venerdì 31 ottobre 2014

To the Wonder (To the Wonder, 2013) di Terrence Malick

L'amore tra la francese Marina e l'americano Neil vola tra alti e bassi, dal fuoco della passione al gelo dell'incomprensione, dalla grigia Parigi alle luminose praterie dell'Oklahoma, cercando di sopravvivere, senza smarrire la sua direzione. Il cinema di Malick è, da sempre, "solitario" nei toni e radicale nella grammatica e, in quest'ultimo opus, i suoi stilemi arrivano, probabilmente, ai limiti estremi e definitivi. Rifacendosi ai tempi ed alle atmosfere del precedente, e più riuscito, The tree of life, di cui questo To the Wonder appare come una particolare digressione, il Maestro texano rinuncia quasi del tutto ai dialoghi (in favore della consueta voice over) ed alle regole della narrazione tradizionale, regalandoci un unico libero flusso di immagini meravigliose e procedendo per ellissi che spaziano tra l'estasi poetica ed il manierismo autoreferenziale. Intenzionato a raccontarci l'Amore, attraverso le sue naturali stagioni esistenziali, finisce per avvolgerci in una sinfonia corale, e non sempre intonata, tra l'incanto della Natura, che come sempre assiste splendidamente impassibile alle umane miserie, la ricerca della Fede ed il mistero della relazione di coppia, tanto possente quanto fugace. I personaggi, interpretati dal consueto cast sontuoso (Ben Affleck, Olga Kurylenko, Rachel McAdams, Javier Bardem), ondeggiano come pedine inermi nell'inflessibile corrente malickiana, incarnando quel conflitto che è alla base del suo cinema, questa volta declinato in termini uomo-donna e uomo-Dio. Lo sfalsamento tra significante e significato è, stavolta, più evidente in un film esteticamente pregevole ma meno ispirato del solito, che, muovendosi tra magia e disagio, sa di propaggine esasperata, e quindi ripetitiva, di cose già dette, e meglio, dal grande regista americano.

Voto:
voto: 3,5/5

Lei (Her, 2013) di Spike Jonze

Theodore è un uomo solo e sensibile, che cerca di riprendersi dalla separazione dalla moglie e che trascorre il suo tempo tra fugaci amicizie femminili ed un lavoro creativo quanto stravagante, che gli consente di esprimere il suo prepotente lato sentimentale, quasi sempre tenuto a freno: la scrittura via internet di lettere personali per conto di altre persone. Ma la sua routine sarà interrotta dal folgorante incontro con Samantha, un software intelligente che si adatta alla personalità dell'utente, che parla con la voce sensuale di Scarlett Johansson e che finirà per governare molto più del suo computer. Il rapporto uomo-tecnologia ha sempre interessato il cinema ed ha fornito enormi spunti ispiratori, dando vita a capolavori, già nel periodo delle origini, come Tempi moderni di Chaplin o Metropolis di Lang, passando per 2001: Odissea nello spazio di Kubrick, fino ad arrivare alle più moderne e spettacolari istanze dello sci-fi che, ormai, ne abusano. L'estroso Spike Jonze, da sempre interessato al contrasto tra realtà e finzione, ne realizza un nuovo epigono con questo ammaliante melodramma fantastico, dando vita al suo film migliore per compiutezza tematica e maturità espressiva. Stilisticamente raffinato, tra ambienti asettici quanto colorati e suggestivi e scorci urbani splendidamente fotograti, il regista ci conduce in un futuro prossimo di inquietante omologazione, dove la solitudine metropolitana contrasta con la totale immersione nell'universo hi-tech attraverso la più disparata gamma di orpelli tecnologici che consentono la costante presenza on-line e la continua connessione con il proprio altrove. Un altrove esistenziale e sentimentale, in questo caso idealizzato dal conturbante sistema operativo Samantha, con cui il protagonista inizierà una vera e propria relazione, particolare ed intensa, delicata e struggente, virtuale nella forma ma non nella sostanza. Ma stavolta, più che critica, c'è una bonaria complicità, da parte del regista, verso il mondo tecnologico, di cui Samantha rappresenta il modello archetipo, l'ultima frontiera, lo Zen supremo e, soprattutto, lo specchio fedele delle emozioni e dei desideri dell'uomo del nuovo millennio (o 2.0, per usare un linguaggio confacente alla tematica). Superando la classica dicotomia tra spirito e materia, propria delle storie di questo tipo, Jonze ricorre ad un'espediente affatto nuovo (la "macchina" che evolve verso comportamenti umani) per analizzare, metaforicamente, la parabola dell'amore attraverso le sue fasi tipiche: esaltazione, passione, complicità, adattamento, compromesso, commiato. Dal rapporto uomo-macchina entrambi i protagonisti attingeranno, cambiando, in una sorta di simbiosi empatica tra biologia ed elettronica, che guarda al misticismo spirituale new age, ma con composta delicatezza espressiva che si esalta nell'evocativa immagine finale, che è il trionfo dell'umano, smarrimento compreso. Ma il film ci parla anche della difficoltà dei rapporti di relazione tra entità intelligenti e senzienti, il cui limite evidente sta nella tendenza (umana) di ridurre gli stessi in funzione di ristrette esigenze individuali, piuttosto che ambire ad una visione universale, simboleggiata dal sentimento "collettivo" verso cui evolve Samantha, risolvendo l'ansia del presente e la paura del futuro in una nuova consapevolezza del sè, sovrumana e trascendente. Bravi tutti gli attori del cast, e, se la Johansson è la voce del film, l'eclettico Joaquin Phoenix ne è il volto, perennemente in scena e perennemente in primo piano, che riesce a trasmettere le sue emozioni tramite una vasta gamma di espressioni, ponendo spesso l'accento sui silenzi e sulla capacità di ascoltare, una nobile dote sempre più rara in un mondo veloce e indifferente. E' stato premiato con l'Oscar alla sceneggiatura originale, scritta dal regista stesso dopo le proficue collaborazioni con Charlie Kaufman.

