lunedì 31 ottobre 2011

La dolce vita (1960) di Federico Fellini

Per la preparazione e realizzazione di questo film Fellini impiega ben tre anni, sia per l’ampiezza di concezione dell’opera che per il grande impegno produttivo, ma il risultato è assolutamente straordinario. “La dolce vita” (1960) è non solo un capolavoro assoluto e un grandioso affresco di costume, ma, quando uscì nelle sale, rappresentò un evento epocale, sconvolse il pubblico per la novità e l’audacia, divise l’opinione pubblica per il dibattito culturale che accese, fu avversato dalle associazioni cattoliche come “immorale”, provocò interventi censori e critiche ferocissime, richiamò folle oceaniche (le sale furono letteralmente prese d’assalto e per accedervi bisognava fare lunghissime file, come testimoniato in una divertente sequenza di “Divorzio all’italiana” del 1961), fece scalpore in tutto il mondo, creò neologismi duraturi come il termine “paparazzo” dal personaggio del fotoreporter del film (mentre quello di “dolce vita” si estese ai pullover a collo alto e, in genere, alla definizione della vita mondana), e soprattutto, offrì una visione profetica (da qualcuno ritenuta allora inaccettabile, ed invece rapidamente superata dai successivi mutamenti di costume) di una società corrotta e dissoluta, persa nel godimento effimero di piaceri materiali, avendo smarriti i valori ideali. L’aspro e severo giudizio morale di Fellini non cedeva al moralismo, ed infatti il film fu attaccato dai moralisti, che confondevano l’oggetto della critica con la sua esibizione. “La dolce vita”, vincitore della Palma d’Oro al festival di Cannes, fu un enorme fenomeno di costume, inaudito e sconvolgente per una Italia da poco risollevatasi dalla miseria del dopoguerra ed appena avviata al benessere economico e all’emancipazione da un retaggio di tradizioni arcaiche. Il film, alla svolta degli anni ’60 e alle soglie del famoso “boom”, non si limitò solo a registrare una realtà, ma la anticipò e vi incise profondamente, cambiando la sensibilità del pubblico e il modo di concepire lo spettacolo cinematografico, insieme ad altri due film fondamentali che uscirono nello stesso 1960, “Rocco e i suoi fratelli” di Visconti e “L’avventura” di Antonioni. In Italia, “La dolce vita” ha costituito un vero e proprio spartiacque tra il cinema precedente e quello successivo. Sarebbe troppo lungo proseguire il discorso sull’innovatività di questo film, che ha influenzato molto cinema successivo (ad esempio, un film diversissimo come “Apocalypse Now”), e che si inserì autorevolmente in una corrente, prima letteraria e poi cinematografica, di profondo cambiamento culturale, dalla quale sarebbero nati alcuni film che tentarono nuove vie espressive, come “L’anno scorso a Marienbad” (Resnais, 1961) e “Otto e mezzo” (il successivo film di Fellini, del ’63), modificando radicalmente la struttura convenzionale del racconto cinematografico attraverso la scomposizione temporale e il libero flusso della narrazione (tentativi troppo audaci ed avanzati per avere un reale seguito, anche se ne sono stati adottati molti stilemi, e un autore come Lynch vi si ispira palesemente). Resta ancora da dire dei meriti esclusivamente cinematografici del film, formalmente splendido, nuovissimo per concezione (la narrazione procede per “episodi”, concatenati dalla presenza del protagonista, che visita i diversi gironi di un moderno “inferno”, tanto che si fece il nome di Dante come riferimento letterario, anche se quello prevalente fu però il “Satyricon” di Petronio, per la descrizione di un mondo decadente e lussurioso), e soprattutto straordinario per la capacità di trasfigurazione della realtà (Fellini infatti gira poco in ambienti reali, preferendo ricrearli in studio). 

Voto:
voto: 5+/5

Picnic ad Hanging Rock (Picnic at Hanging Rock, 1975) di Peter Weir

Il 14 febbraio del 1900, giorno di San Valentino, durante un gita scolastica nella zona selvaggia di Hanging Rock, scompaiono misteriosamente una insegnante e tre ragazze di un collegio australiano. Dopo tre giorni di infruttuose ricerche una di loro viene ritrovata, turbata, ferita e incapace di ricordare l'accaduto a causa di una strana amnesia. Le altre donne non saranno mai più ritrovate, nè sarà mai fatta luce sugli inquietanti avvenimenti di quei giorni, come se fossero state inghiottite dall'aspro territorio montuoso di Hanging Rock. Mirabile capolavoro del grande regista australiano Peter Weir, che fece scoprire al mondo la magia del cinema "agli antipodi" in tempi non sospetti, e ben prima dei vari Peter Jackson, Nicole Kidman, eccetera. E' un film assolutamente imperdibile, tratto da un romanzo di Joan Lindsay: elegantissimo, stilisticamente prezioso, raffinato nella descrizione di un microcosmo femminile dell'età Vittoriana, magico nella rappresentazione di una natura selvaggia, affascinante e inquietante al tempo stesso. Tra immagini pregiate, scenari mozzafiato e atmosfere arcane di possente suggestione evocativa Weir mette in campo tutta la grandezza del suo cinema, a metà strada tra idillio incantato e incubo tortuoso, senza rinunciare ad una critica sociale raffinata quanto pungente. I tempi dilatati, le immagini sofisticate, l'immersione totalizzante nella natura panica, la descrizione di un mondo antico ed ovattato, la percezione di un pericolo ancestrale e sfuggente ci calano appieno in questo mistery di classe sopraffina. Questo film è la riprova di come il fascino del non visto e del non spiegato superi, di gran lunga, le tranquillizzanti tentazioni didascaliche di un cinema più commerciale. Da non perdere!

