domenica 25 dicembre 2022

The Fabelmans (2022) di Steven Spielberg

Nell'America degli anni '50 il piccolo Sammy Fabelman vive nel New Jersey con la sua famiglia borghese: un padre mite costantemente assorbito dal suo lavoro di ingegnere elettronico, proteso verso la costruzione del progresso futuro, una madre passionale ed inquieta, che ha sacrificato una carriera da promettente pianista per crescere i figli, due sorelle e lo "zio" Bennie, migliore amico e collega di suo padre che trascorre tanto tempo con loro e che condivide attivamente tutti i momenti speciali dei Fabelmans. La visione al cinema de Il più grande spettacolo del mondo (The Greatest Show on Earth, 1952) di Cecil B. DeMille, cambierà per sempre la vita di Sammy, facendo nascere in lui una dirompente passione per i film e stimolando quella ruggente vena artistica insita nel suo animo ed ereditata da sua madre. Nonostante la reticenza del padre, che vorrebbe per lui un avvenire più affidabile e sicuro, Sammy, diventato adolescente, inizia a girare dei cortometraggi amatoriali, sceglie come compagna inseparabile una videocamera 8 millimetri e dimostra una sorprendente abilità nella creazione di immagini in movimento, appassionandosi sempre più a tutto il processo che attiene alla realizzazione di un film. I continui traslochi dovuti al lavoro paterno e la dolorosa scoperta che la sua famiglia non è così perfetta e granitica come le apparenze lascerebbero sembrare, provocheranno un profondo turbamento nel giovane Sammy. Uno strappo emotivo che culminerà con la fine dell'innocenza e la presa di coscienza che la vita reale sa essere ben più dura e meno confortante di quella raccontata nei suoi amati film. Tra patemi e ardori, paure e delusioni, il ragazzo troverà sfogo nella sua arte, avviandosi verso un radioso futuro da regista che non potrà essere ostacolato da niente e nessuno. Steven Spielberg ci ha sempre parlato un po' di sè, tra le pieghe nascoste dei suoi grandi film fantastici, spettacolari, carichi di sogni, di avventure e di buoni sentimenti. Il suo lato malinconico, dovuto ad un'infanzia carica di momenti meravigliosi e di sofferenze interiori è sempre stato presente sotto traccia, per coloro capaci di leggere sotto la superficie, lungo l'intero corso della sua straordinaria filmografia. Era quindi praticamente inevitabile che il grande regista americano arrivasse, fatalmente e naturalmente, a girare questo piccolo grande film autobiografico, intimo, nostalgico, fortemente sentito e delicatamente appassionato. Un film in cui racconta sè stesso, la sua famiglia, la sua giovinezza ed il modo in cui è diventato Steven Spielberg, il più grande narratore di "favole" moderne di Hollywood, in bilico tra avventura, azione, incanto e sentimento. L'erede naturale di quel Cecil DeMille che per primo lo lasciò a bocca aperta in un cinema di provincia, facendogli capire quanto grande fosse il potere immaginifico della settima arte. Tutto il cinema spielberghiano ruota, da sempre, anche nelle sue declinazioni più drammatiche e dolorose, intorno al senso di meraviglioso che i film possono suscitare negli spettatori, facendoli tornare bambini, facendoli soffrire e viaggiare con la fantasia, rattristandoli o entusiasmandoli, toccando le corde più intime di atavici sentimenti. E tutti i suoi temi, un tempo dispensati in "pillole" nascoste (persino nei suoi blockbuster più "insospettabili"), diventano, in questo suo ultimo lavoro, gli elementi essenziali e fondanti del racconto: l'incontro-scontro tra tecnologia e poesia, la formazione ebraica, l'enfatizzazione epica dei sentimenti, il mondo dei bambini opposto a quello dei grandi, il potere dei sogni, la ricerca del fantastico che diventa mito, il dolore dei figli per la separazione dei genitori, i nerd silenziosi e geniali bullizzati dagli spacconi muscolosi, il legame quasi indistinguibile tra cinema e vita, e, ancora una volta, la costante tensione spirituale verso il sublime, lo stupefacente, il bisogno del meraviglioso che alberga