giovedì 26 ottobre 2023

Killers of the Flower Moon (2023) di Martin Scorsese

Dal romanzo "Gli assassini della Terra Rossa: Affari, petrolio, omicidi e la nascita dell'FBI. Una storia di frontiera" ("Killers of the Flower Moon: The Osage Murders and the Birth of the FBI") scritto nel 2017 dal giornalista e saggista David Grann ed ispirato ad una tragica vicenda storica realmente accaduta. Nell'Oklahoma del 1920 il popolo pellerossa degli Osage vive confinato all'interno della riserva che gli è stata concessa dal governo dopo la fine delle guerre indiane. La scoperta di un enorme giacimento di petrolio collocato proprio nelle loro terre li rende improvvisamente ricchi oltre ogni aspettativa, ma attira anche le brame di truffatori, avventurieri, criminali ed affaristi bianchi senza scrupoli. Intanto il giovane Ernest Burkhart, giovanotto non particolarmente sveglio, reduce della Prima Guerra Mondiale e con un debole per le donne, su consiglio del suo potente zio, il latifondista William K. Hale che coesiste e collabora da anni con gli Osage, seduce e sposa la bella Molly, una ragazza indiana erede di un vasto patrimonio derivante dal petrolio. Ma quando una serie di morti misteriose iniziano a falcidiare la tribù degli Osage e la cittadina viene pervasa da un clima di paura e brutalità, il governo centrale invia sul posto per indagare un gagliardo poliziotto, Tom White, appartenente al primo nucleo investigativo federale da cui poi nascerà la famosa agenzia FBI. Lo zelante White e il suo gruppo di agenti non ci metteranno molto a scoperchiare un torbido gioco di soprusi, connivenze, corruzione, inganni, tradimenti e piani criminali a danno dei pellerossa, con lo scopo di impossessarsi delle loro ricchezze. Il 26° lungometraggio di Martin Scorsese (che ne ha anche scritto la sceneggiatura insieme ad Eric Roth) è un cupo e potente dramma storico (ispirato ad eventi reali), lungo e minuzioso, che mescola sapientemente generi e modelli diversi (il western, il crime, il melodramma, la tragedia familiare, l'affresco d'epoca, l'opera di denuncia, il film di impegno civile) per tracciare un acido apologo critico che svuota di ogni eroismo la leggendaria "conquista del West" da parte dei pionieri bianchi, rievocando uno dei maggiori peccati originali della breve storia americana (lo sterminio, le oppressioni e le discriminazioni nei confronti dei nativi) fino a dar forma concreta ad una nuova simbolica "nascita di nazione", filtrata attraverso la sensibilità di grande cineasta libero, critico e disincantato, tipica dell'autore. La prima volta era accaduto con il kolossal Gangs of New York  (2002), in cui il regista italo-americano ci immergeva nel fango e nel sangue dei degradati "Five Points" della New York ottocentesca per dirci che, in fondo, "l'America è nata nelle strade" ovvero che molto della cultura e dell'ideologia dominante degli USA affonda le sue radici nella violenza, nel razzismo, nell'ingiustizia e nella sopraffazione fisica dei più deboli. Sotto questo aspetto Killers of the Flower Moon si mantiene sulla medesima rotta iconoclasta, analizzando impietosamente le origini ancestrali del capitalismo