martedì 31 agosto 2021

Miracolo a Sant'Anna (Miracle at St. Anna, 2008) di Spike Lee

Dal romanzo omonimo di James McBride, che ha anche scritto la sceneggiatura del film. New York, anni '80. Un impiegato di colore di un ufficio postale spara improvvisamente ad un utente di origine italiana, senza alcun apparente motivo. Scatta subito un'indagine e, a casa dell'uomo, viene trovato un reperto artistico proveniente da un ponte di Firenze. Toscana, 1944, durante la Seconda Guerra mondiale. Quattro soldati afroamericani della divisione denominata "Buffalo Soldiers" si ritrovano isolati al di qua della "linea Gotica" e finiscono nel piccolo paesino di Sant'Anna di Stazzema, nel cuore delle Alpi Apuane. Qui nasce uno stretto rapporto tra i militari, gli abitanti del paese e i partigiani che combattono la loro guerriglia contro l'invasore nazista. In particolare s'instaura un toccante sentimento tra il soldato Sam Train e un bambino orfano di nome Angelo, salvato dai quattro del drappello durante il loro passaggio a Firenze. Ma l'orrore indicibile della guerra è in agguato, e travolgerà tutto e tutti. Questo dramma bellico di Spike Lee, che racconta drammatici eventi reali come il terribile eccidio di Sant'Anna di Stazzema in cui i nazisti sterminarono oltre 500 civili innocenti (tra cui molte donne, anziani e bambini), mescolandoli con episodi e personaggi di finzione, è forse il più coraggioso e il più complesso tra i suoi film. Una incursione in un genere, in un periodo storico e in un contesto ambientale con cui non si era mai confrontato prima, molto distante dalla sua tipica filmografia, dal suo background culturale e dalla "sua" New York City, roccaforte privilegiata delle sue "joint". Per sua esplicita ammissione, il regista ha scelto di confrontarsi con una materia tragica particolarmente scottante (perchè reale) e con un paese come l'Italia (dove si svolge la maggior parte del film) che è stato spesso motivo d'inciampo per i cineasti americani, il cui tipico banale atteggiamento è quello di decantarne le bellezze o di sottolinearne gli stereotipi, ma senza mai nemmeno provare a sfiorarne l'anima o capirne il cuore. E, manco a dirlo, nemmeno Spike Lee ci riesce, sicuramente non aiutato dalla grandiosità della storia e dalla sua complessità epica e politica. Il risultato è un film discontinuo, altalenante, sospeso tra la favola mitica e la tragedia efferata, polemico verso il potere bianco che decise scientemente di mandare al macello una intera divisione di soldati neri (la "Buffalo Soldiers"), ritenendoli "sacrificabili", compassionevole verso le povere vittime innocenti della follia bellica, artificioso nella rappresentazione della Resistenza, superficiale nell'analisi socio-politica della complessa situazione italiana, tortuoso nella ricostruzione dell'eccidio compiuto dai tedeschi e troppo edificante nel frettoloso epilogo. Nel ricchissimo cast menzioniamo, tra gli americani: Derek Luke, Laz Alonso, Omar Benson Miller, John Turturro, John Leguizamo, Joseph Gordon-Levitt. Tra gli italiani: Pierfrancesco Favino, Valentina Cervi, Sergio Albelli, Omero Antonutti, Luigi Lo Cascio. Alla sua uscita in Italia il film ha suscitato accese polemiche da parte dei parenti delle vittime della strage di Sant'Anna di Stazzema, che si sono indignati per come il regista ha ricostruito le motivazioni che portarono al massacro, facendolo passare (secondo loro) come una rappresaglia piuttosto che come un atto di aggressione premeditato. Spike Lee, non nuovo a controversie di questo tipo con i suoi film dal forte impatto, si è difeso appellandosi all'adattamento operato a partire da un romanzo, che innesta molteplici eventi di fiction accanto a vicende storiche reali. Alla fine tutto si è risolto con un esplicito intervento del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, che ha riconosciuto il valore storico e morale del film ed ha evidenziato come questi renda palese omaggio alla Resistenza, mettendo in luce come (e quanto) questi temi siano ancora oggi un nervo scoperto del "belpaese". Tra una prima parte impeccabile ed una seconda claudicante, e con la tendenza alla discesa, la pellicola merita ampiamente la visione per la grandiosità della ricostruzione, per alcune sequenze memorabili, per la lodevole interpretazione degli attori e per l'audacia di un autore come Spike Lee che non ha paura di osare, mettersi in gioco e rischiare in prima persona. Non sempre riesce a "fare la cosa giusta", ma mezza stellina in più va a questo.
 
