domenica 10 dicembre 2017

Detroit (Detroit, 2017) di Kathryn Bigelow

A Detroit, tra il 23 e il 27 luglio 1967, a seguito di un discutibile arresto di massa da parte della polizia ai danni di cittadini di colore colpevoli di trovarsi in un bar privo di licenza per la vendita degli alcolici, esplosero incontrollabili una serie di disordini che culminarono in una violenta rivolta da parte della comunità afroamericana, che mise a ferro e fuoco le strade dando vita ad un'autentica guerriglia urbana. La reazione da parte delle forze dell'ordine, a cui si unì anche la guardia nazionale, fu altrettanto feroce e culminò nei tragici eventi dell'Algiers Motel durante i quali, in una notte di assurda follia razzista, tre poliziotti alla ricerca di un fantomatico cecchino segregarono, picchiarono e torturarono dei ragazzi di colore e due giovani donne bianche, "colpevoli" di atteggiamento promiscuo con alcuni di essi, lasciando a terra tre vittime innocenti uccise a sangue freddo. Il vergognoso processo farsa che ne seguì, confermò l'atteggiamento sprezzante e discriminatorio del potere dei bianchi nei confronti della comunità nera. Ispirandosi ai reali e vergognosi fatti di sangue di Detroit del 1967, e in parte romanzandoli per esigenze narrative, Kathryn Bigelow, la più "tosta" tra le registe d'oltre oceano, ha tratto un film brutale, crudo e indignato, che va a toccare uno dei nervi scoperti della (cattiva) coscienza americana: la questione dei diritti civili, del razzismo e dell'ancora difficile convivenza tra etnie diverse in una nazione che ha fatto, almeno teoricamente, della pluralità razziale il suo punto di forza e il suo vanto da sbandierare nelle campagne elettorali o nelle questioni di politica estera. L'argomento, scottante, delicato e ancorché attuale, viene affrontato con il piglio di un racconto frenetico e a tratti scioccante, esteticamente superbo e ben corredato da una eccellente ricostruzione d'epoca, ma probabilmente troppo concitato per colpire nel profondo il cuore nero del problema e mettere a nudo tutte le sfumature di una questione tanto atavica quanto imbarazzante. Detroit è un film teso e violento sulla violenza, sull'intolleranza xenofoba, sull'abuso di potere, sulla prevaricazione e sull'arrogante certezza dell'impunità di un sistema governativo fascistoide, tipicamente di razza bianca, che ha radici profonde ed ha trovato terreno fertile da ambo i lati dell'Oceano Atlantico. E se la condanna verso questa aberrante ideologia è ovviamente netta, non si può dire che l'analisi sociologica del problema lo sia altrettanto. Nettamente più a suo agio con l'azione declinata attraverso immagini convulse che con l'approfondimento psicologico dei personaggi, la regista americana riflette sugli eventi di Detroit con un film idealmente divisibile in tre atti: il primo, di taglio documentaristico e caratterizzato da uno stile nervoso, ci mostra lo scoppio della rivolta urbana e lo scenario da guerriglia conseguente. Il lungo segmento centrale (che è anche il migliore) ci immerge con claustrofobico sadismo nella bestiale notte nel Motel, risparmiandoci ben poco delle sevizie psicofisiche, delle percosse, delle umiliazioni e dei delitti perpetrati con cinica ferocia dagli aguzzini in uniforme ai danni delle vittime. Qui l'autrice dispensa il suo talento innato nel racconto attraverso immagini forti e nervosamente agghiaccianti, restituendoci in pieno l'orrore e l'ingiustizia di quella che è ancora oggi una macchia esecrabile della società statunitense. Il terzo atto, più canonico e con qualche indulgenza retorica, intende mostrare il senso di umiliazione, rabbia, frustrazione e impotenza lasciato nella psiche di coloro che sono sopravvissuti alla spregevole notte ma che ancora portano dentro i segni dell'infamia subita. Vengono quindi poste in risalto le storie personali di Dismukes, agente di sorveglianza di colore che fu pavido testimone dei fatti dell'Algiers, e di Larry, talentuoso cantante soul in cerca di affermazione, la cui profonda ferita nell'animo finisce per minarne le velleità artistiche. Nel comparto di attori i più bravi sono, nell'ordine, Algee Smith, Will Poulter e John Boyega. Come in quasi tutti i film "a tesi" ispirati a tragici eventi storici il rischio di manicheismo è dietro l'angolo, ma la sincera e trascinante capacità della Bigelow di tradurre i fatti in un energico flusso di immagini è fuori discussione. E (quasi) tutto soccorre.