americano, parimenti edificate sull'avidità, sull'arroganza, sulla rapacità, sulla presunzione che un popolo sia superiore ad altri, sulla barbarie e, ovviamente, sull'omicidio. Scorsese adotta volutamente uno stile intimistico, psicologico e anti-epico (soltanto nella sfavillante parte iniziale abbiamo delle brevi grandiose sequenze in campo lungo), favorendo i dialoghi, le atmosfere e la ristrettezza di ambienti per restituirci il clima dell'epoca, la sua profonda ingiustizia sociale, la totale mancanza di moralità da parte del potere e la sua assoluta certezza di impunità. Mai come in questo caso ci troviamo di fronte ad un film politico (probabilmente il più politico della filmografia scorsesiana), lucido nell'esposizione dei fatti e fieramente indignato nelle conclusioni. Va anche detto che molti degli stilemi tipici di Scorsese sono presenti in abbondanza anche in questo suo ultimo lavoro: la raffigurazione cruda e secca della violenza, la banalità del male raccontata da una prospettiva interna, la fede religiosa accompagnata dalla crudeltà delle azioni, la struttura narrativa declinata secondo l'andamento ascesa-caduta. E il finale, indubbiamente originale nella forma più che nella sostanza, ci regala un suggestivo momento di trasfigurazione creativa della realtà attraverso il cinema, con l'autore che si concede anche un piccolo ma significativo cameo. Nel cast stellare, che annovera nomi come Leonardo DiCaprio, Robert De Niro, Lily Gladstone, Jesse Plemons, John Lithgow e Brendan Fraser, svettano i tre protagonisti principali: DiCaprio (giunto alla sesta collaborazione con Scorsese) è indubbiamente ispirato e credibile nel dar vita ad un personaggio complesso, viscido, ambiguo, carico di fragilità, di lati oscuri e di contraddizioni. Peccato che, per tutta la parte finale, l'attore decida di assumere costantemente una monolitica espressione che sembra quasi scimmiottare il Marlon Brando dell'età matura. De Niro (diretto da Scorsese per la decima volta) riesce a farci dimenticare le tante patetiche apparizioni "mercenarie" dell'ultima fase della sua carriera, mostrandoci come sia ancora in grado di essere sé stesso, se diretto da un grande Maestro del cinema. Ma la vera piacevole sorpresa è la sconosciuta Lily Gladstone, di etnia pellerossa, che si rivela interprete di grande talento, intensità e sensibilità; il suo personaggio è l'anima, il cuore e il baricentro emotivo del film, intorno a cui ruota tutto il male e la cupidigia dei colonizzatori bianchi. Killers of the Flower Moon è un'opera di magistrale realizzazione e di sontuosa confezione estetica, trasuda amore per il cinema classico e nostalgia per quel modo di fare cinema che oggi è diventato una rarità; Scorsese si diverte e si compiace nel narrare una storia per immagini alla sua maniera, con un occhio rivolto alla "sua" cara New Hollywood ed un altro al presente, prendendosi tutto il tempo necessario (forse anche troppo), quasi a voler prolungare il piacere del racconto. E sotto questo aspetto, nonostante l'anagrafe per lui dica 80 anni suonati, l'energia, l'estro creativo e lo spirito polemico sono ancora quelli di un eterno ragazzo prodigio.