Voto:
voto: 3/5

Quo vado? (2016) di Gennaro Nunziante

Checco è un ragazzo pugliese cresciuto fin da piccolo con il mito ossessivo del "posto fisso". Diventato adulto ha realizzato tutti i suoi sogni: lavoro statale a tempo indeterminato presso un piccolo ufficio provinciale della sezione "Caccia e pesca", dove lavoricchia senza affaticarsi troppo, cercando anche di approfittarsi degli utenti più sempliciotti, facendosi portare regali di ogni tipo in cambio del classico occhio di riguardo. Fidanzato da una vita con una ragazza appiccicosa, ma senza alcuna vera intenzione di fare il "grande passo", Checco continua beatamente a vivere con la madre, coccolato e servito come un pascià. Ma le riforme statali imposte dall'abolizione delle province metteranno sulla sua strada una dispotica dirigente del ministero, la famigerata dottoressa Sironi, che ha il compito di convincere il maggior numero possibile di dipendenti a dare le dimissioni, in cambio di una congrua buonuscita. Checco, ancora relativamente giovane, scapolo e senza prole, è il profilo perfetto per i tagli della Sironi e diventa così il suo bersaglio primario. A causa della riluttanza dell'uomo, che non intende rinunciare per nessun motivo al suo agognato posto fisso, la cinica manager lo trasferisce in Norvegia, vicino al Circolo Polare Artico, sperando così di fiaccarne la resistenza, rendendogli la vita impossibile. Ma il buon Checco, tanto bifolco quanto versatile nella sua disarmante schiettezza, metterà radici anche lì, e troverà persino il grande amore. E' impossibile non dedicare almeno una parentesi al "fenomeno" nazionale Luca Medici, da tutti conosciuto come Checco Zalone (nome d'arte che gioca sull'espressione barese "che-cozzalone" ovvero "che tamarro"). Il comico pugliese, che ha costruito una carriera su un personaggio zotico, triviale, sfacciato e politicamente scorretto, tra sketch e canzonette, ha fatto tutta la gavetta di rito (locali, palcoscenici, televisione) per poi sbarcare al cinema nel 2009 e rivelarsi il re indiscusso del botteghino italiano, capace di battere tutti i record d'incasso in vertiginosa sequenza e addirittura provocare lo slittamento delle uscite dei grandi blockbuster americani, per non essere danneggiati economicamente dalla concorrenza dei suoi film, ormai attesissimi da un sempre crescente pubblico di affezionati e ritenuti dai distributori "senza avversari". Si dice che ogni epoca ha il comico che si merita e probabilmente è vero. Ma Zalone non è l'erede del "cinepanettone" (come alcuni vaneggiano), perchè la sua comicità è sicuramente sboccata con cadute nel trash, ma anche mordace, audace, pungente, capace di trasformarsi in satira irriverente e macchiettistica sui vizi dell'italiano medio. Insomma quello che una volta faceva Alberto Sordi insieme ai grandi Autori della nobile Commedia all'Italiana (e che invece non hanno mai fatto i loro più prossimi "eredi" Verdone, Troisi, Benigni, Nuti). Ovviamente questa satira di illustre ispirazione è attualizzata al linguaggio dei nostri tempi, alla sensibilità più disinvolta, ai costumi più spudorati, al ribasso di cultura (ahimè!) ed alla perdita generale di valori, ideali e riferimenti. Sotto questo aspetto, e non necessariamente con accezione per lui negativa, Checco Zalone è esattamente il comico che oggi ci meritiamo in Italia. Questo quarto lungometraggio che lo vede attore protagonista e co-sceneggiatore, sempre sotto la regia di Gennaro Nunziante e la produzione di Pietro Valsecchi, è una divertente farsa ruspante, a volte "cafona", a volte satirica, a volte goliardica, che gioca impunemente su tutti i malcostumi atavici dell'italiano medio, oscillando tra stereotipi e realtà, sempre all'insegna di una "mitragliata" di battute, alcune delle quali molto riuscite. Si ride, si sorride, si ghigna e talvolta si storce il naso, perchè Checco è un vulcano in eruzione e ogni tanto sconfina nel becero di bassa lega. Ma poi lo senti tirar fuori una genialata sarcastica come la canzone sulla "Prima Repubblica che non si scorda mai" e capisci esattamente perchè, ad uno così, tutto si perdona. Tra le altre cose va anche detto che la perfida "cattiveria" di certe battute di Zalone va ben oltre il crudele cinismo dei detestabili personaggi di Sordi, perchè i tempi sono cambiati e le maglie della "decenza" si sono notevolmente allargate. Ma, oggi come ieri, il meccanismo psicologico alla base del grande successo è sempre lo stesso: il pubblico ama specchiarsi nei propri stessi difetti e ridere a crepapelle di questi. Forse per esorcizzarli, o per ripulirsi la coscienza, o per una forma di masochismo inconscio. O forse perchè, con istintiva ipocrisia, finge di non riconoscersi nel ritratto che sta guardando. Alla fine del suo percorso in sala Quo vado? ha incassato ben 65 milioni di euro, piazzandosi al secondo posto nella classifica nazionale di tutti i tempi (senza tener conto dell'inflazione monetaria), solo per pochi "spiccioli" dietro ad Avatar (2009) di James Cameron. Invece nella più sensata classifica che tiene conto del numero di biglietti venduti (ma limitatamente alle pellicole di produzione italiana), il film con Zalone è "solo" al 34° posto (ma è primo considerando il periodo che va dal 1997 in poi).
 