Voto:
voto: 4/5

Under the Skin (Under the Skin, 2013) di Jonathan Glazer

Un essere alieno s'impossessa del corpo di una giovane donna, assumendone le sembianze, e ne utilizza la carica erotica per adescare uomini, catturarli e precipitarli in una misteriosa prigione amniotica, strappandoli dalle loro vite. Sfruttando al massimo l'avvenenza della diva del momento, una Scarlett Johansson mai così "generosa", Jonathan Glazer ha adattato il romanzo di Michel Faber per trarne un film di fantascienza algido, straniante, silenzioso, interamente costruito sulle atmosfere e che rinuncia ad ogni spiegazione. Opera rarefatta ed inquietante, non priva di pretenzioso intellettualismo, si basa totalmente sull'occhio, la potenza della visione, tenendo da parte cervello e cuore. L'avida cacciatrice interpretata dalla Johansson è fredda, distante, impassibile, priva di morale e di sentimenti: fà quello che deve fare con puntigliosa meticolosità perchè è la sua natura, come lo xenomorfo di Ridley Scott. Ma se la prima parte del film si assesta tra L'invasione degli ultracorpi e Species – Specie mortale, con il valore aggiunto di un approccio minimalista ed asettico fondato sul simbolismo onirico più che sulla bieca esplicitazione, la seconda prende la deriva di un'ingenua parabola sulla natura umana allorquando l'aliena, dopo aver provato un moto di pietà verso un "freak" degno di "Elephant man", viene attratta dalla specie che sta depredando e cerca di abbracciarne le sensazioni, finendo per condividerne il destino. In una Scozia gelida e cupa, Glazer ci mostra un'umanità inerte ed inerme, sospesa tra abissi di solitudine e silente disperazione, la cui inevitabile imperfezione si rivelerà più letale della cacciatrice aliena, finendo per sporcarne definitivamente la pur agghiacciante "purezza". La ricercata astrazione alla base del progetto ne fa un film diverso, sicuramente dissonante rispetto all'attuale omologazione del genere sci-fi, che trova i suoi momenti migliori nelle ammalianti sequenze della "prigione" onirica in cui l'aliena conduce le sue vittime, ma questo non basta a sostenere degnamente una storia esile e, tantomeno, la maldestra svolta narrativa sull'evoluzione del personaggio principale. Ammaliante ed imperfetto, è un lungo flusso di immagini, di luoghi e di corpi che ambisce ad uno status autoriale senza mai raggiungerne la piena densità, perchè si sofferma sulla patina senza mai scavare ... sotto la pelle.

Voto:
voto: 3/5

Halloween - La notte delle streghe (Halloween, 1978) di John Carpenter

La notte del 31 ottobre 1963, in un piccolo paese dell'Illinois, il piccolo Michael Myers uccide barbaramente la sorella con un coltello da cucina. Dopo quindici anni, nella stessa notte, fugge dal manicomio criminale dove era stato rinchiuso e torna nel suo paese natale per compiere un massacro. Horror indipendente a basso budget rimasto nell'immaginario collettivo per aver creato l'icona horror Michael Myers (serial killer feroce, gigantesco e silenzioso che indossa sempre una maschera), per l'accattivante colonna sonora (composta dal regista stesso) e per il perfetto meccanismo di costruzione della suspense che gioca con i nervi dello spettatore come il gatto col topo. E' il padre indiscusso del genere slasher, ovvero quel tipo di horror in un cui un assassino uccide in maniera efferata le sue vittime in un ambiente ristretto, che poi esploderà definitivamente negli anni '80 con le saghe di Venerdì 13 e di Nightmare. Semplice e teso, seminale per il genere horror, rinuncia all'esibizione esplicita della violenza e basa tutta la sua potenza orrorifica sulle atmosfere sinistre, sulle attese silenziose e sui virtuosismi di regia, come il memorabile prologo, ambientato nel '63, che omaggia Alfred Hitchcock e Dario Argento. Vincente ed efficace, per quanto non originale, la scelta di mostrare il punto di vista del killer, attraverso la maschera. Decretò il successo di Carpenter, che poi si affermerà come maestro dell'horror, e diede vita ad un'interminabile serie di seguiti (ben sette) più un prequel/remake firmato da Rob Zombie, anch'esso con relativo sequel. E' una pellicola di culto degli appassionati di horror che vide l'esordio sul grande schermo di una giovane Jamie Lee Curtis nel ruolo della protagonista. Tra i numerosi aneddoti e curiosità relativi a questo film ne ricordo alcuni degni di nota:

- ci sono tantissimi omaggi a Hitchcock, a cominciare dai nomi dei personaggi: Tommy Doyle deriva da La finestra sul cortile mentre Sam Loomis, il celebre dottore per alcuni ispirato a Van Helsing, è preso da Psycho. Un altro dei personaggi si chiama Marion Chambers: Marion era il nome della protagonista di Psycho mentre Chambers era il cognome dello sceriffo sempre nello stesso film.
- Il ruolo del dottor Loomis, poi andato a Donald Pleasence, era stato pensato per Peter Cushing o per Christopher Lee.
- Per l'andatura del personaggio di Meyers, Carpenter si è ispirato al robot interpretato da Yul Brynner nel cult sci-fi Il mondo dei robot.
- La maschera indossata da Michael Myers è quella del Capitano Kirk di Star Trek.
- Il film guardato dai ragazzini in TV è La cosa da un altro mondo di cui Carpenter farà un remake nel 1982.


Voto:
voto: 4/5