Voto:
voto: 4/5

mercoledì 25 ottobre 2023

Babadook (The Babadook, 2014) di Jennifer Kent

Amelia è una giovane vedova con un figlio di 6 anni da crescere, nato proprio nel giorno in cui suo marito è morto, tragicamente, in un incidente stradale. Depressa e stressata, messa alle corde dalle difficoltà economiche e dalla natura iperattiva del piccolo Samuel, che sembra a tratti ingestibile per il suo temperamento agitato, la donna cerca in tutti i modi di resistere e trovare la forza necessaria a gestire la complessa situazione familiare. La lettura insieme a suo figlio di un cupo libro di favole trovato per caso, non fa che peggiorare le cose: nel racconto si parla di un mostro soprannaturale chiamato Babadook, una specie di "uomo nero" che si annida nel buio e che tormenta le sue vittime (fisicamente e psicologicamente) quando queste prendono atto della sua esistenza e, inconsapevolmente, gli consentono di "entrare" nelle loro vite. Samuel è convinto che quanto scritto nel libro stia capitando a loro e che il mostruoso Babadook sia la causa primaria dei loro guai. Chiaramente turbata Amelia respinge con forza l'idea, aggrappandosi alla razionalità, ma ben presto inizia a temere che suo figlio possa aver ragione. Questo tetro e inquietante horror gotico psicologico, interamente costruito sulle atmosfere, sulle attese, sulle paure infantili, sugli elementi archetipali del terrore e sul male come forza ambigua, che può provenire dall'esterno ma anche da dentro di noi, segna il felice esordio alla regia dell'australiana Jennifer Kent, che ha anche scritto il film prendendo ispirazione da un suo precedente corto, Monster (2005), ampliandone l'idea, la tematica e la storia fino a farne un lungometraggio. Fin dall'inizio si capisce che questa sinistra pellicola dell'orrore sia "agli antipodi", non solo perchè prodotta e realizzata in Australia ma, soprattutto, per il suo essere diversa, più profonda, più peculiare e più simbolica rispetto ai canoni classici del genere a cui appartiene. Il Babadook è, infatti, la proiezione delle nostre paure, dei nostri fallimenti, dei nostri sensi di colpa e del nostro lato oscuro, la rappresentazione spaventosa di un'energia malefica che è parte ancestrale della natura umana e che spesso cova, nascosta, nei recessi bui del nostro animo. La regista, avvalendosi anche di un'evocativa fotografia grigia, di ambientazioni opprimenti e dell'ottima recitazione della protagonista Essie Davis, dissemina il film di continue allegorie, gli conferisce un ritmo teso e una messa in scena asciutta, evita accuratamente i cliché effettistici tipici del genere, sceglie saggiamente di mostrare il meno possibile del mostro e conduce in porto brillantemente il suo intento di mettere in piedi una potente parabola etica sotto le vesti di un horror. Il finale, inatteso e originale, è la chiosa perfetta di questo discorso, portando a conclusioni, sia morali che psicologiche, di sottile valenza e di denso simbolismo. Il film, realizzato a basso costo e partito in sordina nel suo paese, ha cominciato ad acquisire una certa fama internazionale presso gli appassionati dopo la presentazione al Sundance Film Festival, dove è stato unanimemente elogiato dalla critica specializzata. In Italia ha avuto una distribuzione limitata a poche sale, facendo solo una fugace apparizione nell'estate del 2015 e venendo presto relegato in un immeritato oblio. Ma è, invece, da recuperare assolutamente per gli amanti degli horror intelligenti, metaforici e fuori dagli schemi.