in ciascuno di noi e che la vita fa di tutto per cancellare, mortificare, calpestare e far passare in oblio. E' una fortuna che l'autore abbia deciso di realizzare questo suo personale "amarcord" in questa fase della sua carriera, illuminata dalla saggezza e mitigata dall'esperienza di un sognatore mai pentito ma, finalmente, sobrio, essenziale, adulto (nell'accezione più positiva del termine). Lo Spielberg di 20 anni fa lo avrebbe, probabilmente, rovinato e sprecato tra picchi di sentimentalismo ed eccessi languidi, finendo per andare fuori controllo in una materia fin troppo delicata e personale. Invece, lo Spielberg attuale, che da tempo ha scelto di allontanarsi dai kolossal faciloni sbanca botteghini, preferendo cullare una vena più intima ed autoriale, è riuscito a farne un'opera deliziosa e di classica misura, in bilico tra tenerezza ed incanto, che si prende tutto il suo tempo per raccontarci, in maniera squisita ed ispiratissima, alternando quadretti buffi a momenti drammatici, il lungo processo di formazione che ha fatto sì che un ragazzo ebreo di Cincinnati riuscisse a diventare il più famoso regista americano dell'età moderna. E' un film morigeratamente accorato che l'autore dedica alla sua famiglia (e a sua madre in particolare), a quei poli opposti rappresentati dai suoi genitori che hanno entrambi formato, con un imprinting profondo, aspetti diversi della sua personalità e della sua arte, sia nei momenti belli sia in quelli dolorosi. Ed è, soprattutto, un film dedicato al Cinema, alla sua capacità fatata di creare sogni, miti, iconografie che attraversano epoche e generazioni, diventando patrimonio emotivo dell'umanità. Proprio come lo sono diventati tutti i grandi capolavori spielberghiani, dagli anni '70 in poi. Tenendo volutamente fuori la Storia, ma rifugiandosi unicamente all'interno del proprio mondo, sia personale che familiare, Spielberg ci regala una lunga serie di sequenze magnifiche, poetiche, di dolcissima concezione e di rarefatta suggestione, stabilendo, forse definitivamente, un solido legame di comprensione emotiva con il suo pubblico, a cui mai si è raccontato prima con tanta sincerità e tenerezza. Impossibile non citare espressamente, nel lungo flusso del racconto autobiograficamente romanzato, la scena iniziale nel cinema, la danza nella luce dei fari della madre Mitzi o la struggente sequenza centrale del montaggio (climax della pellicola ed emblematica sovrapposizione tra arte e vita), in cui il giovane Sammy scopre una "terribile" verità, proprio grazie allo strumento più potente e paradigmatico del lavoro di un cineasta (capace di "modificare" il tempo e di trasfigurare la "realtà" sullo schermo). Nel cast, diretto in maniera eccellente, sono tutti bravi e "giusti": da Michelle Williams a Paul Dano, da Seth Rogen a Gabriel LaBelle, da Jeannie Berlin a Julia Butters, con una menzione speciale per la Williams, che incarna con la giusta dose di soavità e sregolatezza il personaggio più complesso e sfaccettato: la madre Mitzi. Immancabili le musiche, come al solito efficaci, del fidato ed eterno collaboratore di una vita, il grande John Williams, che ha espressamente dichiarato di volersi ritirare, dopo questo film, dalla sua lunga attività di compositore di colonne sonore, per dedicarsi unicamente a quella di concertista. Resta da vedere se ci riuscirà, perchè sicuramente il suo amico Spielberg non sarà affatto d'accordo. E da citare ancora l'impagabile cameo del regista di culto David Lynch, che fa (a modo suo) una breve ma indimenticabile apparizione nel ruolo del leggendario John Ford, il più importante creatore di miti del cinema americano, dal cui incontro il giovane Fabelman-Spielberg seppe trarre nuova linfa per alimentare il suo sogno ed incamminarsi verso grandi orizzonti di vita e di carriera. Orizzonti di cinema spielberghiano che hanno travalicato il tempo ed i grandi mutamenti sociali, e che sono diventati, in una ideale condivisione emozionale, parte integrante della nostra cultura popolare.