La frase: 
- "E tu Checco, che vuoi fare da grande ?"
- "Io da grande voglio fare il posto fisso."
 
Voto:
voto: 3/5

Life: Non oltrepassare il limite (Life, 2017) di Daniel Espinosa

Un gruppo di astronauti a bordo di una stazione internazionale recuperano una sonda alla deriva nello spazio proveniente da Marte. La sonda era stata inviata sul pianeta rosso molti anni prima alla ricerca di possibili forme vita. Analizzando il materiale prelevato dal robot gli uomini scoprono, con enorme stupore, un campione organico monocellulare di natura sconosciuta. L'eccitazione aumenta quando la cellula viene rianimata da stimoli elettrici e da iniezioni di glucosio, dimostrandosi fin da subito un organismo fuori dal comune, capace di crescere e adattarsi rapidamente all'ambiente, "tutto muscoli e tutto cervello". L'essere viene battezzato col nome di Calvin ma si rivelerà ben presto una minaccia letale, animato da un inarrestabile desiderio di evolversi e sopravvivere a qualunque costo. Dopo una serie di tragici eventi gli astronauti capiscono che la priorità assoluta, più della loro stessa vita, è impedire che la forma di vita aliena riesca ad arrivare sulla terra. Questo horror di fantascienza di Daniel Espinosa è un film di tensione crescente, non particolarmente originale nella struttura e nelle svolte (lo schema ricorda fortemente quello di Alien (1979)), ma sufficientemente claustrofobico nella sua ambientazione "ristretta", efficace nella caratterizzazione della creatura e arricchito da un cast di notevole spessore che vede nomi come Jake Gyllenhaal, Rebecca Ferguson e Ryan Reynolds. E' un tipico prodotto da intrattenimento a suspense, in cui le scene ansiogene sono degnamente incorniciate da una colonna sonora di forte impatto e da una regia dinamica. Niente di sorprendente e niente che non si sia già visto, ma per almeno una sequenza di grande resa drammatica, realizzata con una trovata visiva di agghiacciante fascinazione e che arriva all'incirca a metà film, la pellicola merita di essere guardata, senza particolari pretese o aspettative. L'epilogo può piacere o irritare, a seconda dei gusti e del modo di vedere le cose. Ma è, probabilmente, quello più confacente.
 