Voto:
voto: 5/5

Il Terzo Uomo (The third Man, 1949) di Carol Reed

Vienna, 1946: una città ancora sconvolta dai segni della guerra e ripartita in quattro zone di competenza, ciascuna sotto il controllo di una delle potenze vincitrici. Qui giunge l’americano Holly Martins, giovane squattrinato scrittore di romanzetti di poche pretese, per incontrare il suo vecchio amico Harry Lime. Ma una tragica sorpresa lo attende: Lime è dato per morto, tragicamente ucciso in un incidente automobilistico, sebbene le circostanze appaiono subito dubbie. Poco convinto, Martins inizia ad indagare, aiutato dalla bella e algida Anna, ex amante di Lime. Egli scopre che, ad assistere al fatale incidente, oltre ai due testimoni ufficiali, c’era un misterioso terzo uomo che sembra svanito nel nulla. Lo scrittore intuisce che questo enigmatico personaggio possa essere la chiave di volta dell’intera faccenda e si mette sulle sue tracce. Tra intrighi e doppi giochi, colpi di scena e situazioni pericolose, l’amara verità emergerà lentamente, dalle ombre sinistre di una Vienna gotica e decadente, in cui nulla sembra essere così come appare. Capolavoro assoluto del noir e del cinema classico europeo, “Il terzo uomo” segna il punto più alto della carriera del regista inglese Carol Reed, autore spesso sottovalutato e passato in sordina. Tratto da uno script di Graham Greene, il film è un meraviglioso compendio di trama solida ed avvincente, regia sapiente e rigorosa, atmosfere di grande suggestione (che faranno scuola negli anni a venire) ed interpretazioni memorabili. E poi c’è il grande Orson Welles, la cui ombra minacciosa aleggia per tutta la prima parte della storia, al punto che ne sentiamo costantemente la presenza, pur senza vederlo. L’espediente narrativo di preparare lungamente l’entrata in scena di un personaggio, enfatizzandone gli aspetti, creando intorno a lui un’aura oscura e misteriosa, al fine di ingigantirne il prestigio e renderlo titanico, non fu certo inventato dalla coppia Greene- Reed. Lo usava già Vittorio Alfieri nelle sue tragedie o Joseph Conrad nel celeberrimo “Cuore di Tenebra” (1899). Carol Reed fa sua questa mirabile tecnica di accrescimento dell’attesa e la utilizza alla perfezione con il personaggio di Harry Lime (Orson Welles), regalandoci una delle entrate in scena più memorabili della storia del cinema. Welles compare dopo circa un’ora ma, quando emerge dall’ombra (in una meravigliosa sequenza), con il suo fare sornione ed arrogante, cannibalizza il film e da lì in poi non ce ne sarà più per nessuno. La sua interpretazione è straordinaria ed il villain Harry Lime resterà uno dei suoi personaggi più famosi e riusciti di sempre. Una situazione similare (per carisma dell’interprete e resa drammaturgica) si ripeterà nuovamente con il leggendario Colonnello Kurtz di Marlon Brando in “Apocalypse Now” (1979) di Francis Ford Coppola, non a caso ispirato a “Cuore di Tenebra”. Ma Welles era un artista troppo carismatico e geniale per limitarsi alla sola recitazione e la leggenda vuole che egli abbia contribuito attivamente alla sceneggiatura del film. Per lungo tempo Welles, che era uno straordinario affabulatore e che amava giocare sul confine realtà-finzione, ha fatto credere di avere addirittura co-diretto la pellicola insieme a Reed. Cosa poi da lui stesso smentita negli ultimi anni della sua intensa vita. Quello che è certo (sebbene questa sia una parola da usare con parsimonia, quando si parla di Welles) è che il grande attore-regista accettò la parte per l’elevato cachet, essendo alla ricerca di finanziamenti per il suo “Otello” (1952). E’ altresì certo che fu lui a suggerire (e a recitare) la formidabile battuta sull’Italia e sulla Svizzera, uno dei motivi per cui il film è passato alla storia. Ma tantissimi sono i pregi ed i meriti dell’opera, al di là di Welles e della sua geniale “ingombranza”. Innanzi tutte le ambientazioni barocche in una Vienna tetra e maestosa, come mai più si rivedrà sul grande schermo. Ambientazioni che non si limitano a fare da sfondo inerte ma che assurgono, spesso, ad autentiche protagoniste. Magistrale, in tal senso, la fotografia in bianco e nero di Robert Krasker (premiato con l’Oscar), dai toni volutamente ispirati all’Espressionismo tedesco, capace di regalare meravigliosi giochi di luci ed ombre nei vicoli di Vienna. Ma è altrettanto mirabile la tecnica registica nell’uso dei grandangoli per enfatizzare le ombre e distorcere le immagini, regalando inquietanti prospettive sghembe (manco a dirlo, quasi wellesiane) che suscitano un senso di vertigine, consono alle ambiguità morali della vicenda. Lo stesso Reed ebbe la brillante idea di girare, in notturna, con le strade bagnate in modo da esaltare maggiormente i riflessi di luce contrapposti alle lunghe e solenni ombre gotiche della capitale austriaca. Il risultato complessivo è di un tale splendore estetico e visivo da avere pochi eguali nella storia del cinema. Impossibile poi non citare la bella colonna sonora di Anton Karas, divenuta famosa grazie all’appassionato inciso (che rimanda a suggestioni felliniane), suonato con la cetra, che fa da tema musicale portante del film. E a parte il gigante Welles, tutte le interpretazioni sono di gran livello: convincente Joseph Cotten nei panni dello spiantato anti-eroe Holly Martins e splendida la nostra Alida Valli nel ruolo di Anna Schmidt, una immigrata Cecoslovacca, ex amante di Harry Lime, dalla personalità ambigua e dallo sguardo di ghiaccio. Ed una menzione speciale va alla sceneggiatura: solida, avvincente e ricca di colpi di scena. Uno dei grandi pregi della pellicola è la capacità di scandagliare a fondo la psicologia dei personaggi principali, tratteggiando alla perfezione un mondo di ambiguità e smarrimento etico, perfettamente in linea con l’atmosfera post-bellica e pre-guerra fredda. In questo mondo, allo splendido contrasto tra chiaro e scuro, regalatoci dalle immagini della Vienna barocca di Reed, si sovrappongono le infinite sfumature di grigio della moralità dei protagonisti: sempre al confine tra bene e male, luce ed ombra, ora vittime ora carnefici. In questo continuo gioco di riflessi e di opposti, nessuno, alla fine, appare veramente innocente e tutti sembrano agire per un doppio fine. La stessa scelta di tenere a lungo nascosto il personaggio di Lime, filmandone però abilmente l’assenza, rientra in questa suggestiva logica del vedo-non vedo. Un altro grande merito del film, che mi preme sottolineare, è che, nonostante un impianto formale molto complesso ed intrecciato, la sensazione che lascia, a fine visione, è quella di avere assistito ad una pellicola estremamente lineare e semplice (nell’accezione positiva del termine).Molte sono le scene da antologia, che meritano di essere ricordate. Le mie preferite sono: l’entrata in scena di Lime-Welles, che emerge dall’ombra come un sinistro fantasma del passato. Il dialogo Lime-Martins in merito al valore della vita umana che ha luogo sulla ruota panoramica (con delle bellissime inquadrature dall’alto), la maestosa camminata della Valli nel piano sequenza di chiusura e, ovviamente, l’emozionante inseguimento nelle putride e buie viscere di Vienna. Questo film è uno dei miei classici preferiti e merita un voto altissimo. Consigliato a tutti, imperdibile per gli amanti del noir e degli intrighi.