Voto:
voto: 4/5

lunedì 23 ottobre 2023

Mon Crime - La colpevole sono io (Mon crime, 2023) di François Ozon

Nella Parigi degli anni '30 la giovane aspirante attrice Madeleine Verdier, perennemente in bolletta, finisce al centro di un caso giudiziario di grande impatto mediatico, quando viene accusata dell'omicidio di un potente produttore cinematografico, rinomato sottaniere, trovato ucciso con un colpo di pistola nella sua residenza. Madeleine, che è stata una delle ultime persone a vederlo, racconta di essere stata aggredita sessualmente dall'uomo durante un'audizione, ma si dichiara innocente, dicendo di essersi difesa ed aver lasciato la casa sconvolta senza però avergli torto un capello. I diversi indizi presenti contro di lei porteranno rapidamente al processo, in cui la ragazza sceglierà come difensore la sua amica e coinquilina Pauline, avvocatessa inesperta e squattrinata che cerca in tutti i modi di costruirsi una carriera. Durante il dibattimento le due donne hanno un'idea follemente azzardata: accusarsi dell'omicidio come legittima difesa da un tentativo di stupro e sfruttare la risonanza mediatica del caso per tramutare il procedimento legale in una pubblica arringa in difesa delle donne, discriminate, maltrattate e messe sempre in secondo piano dal maschilismo paternalistico imperante nella società francese. Il piano sembra riuscire alla perfezione, ma i colpi di scena sono appena all'inizio. Brillante e sofisticata commedia travestita da giallo, scritta e diretta da François Ozon, e interpretata con briosa verve da una squadra di attori sopraffini, tra cui spiccano i tre personaggi femminili principali che hanno il volto e il corpo di Nadia Tereszkiewicz, Rebecca Marder e la grande Isabelle Huppert, in un ruolo che le calza a pennello e in cui la diva francese si diverte a tirar fuori tutto il suo elegante istrionismo. E' un film scanzonato, esilarante, insolente e delizioso, un'autentica commedia degli inganni alla francese, teatrale nel senso più positivo del termine, carico di omaggi alla screwball comedy della Hollywood del periodo aureo e totalmente schierato dalla parte delle donne e della loro emancipazione rispetto agli atavici modelli retrogradi imposti da una società maschilista, in cui il potere è sempre stato nelle mani degli uomini. Il cinema dell'autore è, fin dagli inizi, tipicamente declinato al femminile ed ha sempre scandagliato, spesso con audace profondità e sottigliezza di sfumature, la psicologia delle donne, cercando di metterle in risalto  e di donar loro la giusta visibilità a tutto tondo, piuttosto che capirle o assecondarle. E questo inno femminista d'epoca, divertito e divertente, carico di glamour e di ambiguità tematiche, riesce pienamente nell'intento, facendo riflettere e intrattenendo con vivace intelligenza, ma senza mai prendersi troppo sul serio. Il film è ispirato, invero molto liberamente, alla pièce teatrale omonima, scritta da Georges Berr e Louis Verneuil nel 1934 e già adattata per il cinema due volte: con La moglie bugiarda (True Confession, 1937) di Wesley Ruggles e con Bionda fra le sbarre (Cross My Heart, 1946) di John Berry. Ma con risultati ben meno scintillanti rispetto a questa nuova versione firmata da Ozon.