Voto:
voto: 2,5/5

Bianco, rosso e Verdone (1981) di Carlo Verdone

Tre personaggi percorrono l'autostrada del Sole per recarsi a Roma a votare. Pasquale è un rozzo meridionale emigrato in Germania dall'eloquio pittoresco e incomprensibile. Mimmo è un ragazzone un po' tonto accompagnato dalla nonna petulante. Furio è un torinese insopportabile, pignolo e pedante fino alla paranoia maniacale, che viaggia con la moglie (vittima silente ma sull'orlo di una crisi di nervi) e con i figli piccoli che sono come lui. Durante i rispettivi viaggi ne succederanno di ogni. Irresistibile commedia di culto di Carlo Verdone, qui al suo secondo lungometraggio, prodotta da Sergio Leone e scritta dal regista insieme a Leonardo Benvenuti e Piero De Bernardi. E' uno dei maggiori successi dell'autore romano e uno dei suoi film più famosi e celebrati, che contiene molte delle sequenze e dei dialoghi "fondamentali" della sua ideale galleria iconografica, tutti rimasti nell'immaginario collettivo. In particolare il personaggio di Furio, borghese saccente, logorroico e zelante fino allo sfinimento, è straordinario e tutte le sue battute, le sue smorfie, le sua manie e le sue nevrosi sono entrate di diritto nell'antologia della commedia italiana. E' una memorabile maschera grottesca di un certo tipo di italiano, che avrebbe sicuramente reso felice anche Alberto Sordi e che non avrebbe affatto sfigurato nella sua leggendaria collezione di "italiani medi". E come non menzionare l'altrettanto riuscita caratterizzazione della povera moglie Magda (interpretata in modo sensibile dall'attrice russa Irina Sanpiter, purtroppo recentemente scomparsa), immediata catalizzatrice di tutto l'affetto e la comprensione del pubblico per la sovrumana capacità di sopportare l'impossibile marito. Ma anche gli altri due segmenti di questo gradevolissimo road movie comico sono ben riusciti, nel continuo altalenarsi tra risate, tenerezza e qualche punta di amaro che evitiamo di svelare. La partecipazione nel cast della famosa "sora Lella" (Elena Fabrizi, sorella del mitico Aldo), icona della romanità schietta e ruspante di una volta, è un valore aggiunto, perchè l'attrice (che qui aveva 70 anni, ma precarie condizioni di salute) tiene egregiamente testa al mattatore Verdone, dando vita a delle gag esilaranti. Il resto del cast è composto da Angelo Infanti, Milena Vukotic (che ci regala persino un nudo integrale) e Mario Brega, che appare per pochi minuti in un simpaticissimo cameo. Per quanto la comicità sia di taglio popolare, più orientata alla macchietta ridanciana che alla satira pungente, la verve dell'autore, la sua naturale spigliatezza che gli consente di sintonizzarsi con i gusti del pubblico e il buon gusto di non scadere mai troppo nel volgare o nel greve, rendono il film un efficace modello di comicità per tutte le stagioni. Le musiche sono di Ennio Morricone (quasi immancabilmente, visto che il produttore era Sergio Leone). 
 
La frase: "Magda, tu mi adori ? ... E allora lo vedi che la cosa è reciproca ?"