Voto:
voto: 5/5

Nashville (1975) di Robert Altman

A Nashville, durante i giorni del festival della musica country, si intrecciano le storie di tanti personaggi: star affermate o decadute, giovani alla disperata ricerca del successo nel difficile mondo dello spettacolo, candidati politici in cerca di consensi elettorali, galoppini del potere, avventurieri di mezza tacca. L'intreccio tra interesse politico e spettacolo musicale è rappresentato con un lucido disincanto che ha pochi eguali nella storia del cinema. Robert Altman è stato uno dei più grandi registi americani. Un pensatore libero, una voce fuori dal coro, sempre ai margini dei percorsi mainstream, innovativo nello stile e nelle tematiche, si è sempre distinto per la sua grande capacità di raccontare storie corali, ritratti al vetriolo di un'altra faccia dell'America. Il grande regista ha quasi sempre smontato la rassicurante ed ipocrita retorica buonista del Sogno Americano, attraverso gli stumenti del sarcasmo e della pungente critica sociale. Il suo cinema è tipicamente fatto da perfide commedie corali, in salsa amara, di profonda intelligenza ed acutissima riflessione. Mai banale, sempre elegante nello stile, un uomo contro che si è sempre distinto per il grande rigore formale e la sferzante acutezza dello sguardo. Sempre snobbato dall'Accademy Award, manco a dirlo, a parte il premio contentino alla carriera del 2006. Tantissimi grandi film degni di lode: "MASH" (1970), "Il lungo addio" (1973), "California Poker" (1974), "Un matrimonio" (1978), il cult "Quintet" (1979), "I protagonisti" (1992), "America Oggi" (1993), "Radio America" (2006), giusto per citarne alcuni. Ma "Nashville" è, senza alcun dubbio, il suo capolavoro, il manifesto della sua arte, nonchè uno dei film americani più belli ed importanti di sempre. E' il film altmaniano per eccellenza. Un film da vedere, rivedere, ascoltare, possedere e custodire gelosamente nella propria collezione. Opera manifesto di una generazione e della fine di un'epoca, superbo ritratto corale di un periodo storico: la fine degli ideali del '68, la contro-cultura, sulle note avvolgenti della musica country in un viaggio di 5 giorni nelle radici musicali americane. E' una meravigliosa galleria di personaggi, tutti ben approfonditi, che incarnano lo sbandamento di una nazione, ma anche la sua carica vitale, il suo cinismo e la sua voglia di andare avanti. Con il consueto stile caustico Altman celebra, al tempo stesso, epopea e fine del sogno americano, svelandone le ingenuità, le contraddizioni e mettendo a nudo la faccia sporca e meschina della politica, dietro una maschera di lustrini scintillanti. E' il sogno spezzato di una generazione disillusa che vive per e attraverso la musica, è una lucida riflessione sul mondo dello spettacolo, le sue chimere ed i suoi inganni. Ma è, soprattutto, l'anima (musicale) di un popolo portata in scena nuda e cruda, senza retorica nè indulgenze. Il film è come un grosso carrozzone che viaggia senza un centro vero e proprio e la folta galleria di storie e situazioni non identifica un vero protagonista, a parte la musica. La musica è il traino della vicenda, è quella che accomuna ed omologa, è lo strumento per andare oltre le meschinità e le tragedie dell'esistenza. Memorabile, in tal senso, la surreale tragica vicenda finale ambientata al Partenone. La struttura caotica e decentralizzata del film è una perfetta metafora per esprimere il senso di smarrimento di quegli anni, la caduta degli ideali e la ricerca affanosa di una comune identità sociale e politica. La pellicola trasmette un forte senso di realismo, al punto che sembra quasi un documentario, in certi momenti. Altman sceglie di applicare il principio di diretta rappresentazione della realtà, tipico della Nouvelle Vague