Voto:
voto: 3,5/5

domenica 22 ottobre 2023

Stranizza d'amuri (2023) di Giuseppe Fiorello

Nella torrida estate del 1982, in un piccolo paese dell'entroterra rurale siciliano, l'adolescente Nino si gode la bella stagione ed il regalo ricevuto per la promozione scolastica: un motorino che gli consente, per la prima volta, piena libertà di spostamenti. Primo figlio di una famiglia umile, affettuosa e laboriosa, che vive facendo fuochi d'artificio per le feste paesane, il nostro conosce per caso Gianni, suo coetaneo che abita in un centro vicino, dove viene bistrattato e umiliato da tutti per la sua reputazione di omosessuale. Tra i due ragazzi nasce subito un'affinità istintiva, che poi diventa solida amicizia, fino a trasformarsi in un sentimento diverso, travolgente e profondo, ma anche proibito e pericoloso nella retrograda Sicilia degli anni '80. Questo solare, romantico e drammatico coming-of-age, ambientato nell'estremo meridione d'Italia, segna l'esordio alla regia dell'attore catanese Giuseppe Fiorello detto Beppe, dopo un lungo ed attento lavoro di scrittura a cui egli stesso ha preso parte coadiuvato da Andrea Cedrola e Carlo Salsa. Il motivo di questa attenzione non è solo dovuto al fatto che l'oggetto del racconto è una storia d'amore gay in un rozzo contesto omofobo che vi si oppone ferocemente, ma, soprattutto, perchè l'ispirazione della vicenda è tratta da un reale tragico evento di cronaca avvenuto a Giarre nel 1980 e mai pienamente risolto dal punto di vista giudiziario. L'evento in questione ebbe un forte impatto sull'opinione pubblica dell'epoca e rappresentò una tappa di svolta fondamentale nella progressiva costruzione di una nuova sensibilità, tollerante e scevra da pregiudizi, in merito alla libertà dei rapporti di coppia e al diritto di vivere la propria sessualità come si ritiene più opportuno. Se è vero che, purtroppo, questo processo di sensibilizzazione è tutt'altro che terminato e che il problema della discriminazione omofoba esiste ancora oggi in vari strati della popolazione, bisogna anche ricordare che, proprio sull'onda della diffusa indignazione civile per i fatti di Giarre, il movimento di liberalizzazione omosessuale prese forza, assunse una nuova coscienza di sé e fece fondare a Palermo il primo centro Arcigay italiano. Fiorello si accosta a questa dolorosa vicenda con grande tatto e rispetto, evitando ogni forma di retorica, morbosità, moralismo e facile pietismo, ma scegliendo uno stile asciutto e misurato, senza abbellire e senza omettere, carico di tenerezza nei confronti dei due giovani protagonisti e sempre attento ad evitare la tentazioni di sermoni patetici o di populismo pedante. In segno di riverenza vengono cambiati i nomi dei personaggi, così come i luoghi (invero mai chiaramente esplicitati nel film), ma lo spirito, il senso, le atmosfere, i sentimenti e le ambientazioni dei fatti sono fedelmente rispettati. Forse l'unica vera concessione alla fiction romanzata è stata quella di spostare la vicenda di due anni in avanti, nell'estate magica e indimenticabile del 1982, mettendo come sfondo in contraltare la favolosa cavalcata della nazionale italiana di calcio che vinse i mondiali di Spagna contro ogni pronostico, facendo impazzire di gioia l'intera penisola. Una relazione amorosa divisiva collocata beffardamente in un momento di puro entusiasmo collettivo, che riuscì ad unire emotivamente tutti (da nord a sud), come per incanto e senza distinzioni di sorta. Con un registro tanto realistico quando delicato, l'autore realizza un'opera lodevole di grande impegno sociale e di netta indignazione morale, lasciando pudicamente fuori fuoco gli eccessi di violenza esplicita, pur senza mai rinunciare alla netta denuncia nei confronti di un arretrato contesto patriarcale atavico, rude, intollerante, ostile, discriminatorio e brutale. Ma la pellicola è anche un soave inno alla libertà, alla vita rurale, alla forza dei sentimenti spontanei, alla bellezza incosciente degli animi puri ed alla magia sognante dell'età giovanile, in cui ogni cosa sembra possibile e ogni desiderio appare realizzabile, prima di scontrarsi mestamente con la durezza della vita e con l'ottusità degli adulti che hanno scelto di rinunciare ai propri sogni. Il verismo dei luoghi e la pregnanza della ricostruzione d'epoca, in una Sicilia bellissima e selvaggia, che ammalia e che spaventa, senza però mai cadere nella decorazione da cartolina, fanno il resto. E non va dimenticata la bravura degli attori, quasi tutti autoctoni e poco conosciuti, in cui il personaggio più ricco di sfumature ambigue in chiaro scuro è la tormentata madre di Gianni, egregiamente interpretata da Simona Malato e che spicca su tutti insieme ai due ragazzi protagonisti (Samuele Segreto e Gabriele Pizzurro). Il film è espressamente dedicato a Giorgio Agatino Giammona ed Antonio Galatola (i veri Gianni e Nino del 1980) ed al grande e compianto cantautore Franco Battiato, mentore ed ispiratore di Giuseppe Fiorello per sua stessa ammissione. I più attenti conoscitori di musica d'autore italiana non potranno fare a meno di notare che il titolo stesso della pellicola è quello di una celebre canzone scritta da Battiato nel 1979.