Voto:
voto: 4,5/5

martedì 16 agosto 2022

Elvis (2022) di Baz Luhrmann

Vita e carriera, grandi trionfi e amaro declino del leggendario "Re del Rock&Roll", Elvis Aaron Presley, cresciuto povero in un umile ghetto di afroamericani della Louisiana rurale, che fu però decisivo per il suo imprinting musicale: tra gospel e blues, country e jazz. Bianco di pelle ma dall'anima decisamente "black" per affinità elettive, il giovane Elvis apparve come un fulmine sulla scena musicale americana degli anni '50 e, con l'aiuto decisivo del suo mentore ed impresario tuttofare, il controverso colonnello Tom Parker (per molti un truffatore affabulatore, per altri un lungimirante genio degli affari, la verità probabilmente sta nel mezzo), esplose travolgendo tutto con la sua verve scatenata, il suo stile sensualmente audace, la sua innata vena provocatoria, la sua voce suadente e la sua musica decisamente nuova e trascinante nel suo ardito mix di diverse influenze. In breve il mito di Elvis si diffuse su scala mondiale: divo del rock, simbolo di ribellione, icona di stile che fece proseliti e vantò una enorme schiera di imitatori ad ogni latitudine. Adorato dalle donne e dalle folle di giovani che vedevano in lui un esempio tangibile di cambiamento sociale e culturale, il nostro vendette milioni di dischi, guadagnò una fortuna, creò un'iconografia che resiste ancora oggi, ma finì schiacciato dal peso del suo enorme successo e dalla difficoltà di far coesistere il suo mito con la sua personalità di ragazzo semplice e sentimentale del profondo Sud. Il film si sofferma principalmente sul lato umano di Elvis e sui rapporti emotivi che ne hanno segnato l'esistenza: con la madre, con il padre, con la moglie, con la figlia e, principalmente, con il suo manager (il colonnello Parker), che fa da voce narrante della vicenda e dalla cui prospettiva viene raccontata la storia. Ne vien fuori un biopic musicale sfaccettato e sfavillante, lungo e dinamico, un po' melodramma ed un po' parabola metaforica dal retrogusto amaro sull'ossessione tutta americana del self made man. Ad un certo livello, e per quasi tutta la sua prima metà, è un film stupefacente ed entusiasmante, un rutilante rush in pieno stile Luhrmann che sa essere, al tempo stesso e con sapiente efficacia, circo e favola, carosello e dramma, mirabilia e decadenza, tripudio e sconfitta, sogno e morte. Forse per la prima volta il talentuoso regista australiano riesce a conciliare, a tali livelli espressivi, la sua estetica del mirabolante con un'anima drammaturgica secca e perentoria, mai troppo seriosa o didascalica, a parte qualche leggero scivolone nella retorica sentimentale riscontrabile nella parte finale. Ma non c'è dubbio che questo sia il suo film migliore, una felice sovrapposizione tra la parabola umana di Elvis e quella storico-sociale americana, con la notevole intuizione di scegliere il punto di vista del "villain": l'ambiguo colonnello Parker. Ed è bello prendere atto che questo Elvis targato Luhrmann sappia essere molte cose insieme con agile disinvoltura, proprio alla maniera del personaggio protagonista: una clamorosa lezione di virtuosismo stilistico, tra dolly spericolati e split screen polisemantici; un esempio spudorato di montaggio audace in cui le immagini si sposano perfettamente con il livello emotivo; un melò familiare sulla potenza delle radici e sul dolore della perdita; un sottile apologo politico su quei tumultuosi anni di violente ribellioni e sofferti cambiamenti; un trattato sapiente sulla valenza erotica, trasgressiva e furiosa del Rock&Roll; una metafora sapida sul lato oscuro del Sogno Americano e sulla sua inevitabile caducità. Al netto di qualche passaggio lezioso e di qualche omissione di troppo sul dark side del "super eroe" Elvis, peccati veniali in un'opera compatta, abbacinante e di altissimo livello, questo film conquista, travolge e convince. Nel cast sontuoso che annovera Austin Butler, Tom Hanks, Olivia DeJonge, Helen Thomson, Richard Roxburgh, Kelvin Harrison Jr. e David Wenham, spiccano i due protagonisti Butler (sorprendente, intenso e trascinante) ed Hanks (indubbiamente bravo in un ruolo per lui atipico, ma un po' troppo appesantito dall'eccessivo trucco prostetico che ne limita la carica espressiva). Da incorniciare la scena emblematica della giostra che si ferma: è, sia di forma che di fatto, la quintessenza dell'estetica di Baz Luhrmann.