francese, amplificandolo, però, su un caleidoscopio di storie e personaggi, dando vita ad un suggestivo spaccato di vite collettive. La scelta di Nashville è quasi obbligata perchè la capitale del Tennessee è, da sempre, anche, la capitale della musica country e di tutto il kitsch ad esso correlato. Ma, come sempre in Altman, non c'è solo questo dietro la facciata più evidente: Nashville è anche uno dei simboli di quella "old America" conservatrice ed ancorata ai valori tradizionali (patria, famiglia, casa, religione). Valori che, non a caso, qui vengono messi tutti in discussione, demistificati e mostrati come deboli, frammentati, privi di una coesione complessiva. Ed il cinico edonismo individuale espresso dal "it don’t worry me" finale, rappresenta il top della critica all'egoismo sociale di una generazione. Ma anche il frutto inevitabile di una classe dirigente sprezzante e meschina, non solamente americana. Da sottolineare, altresì, il coraggio "perfido" di Altman, nel riaprire vecchie ferite mai rimarginate della storia americana, come l'omicidio Kennedy, qui indirettamente rievocato. Insomma, quest'opera è il masterpiece di Altman per eccellenza, per molti aspetti complementare ad un altro suo capolavoro, "America oggi" del 1993, che però risulta ben più amaro e privo di quella frizzante energia vitale che traspare da molte sequenze di "Nashville". Invito, quindi, tutti gli appassionati di cinema a riscoprire questo capolavoro (come gran parte delle opere di Altman, del resto) perchè è un meraviglioso manifesto (anche musicale) di un'epoca storica irripetibile. Film non facile, indubbiamente, ma di enorme valore artistico. Uno dei migliori film americani dei 70's.

Voto:
voto: 5/5

Nosferatu il vampiro (Nosferatu, eine Symphonie des Grauens) (1922) di Friedrich W. Murnau

Capolavoro dell’espressionismo e del cinema horror, ne ha creato l’icona più potente ed agghiacciante: l’immondo vampiro-ratto interpretato da Max Schreck. Ispirato al Dracula di Bram Stoker, ne modifica i nomi dei personaggi perché Murnau non aveva pagato i diritti d’autore, così il conte Dracula diventa il conte Orlock. Tuttavia la quasi totale aderenza alla trama ed alle situazioni del romanzo portò alla causa legale, da parte della vedova di Stoker, che fu persa da Murnau con relativa condanna alla distruzione dell'opera. Per fortuna il regista salvò qualche copia ed il film, uscito poi anche in edizioni “ritoccate”, è sopravvissuto. Nonostante appartenga al cinema muto resta, a tutt’oggi, il più grande horror mai realizzato, insuperato per bellezza formale, fascino figurativo e potenza visionaria. Molte le scene entrate di diritto nell’immaginario collettivo e divenute autentiche icone del genere horror: dall’arrivo di Nosferatu sulla nave all’ombra del vampiro che si proietta sulla parete, dal primo sinistro incontro con Ellen alla morte di Orlock, sorpreso dall’alba. La rappresentazione del vampiro di Murnau-Schreck resta la più spaventosa ed inquietante, assai distante da quelle successive (di Bela Lugosi o di Christopher Lee) di Dracula mostro fascinoso, sensuale e seducente, che attrae e respinge al tempo stesso. L’unico che si è avvicinato al vampiro di Murnau è stato Werner Herzog, autore di un remake: Nosferatu, il principe della notte (Nosferatu: Phantom der Nacht, 1979) con Klaus Kinski nel ruolo di Dracula/Nosferatu. Il film di Herzog, che ha una propria personalità a prescindere dall’originale, è a sua volta straordinario, non sfigura rispetto all’opera di Murnau ed è, probabilmente, il miglior remake mai realizzato. Sono entrambi un must del cinema horror e costituiscono, a mio avviso, la più convincente rappresentazione del vampiro, lontana anni luce dagli epigoni e dalle contaminazioni, più banali e spettacolari, a cui siamo stati abituati.