Voto:
voto: 3,5/5

Security (2021) di Peter Chelsom

Roberto Santini è un esperto di sistemi di sicurezza, gestore e responsabile di un complesso apparato di telecamere di sorveglianza e meccanismi di alert che garantiscono l'incolumità dei ricchi abitanti di Forte dei Marmi, esclusiva località marittima e ambita meta della borghesia facoltosa. Sua moglie Claudia, con cui è da tempo sull'orlo della separazione, è la rampante candidata a sindaco della cittadina, spalleggiata dal potente Curzio Pilati, da sempre un riferimento politico e culturale della comunità. Quando una giovane del posto, Maria, appare di notte davanti alla telecamera di sorveglianza di una villa, piena di graffi e lividi, in stato di shock e chiedendo aiuto, Roberto denuncia subito il fatto alla polizia. Dopo l'indagine viene accusato il padre della ragazza, un ubriacone molesto conosciuto da tempo in paese. Ma Roberto sente puzza di bruciato e sospetta che la faccenda nasconda fatti ben più loschi e segreti inconfessabili dell'elitario luogo di villeggiatura. Dal romanzo omonimo di Stephen Amidon, l'inglese Peter Chelsom ha tratto un thriller nero, che sposta l'azione dal New England alla Versilia italiana, ma che mantiene l'essenza dello spirito del testo narrativo. E' un film cupo, invernale, sommesso, dove fin dall'inizio è chiaro che qualcosa non quadra e che, sotto la facciata ridente e impeccabile dell'esclusivo "salotto" marittimo per soli ricchi, si nascondono oscure faccende, comportamenti deviati e scheletri nell'armadio. Il tema centrale dell'opera, quanto mai attuale, è quello della "sicurezza", che spesso fa rima con diminuzione delle libertà, abusi di potere, sospetti sul gestore e invasione della privacy. La domanda cruciale posta dal film è se, e in che misura, valga la pena di incappare negli effetti collaterali predetti, in nome di una presunta "sicurezza". Ma c'è dell'altro, ovviamente, ed è inevitabile in una storia di misteri e di segreti: e se la "sicurezza" fosse in realtà uno strumento dei potenti con cui difendere i propri interessi, preservare i propri privilegi e tenere fuori tutti gli altri dal loro "club" dorato? Le domande rimangono senza una risposta esplicita, ma sarà lo spettatore a farsi una propria opinione, per quanto gli sviluppi narrativi ne suggeriscano chiaramente la direzione. Peccato però che, un materiale di partenza molto interessante, venga sviluppato in maniera superficiale, grossolana, curando più la forma che la sostanza e sviscerando le dinamiche di interconnessione tra i personaggi senza la giusta sottigliezza psicologica, con poche sfumature, mirando più all'accumulo di situazioni drammatiche che alla pungente analisi trasversale. Il grande potenziale politico e sociale della storia rimane inespresso, sullo sfondo, come una grande occasione perduta. Distribuito direttamente sulle diverse piattaforme di SKY, a causa della pandemia covid-19, si avvale di un cast di tutto rispetto (Marco D'Amore, Maya Sansa, Fabrizio Bentivoglio, Tommaso Ragno, Silvio Muccino), in cui ciascuno fa il suo senza infamia e senza lode, non riuscendo mai a scalfire davvero la superficie. Né quella emotiva, né quella del patos e né tanto meno quella della critica sociale. Molto suggestiva la fotografia dell'italo-americano Mauro Fiore, premio Oscar nel 2010 per Avatar di James Cameron.
 
