, in offerta, alla statua di Santa Teresa di Lisieux nella chiesa di Batignolles, per saldare un vecchio debito dell’uomo misterioso. Da quel giorno la sua vita cambia ma una serie di incontri “miracolosi” sembra impedirgli di portare a termine l’impegno preso con il benefattore. Dall’omonimo racconto autobiografico di Joseph Roth, Olmi ha tratto un film vibrante, accorato, appassionato, sull’esperienza drammatica di un uomo perduto che, toccato dalla Grazia, riesce a ritrovare un motivo per vivere, raggiungendo, infine, la catarsi. Costruita sull’ottima interpretazione di un intenso Rutger Hauer, è un’opera sussurrata, emozionante, che esalta uno dei temi ricorrenti del regista bergamasco, la solitudine umana di fronte alla natura, permeandola di un potente misticismo che vira nell’epica esistenziale, quella del riscatto salvifico di un reietto della società, passando dalla disperazione all’estasi spirituale. Le ambientazioni parigine “sospese”, ovvero ambigue nella collocazione temporale, sono di grande fascino ed ammantano la storia di struggente malinconia, ben incorniciata dalla sontuosa impaginazione estetica. Una certa ridondanza narrativa e qualche eccesso di compiacimento nella beatificazione del personaggio principale, rendono il film imperfetto, sebbene il riscatto sia garantito dall’altezza poetica delle scene più ispirate. Fu premiato, non senza polemiche, con il Leone d’Oro al Festival del Cinema di Venezia del 1988.


Voto:
voto: 4/5

L'albero degli zoccoli (L'albero degli zoccoli, 1978) di Ermanno Olmi

Fine del 1800, in un cascinale della “bassa” bergamasca, quattro famiglie contadine vivono la loro quotidianità, tra il duro lavoro dei campi, l’allevamento degli animali, le gioie e i dolori di un’esistenza semplice. Il forte legame tra i diversi nuclei familiari li porta a condividere ogni cosa, nel bene e nel male. Quando il piccolo Menek rompe uno zoccolo, suo padre Batistì taglia di nascosto un tronco d’albero per costruirne uno nuovo. Ma il padrone lo scopre e caccia via Batistì e la sua famiglia. Capolavoro di Olmi, che traspone in immagini le vecchie storie contadine ascoltate dai suoi nonni, regalandoci una suggestiva epopea degli umili, realistica, sincera, perfetta nella ricostruzione ambientale e recitata da veri contadini del luogo, senza alcuna esperienza artistica. Con una potente capacità di evocazione lirica, che guarda alle piccole cose per elevarle in una dimensione “mitica” nella loro purezza ancestrale, il regista ricostruisce con puntiglioso rigore la vita contadina dell’epoca, alternando scene di ordinaria quotidianità a momenti di altissima poesia. La rappresentazione dell’antico mondo rurale è appassionata, rigorosa, quasi priva di elementi di critica sociale, perché intende restituirci, in solenne forma di poema cinematografico, tutta la fierezza e la genuinità di quel mondo remoto. Olmi ha la sensibilità di un poeta e l’approccio di un documentarista nel realizzare quest’opera imponente, tra le più importanti in assoluto del cinema italiano, che riattualizza i codici del movimento neorealista, con un occhio all’estetica di autori come Angelopoulos. Da questo autentico confronto con le nostre radici, raffigurato come un universo incontaminato, privo di coscienza di lotta di classe, impregnato sia di credenze pagane sia di cattolicesimo popolare, emergono dei protagonisti pregni di umanità, ora gretti ora solidali, il cui credo è il legame assoluto con la terra e con la famiglia. Senza ricorrere ad alcuna enfasi drammatica o indulgenza nel “romanzo”, il regista lombardo ci offre un cinema limpido, a suo modo integralista per la reticenza di approfondire risvolti politici o relazioni sessuali, ma con tanta anima. Tra i tanti momenti di volo alto dell’opera, sono memorabili il viaggio in barca a Milano dei due sposini e la semina sotto la prima nevicata, antico rituale tramandato da tempi remoti. Nonostante i meriti ed il largo consenso della pellicola ci fu chi, negli ambienti di sinistra, accusò il regista di utopia reazionaria per lo scarso nerbo polemico nei confronti dei “padroni”. L’affascinante colonna sonora, profondamente evocativa nel suo tono sacrale, è costituita da brani di Bach, eseguiti all’organo, e da canti popolari contadini bergamaschi. Esistono due versioni della pellicola: una in dialetto bergamasco con sottotitoli (da preferire) ed una doppiata in lingua italiana. Il film, che ebbe grande successo di pubblico e critica, fu premiato con la Palma d’Oro al Festival di Cannes.