Voto:
voto: 5/5

Il Vangelo secondo Matteo (1964) di Pier Paolo Pasolini

La vita di Gesù Cristo fedelmente raccontata in base al Vangelo dell’apostolo Matteo. Come nel testo ispiratore la storia è divisa in 4 parti principali:
  • Annunciazione, nascita e fuga in Egitto
  • Le predicazioni in Galilea
  • Arrivo nella città santa di Gerusalemme
  • Il processo, la Passione, la morte e la Resurrezione    
Ci sono registi dei quali è impossibile parlare, per cercare di capirne le opere, senza conoscerne la vicenda umana. Probabilmente Pier Paolo Pasolini (Bologna, 5/3/1922 – Roma, 2/11/1975) è quello a cui meglio si addice questa affermazione. Artista versatile, dallo sguardo sempre critico ed attento, nonché uomo di profondissima cultura, sensibilità ed impegno politico e civile, Pasolini è giustamente considerato uno dei maggiori intellettuali italiani del secolo scorso. Una figura di spicco della nostra cultura, che ha sempre guardato molto lontano con le sue opere e la sua estetica, al punto che, ancora oggi, a più di 30 anni dalla sua tragica e misteriosa morte, non tutto è stato completamente compreso e recepito del Pasolini pensiero. Personaggio scomodo e controverso, che ha sempre diviso la critica per il suo essere, al tempo stesso, ardito, radicale, libero e poetico a livelli sublimi. Tantissimi gli aggettivi che si potrebbero utilizzare per descrivere il Pasolini uomo ed artista: scrittore, poeta, filosofo, marxista, geniale, ateo, regista, attore, omosessuale, e si potrebbe continuare a lungo. Uno degli aspetti che mi ha sempre colpito della vita di Pasolini è che, spesso, il suo pensiero ed il suo “essere contro” fu oggetto di critiche e di polemiche accese sia da parte della destra borghese reazionaria che della sinistra estrema (la sua ideale corrente politica) o moderata: si pensi, ad esempio, alle sue spiazzanti dichiarazioni in merito agli scontri di Valle Giulia, avvenuti a Roma il 1 marzo 1968. Lungi da me voler mettere a fuoco Pasolini in queste poche righe, credo però che sia importante conoscere, almeno sommariamente, alcuni aspetti della sua personalità, per meglio capirne le opere, in questo caso lo splendido capolavoro che è “Il Vangelo secondo Matteo”. Secondo lo scrivente esso è, di gran lunga, il miglior film di Pasolini ed il miglior film mai girato sulla vita e le opere di Cristo, quello in cui il regista bolognese riesce a bilanciare meglio che in qualunque altro i suoi stilemi quali: capacità lirica, visionarietà poetica, rigore laico, arguta riflessione sociologica e politica, oltre che il suo innato approccio viscerale all’arte ed alla vita. Pasolini “scoprì” il Vangelo per la prima volta nel 1942 e lo rilesse poi più approfonditamente nel 1962 ad Assisi, in occasione di una sua visita nella città umbra durante la quale voleva incontrare Papa Giovanni XXIII, da lui molto stimato. Nonostante il suo essere marxista e non credente, Pasolini rimase molto affascinato, per sua stessa esplicita ammissione, dai testi sacri e, in particolare, dalla carismatica e rivoluzionaria figura di Gesù Cristo. In molte interviste egli parla con enorme ammirazione e dolcezza della “bellezza morale”, della “rivoluzionaria forza interiore” del Cristo e di come la sua eroica parabola terrena diventi un’altissima metafora del concetto stesso di divinità in modo purissimo, bene al di là di ogni possibile (e limitante) credo teologico. Pasolini era assolutamente rapito ed ammaliato dalla figura di Cristo, dall’enorme portata etica della sua opera, della sua vita e della sua morte e decise, contro tutto e tutti, di fare un film sul Vangelo. Bisogna infatti ricordare che la Chiesa aveva spesso bandito e censurato il regista poeta, accusandolo di blasfemia ed offesa alla religione di stato, specialmente a causa del controverso e visionario episodio “La ricotta”, inserito nel film “Ro.Go.Pa.G.” (1963). “La ricotta” è una coraggiosa e surreale parodia della Passione di Cristo, in cui Pasolini mescola abilmente sacro e profano, politica e religione, utilizzando in modo ardito la sua poetica degli umili e le sue ambientazioni da neorealismo di borgata per “rivisitare”, con un film nel film, le ultime ore della vita di Gesù. Utilizza addirittura come protagonista il mito Orson Welles, che fa la parte del regista e che esprime (doppiato, ahinoi) il Pasolini pensiero sulla politica e sulla società del tempo. Assolutamente memorabile, al riguardo, la sua definizione di Federico Fellini, detta per bocca