Voto:
voto: 4/5

domenica 7 agosto 2022

Tredici vite (Thirteen Lives, 2022) di Ron Howard

Thailandia, giugno 2018. Dodici adolescenti che militano in una squadra di calcio locale rimangono intrappolati, insieme al loro allenatore, nelle grotte di Tham Luang, che si allagano improvvisamente poco dopo il loro ingresso a causa delle massicce piogge monsoniche. Bloccati all'interno di una camera rocciosa distante diversi chilometri dall'entrata, con poca aria e senza cibo, i ragazzi si fanno coraggio e cercano di resistere grazie alla forza di spirito che gli viene infusa dal loro coach. Il tragico evento assume ben presto risonanza mondiale, attirando sul sito giornalisti, volontari e curiosi che si uniscono al dolore dei parenti nel tentativo di dare una mano. Un gruppo di esperti sommozzatori speleologi inglesi riuscirà per primo a raggiungere i dispersi dopo una lunga e pericolosa immersione attraverso stretti cunicoli, resa ancora più complicata dalla forza delle correnti dovute all'acqua piovana che continua a penetrare nelle grotte attraverso la montagna. Mentre i giorni passano veloci e il temporale concede una momentanea pausa, il vero problema diventa quello di portare fuori i ragazzi, attraverso un percorso lungo e spaventoso che mette a dura prova anche i subacquei più abili. Questo avvincente dramma di azione tratto da una storia vera, prodotto dalla MGM, scritto da William Nicholson e diretto con tocco sapiente da Ron Howard, è un bel film di avventure subacquee (probabilmente poco adatto a coloro che soffrono di claustrofobia), che celebra, senza enfasi ma con appassionata partecipazione, quegli eroi e quei coraggiosi volontari che, nel luglio 2018, riuscirono in un'impresa disperata, rischiando le loro vite per salvarne 13 (come recitato suggestivamente dal titolo). Il famoso e prolifico regista americano, troppo spesso invischiato in imbarazzanti blockbuster fracassoni, realizza uno dei suoi film migliori, dimostrando finalmente un giusto senso della misura in questo felice connubio tra tensione drammatica, spettacolarità visiva, suspense strisciante, impegno civile, partecipazione umanitaria e rievocazione veemente. Il tutto senza mai eccedere in retorica, ma con un registro stilistico sobrio, secco e teso, quasi dirigendo "alla Clint Eastwood", per regalarci un'opera convincente, impegnativa ed impegnata, che sa andare dritta al cuore della questione: la dedizione e l'altruismo che talvolta emerge in situazioni estreme, mettendo in mostra il meglio della natura umana. Da lodare l'intera squadra di attori (Viggo Mortensen, Colin Farrell, Joel Edgerton, Tom Bateman, Paul Gleeson, Teeradon Supapunpinyo, Sahajak Boonthanakit), tutti calibrati, efficaci e con la faccia giusta nel rispettivo ruolo. Un ulteriore merito, non da poco, da attribuire a regista e sceneggiatore, è quello di aver saputo rendere emotivamente coinvolgente un film il cui finale era già noto in partenza, essendo ispirato ad un celebre fatto di cronaca di cui all'epoca si è molto parlato in tutto il mondo. 
 