Voto:
voto: 3,5/5

giovedì 7 dicembre 2017

Dunkirk (Dunkirk, 2017) di Christopher Nolan

Maggio 1940, durante la Seconda Guerra Mondiale: sulla spiaggia francese di Dunkerque, vicino al confine belga, si trovano ammassati circa 400 mila soldati alleati (in gran parte britannici) costretti alla fuga dall'incessante avanzata dell'orda nazista che li bracca senza tregua. Nel tentativo di salvarli l'Inghilterra organizza un eroico quanto improvvisato piano di evacuazione, ricorrendo anche all'aiuto fondamentale di numerosi civili che partecipano all'azione con le loro imbarcazioni private guidate attraverso la Manica. Nonostante l'evidente disfatta militare, il "miracoloso" salvataggio di Dunkerque può essere considerato il rocambolesco inizio di quella resistenza strenua e orgogliosa che gli inglesi seppero opporre alle forze tedesche, in attesa di quegli eventi favorevoli che poi ribaltarono le sorti belliche, cambiando per sempre la storia del mondo moderno. Prodotto, scritto e diretto da Christopher Nolan (che ha cullato questo progetto per anni), Dunkirk è un war movie tecnicamente superbo e narrativamente audace che rende omaggio ad un mito nazionale britannico limando l'enfasi retorica e spingendo forte sul pedale di un accorato intimismo che stinge nell'epopea antropologica. Questa grande storia di una vittoria all'interno di una sconfitta procede secondo tre linee di racconto distinte, sia per location sia per durata, che si sovrappongono e si intersecano offrendoci tre soggettive differenti come le loro ambientazioni: il molo (vicenda che copre un arco temporale di una settimana), il mare (una giornata) e il cielo (un'ora). Ancora una volta il punto di forza assoluto è il montaggio (straordinario), capace di plasmare gli eventi in un mosaico di azioni e di emozioni in continua oscillazione tra l'affresco storico e il poema umano, che intende tracciare un accorato inno alla vita, al valore della sopravvivenza e all'importanza della coesione per definire un'identità nazionale. Potente e al tempo stesso calibrato, visivamente sontuoso nella sua fotografia plumbea e nel suo formato a 65mm, si lascia andare a qualche indulgenza ampollosa nelle sole scene con Kenneth Branagh, che si erge saldo come uno scoglio in mezzo al mare affermando tutto il suo orgoglio fieramente british, ma è un film importante, intenso, lirico, a tratti esaltante, che trova i suoi momenti migliori nei personaggi anonimi e nelle piccole gesta spontanee. Musicato da Hans Zimmer con minor veemenza del solito (il che è un bene) ed ottimamente riuscito anche nella commistione tra attori poco noti (Fionn Whitehead, Tom Glynn-Carney, Jack Lowden, Harry Styles) ed altri più famosi (Kenneth Branagh, Tom Hardy, Cillian Murphy, Mark Rylance), è il film più maturo, sentito ed equilibrato del regista londinese. Da segnalare la presenza vocale, apprezzabile però solo in versione originale, del fido Michael Caine nei panni del radiocronista di guerra. Da lodare altresì l'utilizzo misurato e poco invasivo della computer grafica in favore di un maggior numero di effetti speciali realizzati alla vecchia maniera, con trucchi artigianali, vere imbarcazioni e autentici aeroplani d'epoca, aumentando così enormemente la resa realistica.

Voto:
voto: 4/5