di Welles (“egli danza…”). Nonostante alcune sequenze geniali e visionarie, stilisticamente pregevoli e visivamente elegantissime (le due deposizioni del Cristo crocifisso che ricalcano pedissequamente i dipinti di Rosso Fiorentino e del Pontorno), nonostante le moltissime citazioni finissime e coltissime, gli ossimori utilizzati erano (o sono?) davvero troppo per il moralismo bigotto di quei tempi. Il Cristo volgare e ruspante de “La ricotta” (Stracci), insieme ad alcuni concetti espressi per bocca del divo Welles, suscitarono le ire e gli strali della Chiesa e molte furono le persecuzioni censorie verso il film e verso Pasolini, che, alla fine, si vide costretto a modificarne alcune parti. E’ facile dunque capire quali e quante perplessità furono suscitate dalla decisione del regista di realizzare un film sul Vangelo, appena un anno dopo il terremoto ideologico provocato da “La ricotta”. Eppure, il “miracolo” riesce: Pasolini sceglie scientemente il più “laico” dei quattro Vangeli, quello di Matteo, dove meglio traspare il lato umano del Cristo, il suo essere persino, a volte, severo e combattivo, altre volte cupo, sconsolato e quasi avvinto dall’enorme peso del suo destino. Il Vangelo di Matteo presenta, maggiormente rispetto agli altri, una struttura ad episodi (quattro) quasi a se stanti, con balzi temporali ed ellissi nella narrazione e Pasolini si rifà ad esso rigorosamente, fedelmente ed in modo pressoché assoluto. Invero, alcune piccole differenze sono riscontrabili soprattutto nella dilatazione di alcuni episodi da parte del regista, in particolare per mettere in risalto (con estrema efficacia e sublime poesia) il dramma umano ed interiore di alcuni personaggi quali Maria, Pietro o Giuda. Ma questi “peccati veniali”, commessi in nome del lirismo pasoliniano, nulla tolgono alla fedeltà testo-film, anzi migliorano il senso artistico dell’opera, regalandoci momenti intensi, struggenti e sublimi. In particolare la sequenza del tradimento di Simon Pietro è un momento di grandissimo cinema e di superba regia, con quello zoom in - zoom out eseguito con la camera a mano, a sottolineare i diversi stati d’animo di paura, vergogna e dolore. Il “miracolo” riesce, dicevamo, e così un marxista, un non credente, boicottato dalla Chiesa e dalla morale borghese riesce nell’impresa di raccontare, con sguardo laico e stile asciutto, la storia di Gesù Cristo, raggiungendo vette di altissima poesia e di sublime misticismo come mai più nella sua carriera, pur non rinunciando ai contenuti a sfondo politico e sociale, qui però elevati su una dimensione ascetica ed universale. In tal senso, questo “miracolo” è figlio dei suoi tempi: tempi in cui si avvia il dialogo e la distensione tra la sinistra e la religione cattolica, anche grazie ad insigni figure come papa Giovanni XXIII o Aldo Moro. Dialogo che, più in avanti, culminerà con il “compromesso storico” ed il primo governo a partecipazione di sinistra. E, non a caso, il film di Pasolini è dedicato al “papa buono”. Ecco, come premesso in avvio, che vita ed arte, contesto storico-sociale ed opera cinematografica, per Pasolini più che per chiunque altro, si intersecano, si influenzano e si confondono in una sinergia di intenti e di ambizioni. Dopo avere effettuato alcuni sopralluoghi in Palestina (nei veri luoghi della vita del Cristo), Pasolini si convince (anche per motivi di budget) di girare il film a Matera, nel Meridione d’Italia, e ricorre, coerentemente alla sua estetica, ad attori non professionisti, sconosciuti e comparse prese in loco (contadini dal volto fiero e segnato da una vita rude e faticosa). La splendida fotografia in bianco e nero di Tonino Delli Colli e le superbe musiche di Luis Bacalov (mescolate a classici come Bach e Mozart) si aggiungono a magnificare il tutto, dando vita ad un capolavoro di rara bellezza. Per la cruciale scelta del personaggio principale, il regista si affidò, coraggiosamente, ad un giovane studente spagnolo (Enrique Irazoqui), conosciuto quasi per caso perché questi stava scrivendo una tesi sulle poesie di Pier Paolo Pasolini. I tratti somatici spigolosi e poco “cristologici” del giovane catalano (tra l’altro doppiato dall’ottimo Enrico Maria Salerno) ci regalano un Cristo atipico già nell’aspetto, un Cristo pensoso e scuro in volto, raramente angelico, più medievale che prossimo alla tranquillizzante iconografia rinascimentale, alla quale siamo più abituati. Lo stile registico è rigoroso, c’è un notevole utilizzo della