Voto:
voto: 5/5

giovedì 29 gennaio 2015

Ombre (Shadows, 1959) di John Cassavetes

Tre fratelli di colore, Hugh, Ben e Leila, si scontrano con un contesto sociale mediocre e con la frustrazione derivata dalla difficoltà di realizzare le proprie velleità in campo artistico. Leila ha una relazione con un bianco da cui ricava soltanto umiliazioni, Ben deve fare i conti con i pregiudizi razziali del suo giro di conoscenze, Hugh, che è un bravo cantante, sarà l’unico a sapersi ritagliare uno scopo gratificante nella società. Il regista di culto John Cassavetes è il padre del cinema indipendente americano e questo suo folgorante esordio è l’affascinante manifesto artistico del così detto “cinema verità”, a metà strada tra film e documentario. Ambientato a New York negli anni della “Beat generation”, affronta il tema scottante dell’integrazione razziale, con una modalità ed una lucidità che lasciarono spiazzati pubblico e critica, rivelando subito il talento del giovane regista newyorkese come eccellenza della cinematografia d’avanguardia. Il film fu girato due volte da Cassavetes, nel ’57 e nel ’59, ed egli preferì la seconda versione, scegliendola per la distribuzione in sala. La prima, da tutti ritenuta perduta, è stata ritrovata, casualmente, nel 2004, da uno studioso del regista che non l’ha mai resa interamente pubblica. La forza sovversiva di questo film è nello stile, che sceglie un realismo formale senza mezzi termini: girato con camera a mano, con dialoghi e sequenze spesso improvvisate, senza una vera e propria trama o una sceneggiatura nel senso classico del temine, con una colonna sonora jazz firmata da Charles Mingus ed un’atmosfera che fotografa perfettamente lo spirito dei tempi, restituendocene tutta la potenza in forma di documento storico. Appartiene allo stesso movimento culturale, fortemente innovatore, che, in Francia, darà origine alla Nouvelle Vague e molti lo hanno, giustamente, paragonato ad una suite jazzistica, per la capacità di creare arte, verità e vibrazioni con la forza dell’improvvisazione. La messa in scena depotenziata, priva di vigore drammatico, in nome dell’esigenza di assoluta spontaneità, e la sua struttura irregolare, ne fanno un prodotto ostico, indigesto al pubblico mainstream, ma di enorme spessore culturale come simbolo di un’epoca di rinnovamento ideologico e sociale. L’immersione garbata nei flussi di vita dei tre protagonisti consente di arrivare al tema portante del film, la questione razziale, attraverso percorsi differenti ma convergenti, in cui l’impianto non “a tesi” è garantito dalla coralità dei punti di vista. Emblematica la scelta dei tre protagonisti, tutti di colore ma con tonalità differenti di nero, ad esempio Leila è particolarmente “chiara”, a testimoniare l’assurdità di una classificazione basata sul solo colore della pelle, che è di arduo discernimento già solo a livello macroscopico. L’autore gioca abilmente su questo aspetto di indeterminazione proprio in relazione al personaggio di Leila, che molti scambiano per bianca ma che viene vista come “nera” quando sta insieme ai fratelli. Altrettanto emblematico il contrasto, perfettamente evidenziato dal regista, tra una società mentalmente aperta ed affamata di nuovi modelli culturali, come quella della “Beat generation”, e la sua rigida chiusura di fronte alle differenze etniche, retaggio di un atavico pregiudizio che nasce dall’ignoranza. Il modello concettuale alla base dell’opera, e di tutto il cinema di Cassavetes, è che la vita non sia rappresentabile con uno schema statico, ma solo tramite un libero fluire di immagini in divenire, un continuo “work in progress” di cui non è mai chiaro il percorso. A questa esigenza rispondono tutti i suoi canoni stilistici che, in quest’opera prima, trovano un riscontro di incredibile risalto espressivo. Le ombre evocate dal titolo sono quelle di una generazione che ambisce a crescere, ma non riesce ancora a trovare una sua chiara identità. Più che un film bello è un film storico, fondamentale, discriminante.