Voto:
voto: 3,5/5

Asteroid City (2023) di Wes Anderson

Nel 1955, nel cuore del deserto del Nevada, diversi personaggi si incontrano ad Asteroid City, un piccolo avamposto turistico che prende il nome dalla caduta di un asteroide avvenuta molti anni prima, i cui segni sono ancora chiaramente visibili grazie al cratere che ne fu originato. La remota località è sede di una convention scientifica per giovani geniali inventori in erba, già lanciati verso una promettente carriera di futuri scienziati e che sono in lizza tra loro per aggiudicarsi il primo premio. Qui convergono uno sgualcito reporter di guerra che ha perso da poco la moglie e accompagna le sue figlie, il loro nonno, ricco bacchettone affetto da malinconia, una diva del cinema bella e tormentata che smania di essere vista per ciò che è veramente, una stravagante astronoma dai modi rigidi, un generale dell'esercito tutto d'un pezzo e molta altra svariata umanità. Un impensabile evento dal sapore fantascientifico provoca l'improvviso giro di vite da parte del governo, che blinda il sito, mette i militari al comando e pone tutti in quarantena forzata. Ma tutto questo è soltanto la storia scritta da un inquieto romanziere, che sta prendendo forma attraverso la sua rappresentazione teatrale, per mano di un regista sui generis carico di passione. E c'è persino un elegante narratore fuori campo che ci racconta dettagliatamente il tutto, arricchendo la sua narrazione di bonaria ironia. L'ultimo lavoro di Wes Anderson, da lui scritto e diretto, è una elegante commedia dolce amara che oscilla, con grazia lieve, tra il grottesco, il romantico e la satira. Come sempre il talentuoso regista texano marchia a fuoco il film con il suo stile inconfondibile (amato oppure odiato a seconda dei casi, ma sempre indubbiamente coerente con la sua forte idea di cinema hipster e fiabesco), dando vita ad una nuova favola raffinata, colorata, miniaturizzata, decorativa, ricolma di sottotrame e di personaggi e carica di suggestioni simboliche, di metafore stranianti, di situazioni paradossali, in cui va in scena (stavolta addirittura con tre livelli di racconto ed un utilizzo gioioso della meta-narrazione) l'assurda tragicommedia della vita umana. Ma anche, in questo caso, della storia americana, di cui vengono citati, con vivace sarcasmo, alcuni elementi chiave che risulteranno riconoscibili anche allo spettatore più distratto: la corsa allo spazio durante la guerra fredda, la zelante ottusità dei militari, la logica coercitiva della ragion di stato, l'ossessione nazionale per un predominio vincente in ogni ambito, il fenomeno dilagante degli avvistamenti di "dischi volanti" o il lato oscuro del successo dei divi hollywoodiani (è più che evidente che il personaggio dell'attrice Midge Campbell, interpretata da Scarlett Johansson, sia modellato su quello di Marilyn Monroe). Il cinema di Wes Anderson è sempre stato orgogliosamente teatrale, o meglio una sublimazione colta e un po' snob di un'idea di teatro come allegoria della vita e delle sue contraddizioni, in un miscuglio romantico nostalgico che confonde di continuo il piano della finzione con quello della realtà, per offrirci un microcosmo surreale dai colori pastello e dagli scenari artefatti, che diventa la sineddoche di un mondo costituito da persone fragili e confuse, un mondo riverniciato in tonalità vivide e atmosfere oniriche grazie all'ausilio del magico potere dell'arte. E se è vero che questo nuovo lungometraggio non aggiunge niente di particolarmente nuovo alla carriera dell'autore, è altresì innegabile che Anderson possa essere considerato, a pieno diritto, uno dei narratori più peculiari e originali del cinema moderno, grazie ad un'estetica ormai riconoscibile persino dai profani che è (a prescindere dai sacrosanti gusti personali) tutto meno che banale, e men che mai innocua o anonima. Scherzando allegramente con il pubblico, con i suoi attori, con i suoi personaggi che entrano ed escono invadendo spesso un piano scenico non di loro competenza, e persino con i suoi adorati stilemi (che sono le "armi" predilette dei suoi detrattori), il regista-demiurgo si diverte a mischiare le carte, confondere i livelli del racconto, ironizzare sulle paranoie di una nazione e flirtare con la cultura popolare d'epoca attraverso gustose citazioni (irresistibile l'apparizione nel deserto dello struzzo "Beep Beep" delle celebri serie animate Looney Tunes e Merrie Melodies). E, come sempre nelle pellicole di Anderson, il cast è opulento e sontuoso, con la presenza di molti dei suoi attori "feticcio" (anche in minime apparizioni): da Jason Schwartzman a Tilda Swinton, da Edward Norton a Scarlett Johansson, da Steve Carell a Jeffrey Wright, ma senza dimenticare nomi come Bryan Cranston, Tom Hanks, Liev Schreiber, Matt Dillon, Rupert Friend, Maya Hawke, Hope Davis, Sophia Lillis, Margot Robbie, Adrien Brody, Willem Dafoe, Rita Wilson e Jeff Goldblum. Meno teorico del precedente The French Dispatch of the Liberty, Kansas Evening Sun (2021), Asteroid City è puro Wes Anderson in modalità sottilmente nostalgica rievocativa, per far riemergere alla sua maniera ciò che che rimane, nella memoria di chi li ha vissuti, osservati sullo schermo o semplicemente sentiti raccontare, degli "happy days" dei lontani anni '50.