camera a mano (regalando al tutto un estremo realismo), vi sono frequenti passaggi dai campi lunghi ai primi piani, rimarcando così sia lo spirito epico che gli stati d’animo dei personaggi, ed anche l’utilizzo del montaggio è spesso geniale e visionario (specialmente nel meraviglioso “Discorso della Montagna” dove si alternano le zoomate sul volto di Cristo, le parabole e le immagini simboliche). Il contrasto tra il Pasolini laico e non credente ed il Pasolini “innamorato” di Cristo, è il motivo trainante su cui si basa la pellicola e da cui nascono la sua carica emotiva e la sua incredibile tensione spirituale. E quando queste due forze antitetiche raggiungono un equilibrio si hanno i momenti più elevati, profondi e poetici del cinema di Pasolini. La forza del Cristo di Pasolini è nella parola più che nelle azioni, parole a volte sussurrate a volte urlate con forza, a sottolineare la sua carica umana ed il suo carisma. Una cosa che colpisce molto nel film è la posizione morale di Pasolini rispetto alla storia che sta raccontando, posizione che poi si traduce nella bellissima estetica che vediamo sullo schermo. Egli si accosta al Cristo, nonostante il suo ateismo, con profondo rispetto, con un candore ed una “pudicizia” etica ed intellettuale che non può non sbalordire. Questo è evidente non solo nelle scene di più profonda empatia e partecipazione emotiva (il Discorso della Montagna, il Getsemani, la Deposizione) ma soprattutto nelle scene in cui il regista sceglie di restare in disparte: si pensi al modo di riprendere il processo (dal punto di vista di Simon Pietro) o la Via Crucis (con camera a mano e dal punto di vista della folla). Questo distacco nasce da un senso di profondissimo rispetto che oserei definire pudico: Pasolini sceglie di non essere né di fronte né di fianco a Cristo nei momenti più terribili della sua vita terrena, ma resta distante (fedele anche al suo concetto di cinema verità con uno stile quasi documentaristico), resta tra le gente, uomo tra gli uomini, evidenziando, altresì, l’impossibilità umana di capire e compenetrare più di tanto il divino e lo spirituale. L’amore è la miglior forma di compenetrazione possibile e Pasolini dimostra di amare la figura del Cristo, di un amore fatto di dolcissimo candore. Egli stesso dichiarò in un’intervista: “Forse è perché sono così poco cattolico che ho potuto amare tanto il vangelo e farne un film”. Un altro aspetto da evidenziare è l’atmosfera: la fusione tra i toni ruvidi della fotografia, le musiche (autentiche protagoniste di moltissime scene) e le immagini (spesso fortemente ispirate, come già avvenuto ne “La ricotta” ad opere pittoriche) ci regala un mondo selvaggio, seminale, quasi preistorico, ma pregno di senso epico e mistico. L’utilizzo delle musiche avviene in modo estremamente eterogeneo ed a volte quasi “ardito”: infatti, in alcune sequenze, la musica sembra in distonia rispetto alle immagini, sempre in accordo all’utilizzo coltissimo degli ossimori o per aumentare la carica espressiva della scena. “Il Vangelo secondo Matteo” è il settimo film di Pasolini e non è solamente il suo film più bello, ma anche il più importante, perché segna il passaggio dal “cinema di borgata” al “cinema di poesia”. Da segnalare, altresì, l’esplicita comparsa del “senso della morte”, che accompagna un po’ tutta la produzione artistica pasoliniana e che troverà il suo estremo e nefasto compimento nel suo ultimo film: “Salò o le 120 giornate di Sodoma”. La pellicola fu giudicata in modo diverso e suscitò reazioni contrastanti (come sempre per il cinema di Pasolini): molti critici di sinistra vollero rimarcarne soprattutto l’aspetto umano ed il contenuto “politico” e marxista (Cristo inteso come figura rivoluzionaria che si dà alle folle per poi portarle nella storia). Molti benpensanti e molti critici di destra criticarono invece il film, sicuramente con un atteggiamento di prevenzione nei confronti dell’autore ma non mancarono critiche anche da certe parti della sinistra. La Chiesa dimostrò invece il suo apprezzamento, addirittura premiando il film. Tutti però riconobbero l’estrema fedeltà al testo evangelico di Matteo. Mi permetto di consigliare questo capolavoro della nostra cinematografia a quanti non lo avessero ancora visto. E’ un film sublime, lontanissimo dagli stereotipi edulcorati di altri kolossal dedicati a Gesù Cristo ed è l’espressione più alta dell’arte e del talento di uno dei maggiori intellettuali vissuti nel nostro paese.