Voto:
voto: 5/5

Una moglie (A Woman Under the Influence, 1974) di John Cassavetes

Nick Longhetti, italoamericano, lavora come capocantiere ed è sposato con Mabel, casalinga, con cui ha tre figli. I suoi stressanti ritmi lavorativi lo tengono spesso lontano da casa ma, anche quando è presente, appare nervoso e intrattabile. Mabel, psicologicamente fragile, finisce in clinica per esaurimento nervoso. Ne esce dopo sei mesi ma, una volta fuori, le dinamiche scatenanti si ripetono e lei non trova più la forza e il coraggio per affrontare la vita quotidiana. Intenso dramma familiare che mostra, con il realismo scarno tipico dell’autore, le lacerazioni di una coppia dall’interno. Consumati dalla routine, Nick e Mabel si scontrano fino alla sfinimento in un quotidiano gioco al massacro: stressato lui, depressa lei. Bravissimi gli attori protagonisti, Peter Falk e Gena Rowlands, moglie del regista e candidata all’Oscar per questo ruolo di struggente carica drammatica. Gli estenuanti dialoghi della coppia, spesso improvvisati, sono di ammirevole forza realistica. Cassavetes porta in scena la vita vera, con un’ottica femminista nella sua accezione più nobile e rigorosa, senza mai indulgere in scene madri o derive patetiche, ma con una puntigliosa sensibilità del tocco. E’, in assoluto, uno dei migliori esempi cinematografici sul tema delle nevrosi matrimoniali, al punto che alcuni hanno scomodato paragoni eccellenti con il cinema di Bergman. E’ anche una storia d’amore ardente e disperata, che viaggia in bilico sull’orlo della follia, ma non per questo meno appassionante, specialmente nella capacità, tipica del regista, di garantire un rigoroso livello di profondità interiore, uno scandaglio affilato della psicologia dei personaggi, un trionfo di realistica umanità. Tutte le emozioni principali sono costruite sul magnifico volto espressivo della Rowlands, dal suo sguardo riusciamo a leggere amore, odio, disperazione, sconforto, speranza. Anche stavolta troviamo la conferma di un’altra caratteristica del cinema di Cassavetes: la magistrale capacità nella direzione degli attori, concedendo anche il giusto spazio d’improvvisazione, e garantendo sempre l’assoluta adesione al personaggio. Quest’opera costituisce l’ideale punto di arrivo, anche in termini di amarezza, della tetralogia dell’autore sull’alienazione della middle class americana, dopo Volti (1968), Mariti (1970) e Minnie e Moskowitz (1972). E’ anche uno dei suoi lavori più maturi ed equilibrati, in cui la capacità di celare l’arte tra le pieghe delle inquadrature diventa solenne elegia antropocentrica, sincera, lucida, delicata, il cui fine è sempre quello di rappresentare la vita, la grande avventura dello spirito umano. Da non perdere e da vedere in lingua originale.

Voto:
voto: 4,5/5

Una notte d'estate - Gloria (Gloria, 1980) di John Cassavetes

Il mafioso Jack Dawn ha tradito la sua organizzazione criminale e sa di avere le ore contate per la terribile vendetta del suo clan. Riuscirà a salvare dal massacro punitivo solo il suo figlio minore, Phil, di sette anni, affidandolo alla vicina di casa, Gloria. La donna, ex amante di un gangster della medesima banda, impara a sparare per difendere strenuamente il bambino in sua custodia, a cui si è affezionato dopo il difficile impatto iniziale. Dovrà fuggire e lottare con i denti per cercare di salvare la sua vita e quella di Phil dai gangster. Con quest’opera atipica Cassavetes si allontana dalla rigorosa purezza stilistica e dalla sperimentazione formale delle sue pellicole migliori, quelle che lo hanno reso un idolo della critica europea, affascinata da un autore americano finalmente non convenzionale e lontano dalle logiche spettacolari di Hollywood. Gloria, opus numero 10 dell’autore, costituisce una singolare incursione nel cinema di genere, un thriller urbano che vira nel gangster movie, pervaso da suggestioni femministe con l’inossidabile Gena Rowlands magnetica protagonista. Il risultato è un ibrido, invero non esaltante, tra la pulizia tecnica del regista ed un tipo di cinema più “easy”, più ammiccante, più americano. Poco credibile nell’idea di fondo, una donna in fuga con un bambino che riesce a sopravvivere in un inferno urbano con schiere di killer professionisti che le danno la caccia, e molto forzato nel finale politicamente corretto, ha i suoi punti di forza nel personaggio di Gloria, un’antieroina che incarna alla perfezione l’ideale di dark lady forte e tormentata, ma capace di sciogliersi nei dialoghi con il piccolo Phil, che costituiscono i momenti più intimi del film. Meno introspettivo del solito, più dinamico e più effettistico, questo nero di Cassavetes convince a metà, sebbene alcuni lo ritengano un cult, per la feroce determinazione della protagonista, ed un antesignano delle moderne pellicole costruite su figure di donne “toste”. E’ molto probabile che questa pellicola di “evasione” sia figlia delle numerose “frequentazioni” di Cassavetes nel cinema noir, in qualità di attore. Non a caso tutti hanno sempre evidenziato come l’autore newyorkese avesse la faccia giusta per interpretare quel tipo di cinema. Fu premiato, non senza polemiche, con il Leone d’Oro al Festival di Venezia, a pari merito con Atlantic City, USA di Louis Malle. Ha avuto un barcollante remake omonimo nel 1999, diretto da Sidney Lumet con Sharon Stone protagonista (più bella che brava).