Voto:
voto: 3,5/5

sabato 21 ottobre 2023

DogMan (Dogman, 2023) di Luc Besson

Il giovane Douglas è cresciuto nel degrado di una famiglia povera e scalcinata delle fatiscenti periferie del New Jersey, con un padre rozzo e violento, una madre fragile e succube ed un fratello maggiore ancora peggiore del padre. Maltrattato e umiliato sia fisicamente che psicologicamente a causa del suo carattere libero e ribelle, Douglas è costretto a diventare subito adulto, sviluppando un doloroso senso di alienazione, un odio feroce verso i propri simili ed un amore profondo per i cani, con cui intrattiene da sempre un rapporto viscerale e privilegiato, una sorta di dono che gli consente di addestrarli e riceverne devozione incondizionata oltre ogni aspettativa. Costretto su una sedia a rotelle per colpa delle violenze subite in famiglia e spezzato nell'animo in maniera irrimediabile, il nostro vive da solo insieme ai suoi cani, lavora come drag queen in un locale notturno e medita la sua vendetta nei confronti della società crudele che lo ha sempre escluso e maltrattato per il suo essere "diverso". Il diciottesimo lungometraggio per il cinema di Luc Besson (che lo ha ideato, scritto e diretto) è un tetro e disperato dramma esistenziale che stinge nel thriller d'azione violenta, per raccontarci, ancora una volta (come nello stile tipico del regista francese) una tragica storia di solitudine, di emarginazione, di dolore e di sanguinaria vendetta. Tutti i protagonisti delle opere di Besson sono, essenzialmente, degli antieroi tormentati e solitari, personaggi sui generis che vivono ai margini della società, incompresi e bistrattati, con un sofferto passato di soprusi alle spalle, che ottengono la loro rivalsa attraverso la brutalità feroce per ripagare tardivamente con l'occhio per occhio i presunti (e generici) colpevoli. Ma questi vendicatori implacabili hanno sempre un qualcosa di speciale, un lato tenero in ombra, una sorta di romanticismo sofferto e maledetto che li rende empatici, un impellente bisogno di essere riconosciuti, capiti e (a loro modo) amati, lasciando sempre una traccia in chiaro scuro nel cuore del pubblico, che riesce facilmente a capirli, nonostante l'ambigua efferatezza delle loro azioni. E' uno stratagemma antico e sempre funzionante, quello di rendere "simpatico" ed emotivamente vicino un "cattivo", fino a farne una sorta di specchio nero della cattiva coscienza che risiede in ognuno di noi. E Luc Besson, autore spesso superficiale e dalla mano pesante, possiede ormai tutta la tecnica, la competenza e la saggezza per infondere a queste storie sordide di umana degradazione e di aspra rivincita un grande senso dello spettacolo cinematografico (che guarda direttamente alle pellicole americane) ed un effettistico moralismo sociologico che, pur di grana grossa, coglie spesso nel segno. Questo suo nuovo lavoro non fa eccezione, si muove esattamente nei binari confortevoli all'estetica del regista e non aggiunge molto di nuovo alla sua filmografia dei giustizieri afflitti e implacabili. E se stavolta il protagonista non è una femme fatale sexy e letale, ma un disabile androgino che si traveste da diva, canta divinamente e vive in simbiosi con i cani, poco importa; perchè la solfa narrativa è esattamente la medesima. Ma ciò che rende il film degno di visione sono due pregi indiscutibili: la straordinaria interpretazione mimetica di Caleb Landry Jones e l'irresistibile carica di bravura e tenerezza dei tanti coprotagonisti a quattro zampe, che a tratti ricordano (con nostalgica dolcezza) i vecchi film per famiglie della Walt Disney. E' un vero peccato che ben poco venga approfondito nel modo giusto e che quasi tutto sembri gettato lì per produrre forti e facili emozioni, con particolare riferimento al finale catartico e cristologico di dubbia collocazione concettuale e di stravagante misticismo. Besson presume molto, osa di più, ma non sa dare una equilibrata forma compiuta alla materia del racconto, come già visto altre volte in passato. La bella frase con cui si apre il film, perfetta per l'occasione, è del poeta francese Alphonse de Lamartine.