Voto:
voto: 5/5

Orizzonti di Gloria (Paths of Glory, 1957) di Stanley Kubrick

Durante la “Grande Guerra” sul fronte franco-prussiano, un generale arrivista e senza scrupoli decide di lanciare i suoi uomini in un attacco scriteriato e senza speranza contro una postazione nemica, per le proprie mire di carriera. Di fronte all’inevitabile insuccesso, per scaricarsi dalle colpe dell’avventata decisione, accusa i propri soldati di codardia e ammutinamento e propone per alcuni di essi la Corte Marziale e la fucilazione. Un colonnello coraggioso ed integerrimo vi si opporrà con tutte le forze in suo possesso. “Orizzonti di Gloria” (“Paths of Glory”) è il quarto film di Stanley Kubrick (senza contare i documentari) ed il suo primo autentico capolavoro. Non è semplicemente un film contro la guerra ed i suoi orrori in senso astratto, ma una feroce e coraggiosa critica anti-militarista. Un autentico attacco senza mezzi termini contro il potere e la spietata logica della ragion di stato. Le accuse così forti e dirette contro il sistema militare (in questo caso francese, ma ovviamente è solo un pretesto) causarono enormi polemiche all’uscita del film, che fu bandito e censurato in Francia fino al 1974. Il Kubrick pensiero in merito alla spietatezza del potere ed alla sua logica avidamente amorale, traspare, altrettanto chiaramente, anche in molti altri suoi successivi lavori, come “Il Dottor Stranamore”, “Arancia Meccanica” o “Full Metal Jacket”. Ma mai come in questo film verrà rappresentato in maniera così tragica, efferata ed insensata, in evidente e provocatorio contrasto con la gloria citata nel titolo. Sostenuto da una splendida fotografia in bianco e nero, perfetta per rappresentare il periodo storico nonché le tragiche vicende narrate, da una sceneggiatura solida e senza fronzoli e da una regia asciutta e tecnicamente rigorosa, il film ha un impatto dirompente sia dal punto di vista visivo che dei contenuti. Riesce infatti perfettamente nell’obiettivo di suscitare sentimenti ed emozioni contrastanti nello spettatore: spettacolare e disperato l’attacco suicida delle forze francesi al “formicaio” tedesco, che mostra atti di estremo coraggio ed eroismo, ma non tralascia di raccontare anche sentimenti tipicamente umani come paura, smarrimento, senso di inadeguatezza di fronte ad una così tragica situazione. Bellissima la sequenza del coriaceo ed umano colonnello Dax (ottimamente interpretato dalla star Kirk Douglas), che avanza, con piglio deciso, tra i suoi uomini all’interno delle trincee e questi sembrano quasi “aprirsi” davanti a lui. Scena poi ripresa molti anni dopo, come chiaro omaggio a Kubrick, da Ridley Scott nel suo “Il gladiatore”. Si passa poi a sentimenti di rabbia e disgusto in tutta la parte del processo e della sua preparazione, di fronte ai loschi e perversi giochi di potere del generale Mireau (anche qui una grande interpretazione di George Macready), per cui i suoi soldati sono solo delle pedine per arrivare ai propri scopi personali. Addirittura straziante la parte dell’esecuzione (memorabile un primo piano di Kirk Douglas in quella sequenza, che vale più di mille parole), senza però mai scadere nel patetico. Tutto viene invece girato con un tono freddo, quasi documentaristico, aumentandone notevolmente il patos e la tragicità. Ancora una volta sconcertante il dialogo finale tra il colonnello Dax ed il generale Broulard (altro machiavellico burocrate, sebbene in modo più viscido e sottile rispetto a Mireau), con il fraintendimento sulle reali motivazioni del colonnello da parte del suo superiore. E’ proprio in questa parte del film, secondo me, che Kubrick calca ulteriormente la mano con la critica anti-militarista, facendo ben capire che il malcostume non fosse affatto un vizio di pochi bensì una consuetudine di molti. Si giunge così all’ultima sequenza, da antologia, dove Kubrick allenta un po’ la morsa e fa prendere finalmente fiato a noi spettatori ed ai poveri derelitti soldati francesi, figli orfani di un sistema corrotto e spietato che li spinge in una follia ancora più grande come la guerra. La scena della timida e impacciata ragazza tedesca (unica donna che compare nel film), che in uno squallido bar intona una canzone nella propria lingua, “aprendo” i cuori dei soldati verso antiche e mai sopite emozioni è una delle più poetiche ed emozionanti immagini che mai si siano viste sul grande schermo. Solo lo stoico colonnello Dax, pur non restando impassibile, sembra voler rimanere in disparte nel suo alto ruolo, ma decide di concedere ai suoi uomini ancora un po’ di tempo e di respiro, per emozionarsi davanti a una canzone e a quella dolce, tenue voce che si staglia contro il rombo della guerra. Un capolavoro assoluto, un MUST imperdibile consigliato a tutti.

Voto:
voto: 5+/5

Il posto delle fragole (Smultronstallet, 1957) di Ingmar Bergman

“Il posto delle fragole” (Smultronstallet, 1957) è un altro capolavoro bergmaniano, nel quale i temi filosofici sono affrontati sul versante esistenziale e solo indirettamente su quello religioso. Il film si apre con uno degli incubi più angosciosi della storia del cinema, e racconta il viaggio in auto di un anziano professore universitario, che si reca alla sua vecchia università per il proprio giubileo. L’uomo sente la morte vicina (come il cavaliere del “Settimo sigillo”) e fa un bilancio della sua vita, attraverso ricordi, rimpianti, perfino rimorsi, incontri, colloqui e riflessioni, che lo portano alla fine al riconoscimento dei propri errori (in particolare l’egoismo e l’indifferenza verso gli altri) e a una più serena accettazione dell’esistenza (e quindi anche della morte imminente). Raccontata così, la vicenda sembra banale ed addirittura rassicurante, ma Bergman le conferisce una problematica complessità, caricandola di inquietudini e moltiplicando le tematiche: a quella principale sul senso dell’esistenza, intreccia meditazioni sulla vecchiaia (davvero straordinarie per profondità, in un autore di meno di quarant’anni), sul divario generazionale (il confronto con i giovani autostoppisti), sul valore della memoria, sul trascorrere del tempo (con la geniale trovata del protagonista che resta vecchio nei flash back in cui rivede il proprio passato, mentre gli altri personaggi sono bloccati nella perenne e splendente giovinezza del ricordo), sui conflitti matrimoniali (il rapporto tra il figlio e la nuora), sulla paura del futuro. Tutti temi universali che sublimano la vicenda individuale del vecchio professore in un apologo di straordinaria forza comunicativa. Il raggiunto magistero registico conferisce ad un’opera già così ricca di contenuti una ammirevole qualità formale, sottolineata dalla solita bellissima fotografia di Gunnar Fischer. Da ricordare infine la bellissima interpretazione di Viktor Sjostrom, celebre regista autore di classici del muto (da “Il carretto fantasma” a “Il vento”), maestro del cinema svedese e mondiale, col quale Bergman aveva già lavorato. Qui, alla sua ultima (ed emblematica) prova d’attore, il vecchio leone sembra quasi affidare al suo giovane (e perfino più dotato allievo) un significativo passaggio di consegne, che conferisce al film un valore aggiunto metacinematografico.

Voto:
voto: 5+/5