Voto:
voto: 2,5/5

La terza madre (2007) di Dario Argento

Sarah Mandy, giovane archeologa americana in trasferta a Roma, è testimone del ritrovamento di un'antica urna funeraria che reca dei simboli oscuri, la cui apertura farà piombare sulla capitale una terribile malia: orribili presagi, delitti macabri, segni inequivocabili di una forza diabolica che è stata risvegliata. Sarah capisce che tutto è collegato alla vecchia leggenda occulta delle tre madri, tre streghe infernali che per secoli hanno perpetrato il male, ciascuna da una diversa città nel mondo, nelle dimora costruite per loro dall'architetto Varelli. Quella che ha scatenato la sua ira su Roma è la Mater Lacrimarum, l'unica sopravvissuta delle tre, la più bella e la più sanguinaria, disposta a tutto per vendicare le sue "sorelle", portando morte e distruzione. Sarah scopre di essere connessa a vari livelli con questa storia, tramite degli eventi del suo passato di cui non era a conoscenza, e che la sua presenza a Roma potrebbe non essere casuale. Dopo quasi 30 anni da Suspiria (1977) e Inferno (1980), Dario Argento chiude la trilogia sul mito horror delle tre madri con questo ultimo capitolo, anacronistico, caotico e fuori tempo massimo, in cui l'autore conferma la sua crisi creativa e la sua mancanza di idee originali, una situazione impietosamente evidente già da lungo tempo. La terza madre è un film confuso e claudicante, un horror con suggestioni esoteriche che abbonda di sequenze visivamente feroci (la crudeltà morbosa dei delitti raggiunge picchi di efferatezza estrema anche per uno come Argento) e di clamorosi scivoloni nel greve, nel patetico, nel trash o addirittura nel ridicolo. Impossibile non menzionare, al riguardo, l'arrivo delle streghe nella capitale italiana, il sabba finale o l'effetto goffo del "fantasma" interpretato da Daria Nicolodi, nell'ultima apparizione cinematografica della sua carriera. I consueti dialoghi risibili, le svolte narrative tagliate con l'accetta e la recitazione imbambolata degli attori (a cominciare dalla protagonista Asia Argento, figlia del regista) fanno il resto. L'israeliana Moran Atias è tanto bella quanto incongrua nei panni di Mater Lacrimarum. Lo schema del racconto è molto simile a quello di Inferno (1980), ma privo dei lampi inventivi, delle magie stilistiche e dell'oscura carica visionaria che, un tempo, erano abituali nelle opere di Dario Argento. Le musiche sono firmate dal "fedelissimo" Claudio Simonetti, leader del gruppo rock progressivo dei "Goblin".
 
Voto:
voto: 2/5

Ricordati di me (2003) di Gabriele Muccino

La famiglia Ristuccia: lui, Carlo, è un assicuratore deluso dalla vita che coltiva ancora il sogno giovanile di diventare uno scrittore. Lei, Giulia, è un'insegnante isterica con il vecchio pallino della recitazione. I due condividono da anni il tetto e il letto, ma sono due estranei, ciascuno perso nella quiete apparente della propria disperazione interiore, mascherata dall'inerzia della routine quotidiana. E poi i due figli adolescenti: Valentina, bella, procace, esuberante, disposta a tutto per diventare una "velina" della televisione e Paolo, ragazzotto insicuro e introverso in piena tempesta ormonale, bersaglio prediletto della spregiudicata sorella. Carlo ritrova Alessia, vecchia fiamma di gioventù mai dimenticata, e decide di concedersi una "botta di vita". Giulia inizia a fare teatro e s'invaghisce del regista, mentre Carlo si allontana sempre più da lei. La coppia scoppia, ma un evento imprevisto costringe tutti a ripensare alle proprie azioni. Forse. Questo dramma sentimentale di Gabriele Muccino, scritto dal regista insieme a Heidrun Schleef, è una sorta di proseguimento ideale de L'ultimo bacio (2001), il cui scenario di coppia viene idealmente traslato in avanti nel tempo, aggiungendo una ventina di anni ai protagonisti. Muccino passa al tritacarne la società italiana contemporanea, quella del berlusconismo, della tv spazzatura, del conformismo ipocrita, della mediocrità ideologica e della intrinseca volgarità morale. La riflessione critica, notevolmente amara, imposta dall'autore attraverso questo film, non è circoscritta solo alle coppie borghesi come i Ristuccia, ma all'intera società del "belpaese". E' infatti evidente che tutti i personaggi sono delle figure archetipali facilmente identificabili e riconoscibili nel nostro quotidiano, ciascuno portatore di un determinato vizio o malcostume, oppure simbolo di una specifica debolezza. Peccato però che, alla maniera del regista, tutto sia troppo enfatizzato, ricalcato, urlato, all'insegna di un nevrotico effettismo che esaspera i toni, smarrisce la misura, sguazza impunemente nell'oggetto della sua denunicia e perde la lucidità dell'analisi sarcastica, trasformando tutto in un patetico circo grottesco. Da salvare il ritmo agile imposto dal montaggio dinamico (autentico marchio di fabbrica e punto di forza dell'autore) e la recitazione degli attori, quasi tutti perfetti nei rispettivi ruoli: Laura Morante, sempre a suo agio con i personaggi isterici, Fabrizio Bentivoglio, dimesso e sornione, e l'esordiente Nicoletta Romanoff, una vera bomba di sensualità, che quando è in scena buca lo schermo e si mangia il film. Nel resto del cast: Monica Bellucci è bella come il sole ma quando parla ti cadono le braccia e Silvio Muccino (fratello minore del regista) è impacciato come sempre, e forse andrebbe persino doppiato (come si usava fare una volta con gli attori italiani dall'eloquio non propriamente "cristallino"). Il titolo del film chiarisce l'idea di Muccino senior in merito alla principale causa della crisi che attanaglia i personaggi: non l'amore, non il successo, non il sesso, ma l'impellenza di essere "visti", riconosciuti e non dimenticati.