Voto:
voto: 3,5/5

Arrivederci ragazzi (Au revoir les enfants, 1987) di Louis Malle

Nella Francia occupata dai nazisti, un collegio di frati carmelitani ospita ragazzi orfani o costretti a separarsi dalla famiglia per colpa della guerra. L’undicenne Julien, dopo la diffidenza iniziale e non poche difficoltà di inserimento, diventa amico del riservato, ma brillante, Jean Bonnet che però nasconde un segreto: è un ragazzo ebreo, nascosto sotto falso nome, per sfuggire alle persecuzioni naziste. Ma tutto cambia, in peggio, quando lo sguattero Joseph, sorpreso a rubare oggetti da vendere sul mercato nero, viene cacciato dall’istituto. In preda alla miseria, alla rabbia e alla disperazione, questi diventa una spia dei tedeschi e, per vendicarsi, denuncia la presenza di ebrei all’interno del collegio. La Gestapo porterà via il direttore della scuola e tutti i piccoli ebrei che vi erano nascosti, compreso Bonnet. Nessuno di loro riuscirà a sopravvivere ai campi di sterminio. Premiata con il Leone d’Oro al Festival del Cinema di Venezia, questa struggente opera, in parte autobiografica, perché ispirata ad esperienze infantili del regista, è, probabilmente, il più conosciuto dei film di Malle e una delle sue indubbie vette artistiche. Pudico e sensibile nel mettere in scena la vita dei ragazzi ed i loro rapporti interpersonali, straordinario nella ricostruzione ambientale e nell’estrema cura del dettaglio, ricchissimo e complesso nelle invenzioni narrative per dar forma alla magia dell’adolescenza, solo parzialmente contaminata dagli orrori del mondo dei grandi, straziante, ma senza cadute patetiche, nell’epilogo, è un ritratto toccante di un’epoca barbara che sembra appartenere ad un passato remoto, pur essendo dietro l’angolo. Il punto di forza del film è nella divisione tra il mondo “dentro” la scuola e quello “fuori”. Il primo è quello dei ragazzi che, pur avvertendo gli echi delle cose orribili che accadono all’esterno, tendono a rimuovere il male grazie alla spensierata forza adolescenziale, che, seppur problematica, ha ancora dalla sua la vigorosa spinta dell’innocenza appena trascorsa. E poi c’è il mondo “fuori” dalle mura del collegio, pervaso dalla crudele bestialità della guerra, di cui la shoah costituì la suprema aberrazione, la vergogna assoluta, i cui gangli diabolici riusciranno a penetrare nell’idillio amicale, corrompendone per sempre l’aura armoniosa, grazie ad un elemento di disturbo. Elemento che è, però, interno e non esterno, generato da quella problematicità già insita nel mondo adolescenziale e raffigurata con sincero realismo dall’autore: commistione di sentimenti contrastanti, di pulsioni vigorose, in cui bene e male, colpa e innocenza, convivono in miracoloso equilibrio. La forza evocativa e l’intensa tensione tragica di quest’opera emozionante, che sfiora la poesia nei momenti più intensi, la rendono un’esperienza difficilmente dimenticabile, a cui giova, ulteriormente, la profonda adesione emotiva del regista che ha così dato vita al suo progetto più intimamente sentito, il film che, da sempre, avrebbe voluto fare. Ebbe due candidature agli Oscar 1988: miglior film straniero e migliore sceneggiatura originale, ma non vinse alcun premio. L’autore ne ha anche scritto un romanzo omonimo, cinque anni dopo.

Voto:
voto: 4,5/5