La frase: "Ovunque ci sia un infelice, Dio invia un cane"

Voto:
voto: 3/5

Talk to Me (2022) di Danny Philippou , Michael Philippou

L'adolescente Mia vive un'esperienza familiare difficile a causa dell'improvvisa morte della madre, da cui non riesce a riprendersi, e del complicato rapporto con il padre, che la ama molto ma non è a suo agio nell'esprimere liberamente le proprie emozioni. Spinta dalla curiosità e dal dolore che prova internamente, la ragazza si lascia coinvolgere in un macabro "gioco" che sta prendendo piede tra i suoi coetanei fino a diventare "virale": una specie di seduta spiritica individuale in cui il soggetto protagonista, dopo aver stretto un moncone di mano mummificata e pronunciato la fatidica formula "talk to me", entra in contatto con spiriti di persone estinte e se ne lascia possedere per un breve tempo limitato. Mia, inizialmente scettica, accetta di sottoporsi all'esperimento, sperando di riuscire a parlare con sua madre, e rimane sconcertata dall'esperienza provata. Ma durante i continui tentativi di collegarsi a turno con l'altra dimensione dei trapassati, qualcosa va storto e la porta con l'Aldilà rimane aperta. Questo cupo e agghiacciante horror soprannaturale sul mondo dell'occulto è il film di esordio, in veste di sceneggiatori e di registi, dei fratelli Philippou (Danny e Michael), giovani australiani che si sono fatti le ossa con dei video amatoriali pubblicati su internet prima di approdare al grande schermo. Prodotto e girato a basso costo in Australia (nella città di Adelaide), con pochi mezzi, attori acerbi e sconosciuti, ma una serie di buone idee declinate con verve irriverente, Talk to Me va dritto al sodo con pochi fronzoli, parte come un classico teen-horror ma poi diventa qualcosa di più inquietante e spaventoso, trovando la sua forza nello stile asciutto, nel ritmo teso, in un paio di sequenze di grande impatto orripilante e in un finale, a suo modo, memorabile, che chiude perfettamente il cerchio narrativo. Presentato in anteprima al Festival di Cannes senza troppe pretese o aspettative, ha ricevuto ampi consensi di pubblico e di critica, è stato acclamato come horror dell'anno da personalità influenti come Peter Jackson e Stephen King e, sull'onda degli elogi festivalieri, ha riscosso un grande successo al botteghino, specialmente negli USA e anche in rapporto all'esiguo budget produttivo. Non è tutto oro quello che luccica e va detto che il film pesca abilmente da una lunga serie di suggestioni e situazioni già viste in precedenza, ma lo fa abilmente, ha la grinta impudente dell'incoscienza giovanile, spaventa senza ricorrere a truculenze gratuite o ai soliti stereotipati jumpscare, e, pur nei limiti di un prodotto tipicamente di genere che guarda più allo stile degli anni '80 che a quello contemporaneo, ci regala anche un briciolo di critica sociale, fotografando impietosamente il cinismo delle nuove generazioni e l'ossessione invadente di condividere la vita sui social calpestando senza ritegno il buon gusto, la privacy e la sensibilità altrui. Nel cast svetta l'intensa protagonista Sophie Wilde, giovane attrice da tenere d'occhio, mentre l'interprete più famosa è senza dubbio l'australiana Miranda Otto, lanciata da Peter Jackson nella trilogia de Il Signore degli Anelli. Alla luce del grande successo ottenuto, i fratelli Philippou hanno già annunciato che stanno lavorando ad un prequel che dovrebbe svelare le origini della misteriosa mano dai terribili poteri. E, francamente, non ne avevamo dubbi.

Voto:
voto: 3,5/5