Voto:
voto: 2,5/5

lunedì 30 agosto 2021

Sils Maria (Clouds of Sils Maria, 2014) di Olivier Assayas

Maria è un'attrice di mezza età che teme l'invecchiamento e il progressivo sbiadire della sua bellezza e della sua fama, ottenuta a soli 18 anni grazie alla pièce teatrale "Maloja Snake", in cui interpretava Sigrid, una giovane ambiziosa che seduce la matura Helena e la conduce al suicidio. Adesso, a quasi vent'anni da quel fortunato debutto, le viene chiesto di recitare nel ruolo di Helena, mentre il personaggio di Sigrid (che lei sente ancora come suo di diritto) viene affidato alla star emergente Jo-Ann, divenuta in fretta idolo dei teenager grazie alla sua partecipazione a blockbuster commerciali sui super eroi. Maria entra in crisi, ma trova dalla sua parte l'amorevole assistente Valentine, una ragazza che la protegge e la sostiene, e che si offre di provare il copione insieme a lei, cercando la necessaria quiete nell'isolamento di uno chalet tra le montagne svizzere. Questo limpido dramma al femminile di Olivier Assayas, nella doppia veste di regista e sceneggiatore, è una parabola sui conflitti generazionali e sul trascorrere inesorabile del tempo, ma anche sul rapporto tra arte e vita, in un vertiginoso gioco "a specchio" di citazioni, allusioni, riferimenti, che legano tra loro in maniera affascinante i personaggi, le persone e persino gli attori stessi, con notevoli rimandi meta-cinematografici. E' abbastanza evidente come le vicende del personaggio di Maria siano in qualche modo riconducibili alla reale carriera della sua interprete Juliette Binoche, e un discorso simile può essere fatto per Valentine e Kristen Stewart o per Jo-Ann e Chloë Grace Moretz. Nel continuo scambio di riflessioni e rifrazioni, c'è anche spazio per ironia e leggerezza, momenti poetici, sequenze di naturalismo evocativo e omaggi a grandi classici come Eva contro Eva (All About Eve, 1950) di Joseph L. Mankiewicz. Al netto di qualche passaggio un po' tortuoso e di una sporadica sensazione di manierismo autocompiaciuto, questa è anche un'opera sulla potenza dello sguardo, sul valore delle sfumature, sulla celebrazione delle immagini (e del silenzio) rispetto ai dialoghi. Dunque un confronto tra cinema e teatro, in un ulteriore sottolivello nel meccanismo delle scatole cinesi che formano l'ossatura del film. Grande consenso da parte della critica per l'interpretazione di Kristen Stewart, conosciuta dal grande pubblico come la bella eroina del melenso "fotoromanzo" horror Twilight, e qui molto convincente in una delle sue prime vere incursioni nel cinema d'autore.
 
Voto:
voto: 3,5/5

Nocturama (2016) di Bertrand Bonello

Un gruppo eterogeneo di giovani parigini si aggira di notte nel ventre della città, attraverso i tunnel della metropolitana, come posseduti da una forza oscura che li controlla. Sono bianchi, neri, europei, arabi, ricchi, poveri, figli dei ghetti periferici o dei palazzi storici del centro. Tutti insieme, muti e spiritati, formano uno squadrone d'assalto che piazza bombe in vari punti strategici della metropoli francese, dilaniandola impunemente e senza un chiaro motivo. Poi tutti insieme si rifugiano in un grosso centro commerciale dopo l'orario di chiusura e, silenziosi, aspettano. Inquietante dramma onirico di Bertrand Bonello, fortemente discusso alla sua uscita in Francia per il suo presunto contenuto politico giudicato "scorretto" e altamente "pericoloso". E' fuori discussione che la materia trattata nell'opera sia altamente "incendiaria" e possa essere facilmente fraintesa da un pubblico impreparato o fazioso o già tendenzialmente violento. Ma questo discorso è antico e ampolloso ed esiste fin da quando, nel 1964, Sergio Leone avviò il processo di sdoganamento della violenza sul grande schermo. Alla fine sono sempre gli intenti artistici (che qui sono indubbi ed evidenti), la capacità di sublimare il significante nel significato e, cosa più importante, l'intelligenza dello spettatore a fare la differenza. Viceversa i prodotti di bassa lega, ipoteticamente istigatori o sostenitori dei cattivi comportamenti, durano un battito di ciglia e poi ci pensa rapidamente il tempo a seppellirli in oblio, rendendoli innocui. Nocturama non è principalmente un film politico ma una riflessione teorica sul terrorismo nella sua forma più pura, amorale, apolitica, e, quindi, più spaventosa. Non a caso i giovani teppisti che "bruciano" Parigi (con evidente metafora di una ribellione giovanile viscerale contro uno status quo pregnante, simbolico e fortemente iconico) sono di diversa estrazione etnica, sociale, economica e culturale e non possono essere identificati in questo o quel gruppo, secondo i comuni pregiudizi odierni. In questo senso la pellicola mira ad essere qualcosa di più profondo: un grido di dolore di una generazione sbandata e senza riferimenti, un atto estremo di disperazione, diversificazione, affermazione di sè, ribellione e, inevitabile, annullamento, nel finale nero e profondamente pessimista. Con forza vibrante, spirito mordace e talento visionario, l'autore mette in scena una dura parabola allegorica contro il materialismo, la sottocultura dell'omologazione e lo spaesamento esistenziale indotto dalla perdita di riferimenti ideologici e culturali. Impossibile non menzionare le molteplici scene in cui viene esplicitato (magistralmente) il feticismo degli oggetti, la brama del possesso, la pseudo cultura spicciola basata su slogan e luoghi comuni e la tendenza inevitabile per cui un sistema sociale finisca prima o poi per implodere dall'interno a causa del "virus" del terrorismo che, prima o poi, nasce e cresce dentro di sè. Allo stesso modo i cinefili noteranno con piacevole gioia le molteplici citazioni a George Romero (i terroristi "fantasmi" sono volutamente una nuova versione dei suoi zombie), allo scrittore "maledetto" Bret Easton Ellis o alla cultura pop, nelle sue forme più disparate. E' un film potente, suggestivo, angosciante e sottilmente conturbante, come solo certi film francesi sanno essere.
 
Voto:
voto: 4/5