Voto:
voto: 3,5/5

sabato 2 luglio 2022

Men (2022) di Alex Garland

Per riprendersi da una traumatica crisi coniugale, sfociata in tragedia con il suicidio di suo marito James dopo che lei gli aveva comunicato la sua intenzione di divorziare, la giovane Harper decide di trascorrere un periodo di auto-isolamento, affittando una magnifica villa nella remota campagna inglese. Lo stravagante padrone di casa, Geoffrey, è solo il primo di una serie di strani incontri che Harper farà una volta giunta in loco. Gli abitanti del piccolo paesino rurale sembrano avere qualcosa di sinistro, oltre che assomigliare tutti a Geoffrey. La comparsa di uno stalker che va in giro completamente nudo ed ha il corpo pieno di ferite, farà piombare la ragazza in un incubo allucinante. Questo horror britannico, scritto e diretto da Alex Garland, ha fatto immediatamente parlare di sè fin dalle prime proiezioni, grazie alle voci secondo cui molti spettatori di diverse città sarebbero addirittura fuggiti, atterriti, dalle sale. Come si sa tutto questo è, inevitabilmente, un richiamo pubblicitario irresistibile per i film dell'orrore, che ottiene puntualmente l'effetto di attirare il pubblico, solleticandone morbosamente la curiosità. Viene da pensare che queste dicerie nate intorno al terzo lungometraggio di Garland, siano state orchestrate ad arte per promuoverlo commercialmente. Trattasi, invero, di un horror onirico psicologico, con evidenti ambizioni allegoriche ed un marcato simbolismo gotico mitologico che allude al panismo, molto riuscito nella prima parte preparatoria, in cui risulta incisivo, affascinante, sottilmente inquietante e visivamente magnifico, grazie alla suggestiva fotografia dai colori saturati ed alla malinconica bellezza delle location boschive del countryside inglese. Anche gli attori sono bravissimi, dall'intensa Jessie Buckley, interprete irlandese di sicuro avvenire, al trasformista Rory Kinnear, che presta volto e corpo ad una pletora di personaggi diversi, muovendosi costantemente sul filo dell'eccesso. L'inequivocabile impianto metaforico dell'opera, che intende parlarci di sensi di colpa, traumi esistenziali e, soprattutto, dell'eterna "battaglia tra i sessi", stavolta declinata attraverso la rappresentazione delle più disparate forme di velenoso maschilismo, collocano il film sopra la media dei suoi simili, in quella fascia dei così detti horror "impegnati" che negli ultimi anni stanno sempre più prendendo piede sulla scia di registi come Jordan Peele. Peccato però che la seconda parte della pellicola perda colpi ed inciampi in un accumulo esagerato di sequenze shock un po' troppo artificiose: in particolare quella dell'epilogo, concettualmente interessante ma spiattellata con enfasi così truce da risultare parossistica, grottesca e sul filo del ridicolo involontario. Più che le due scene di efferato impatto visivo, il momento topico che resterà di questo allucinato apologo sulla misoginia è l'episodio del tunnel: magico ed angosciante nello stesso tempo.

Voto:
voto: 3/5

lunedì 27 giugno 2022

Pleasure (2021) di Ninja Thyberg

La giovane Linnéa, bella biondina svedese di 19 anni, lascia la sua terra e parte alla volta di Los Angeles con l'intento di realizzare a tutti i costi il suo desiderio: diventare una pornostar di successo. Il suo impatto con l'industria americana dell'intrattenimento per adulti non sarà però come si aspettava e ciò metterà a dura prova la resilienza della ragazza: tra umiliazioni psico fisiche, cinica mercificazione del suo corpo, violenza morale, compromessi di ogni tipo, abusi resi "legittimi" da espliciti contratti di auto-accettazione, sadico cinismo e maschilismo imperante. In un mondo dominato dai maschi, in cui tutto è permesso in nome di profitto e voyeurismo, Linnéa dovrà decidere se accettare di prestarsi a prestazioni erotiche sempre più estreme e perverse, pur di entrare nella scuderia "privilegiata" di Mark Spiegler, il più potente e famoso agente di pornodive, colui che sembra possedere le chiavi del successo necessario a realizzare il grande sogno americano a cui la nostra ambisce. Ottimo esordio registico della svedese Ninja Thyberg, che ha scritto e diretto con brutale realismo questo piccolo grande film d'autore (mai distribuito e mai doppiato nel nostro paese), che ha ottenuto larghi elogi da parte della critica sia al Festival di Cannes (dove è stato presentato in anteprima) sia al Sundance Film Festival. Interpretato con efficacia da un'altra esordiente, la 24-enne Sofia Kappel, splendida attrice di Stoccolma calatasi con sorprendente mimesi nel difficile ruolo della protagonista Linnéa, Pleasure è uno spietato ritratto, sincero, a tratti disturbante e del tutto privo di fronzoli o di abbellimenti, della milionaria industria della pornografia americana, un mondo sotterraneo regolato da leggi feroci e rigorosamente nelle mani di una "oligarchia" maschile, che impone la propria visione della donna come oggetto sessuale regalando al (numeroso) pubblico esattamente quello che desidera guardare (anzi spiare), protetto dall'ipocrita anonimato di un ideale "buco della serratura", oggi incarnato dai diffusi mezzi tecnologici. Al netto di facili moralismi (che il film evita saggiamente di fare) e di patetici predicozzi perbenisti, è arcinoto che il settore della pornografia sia (da sempre) un business molto redditizio grazie alla "complicità" della maggior parte del pubblico di utenti (generalmente maschi occidentali) a cui si rivolge. Si potrebbe anche dire che questa pellicola di aspra denuncia finisca essenzialmente per scoprire "l'acqua calda", perchè è evidente a chiunque possegga un minimo di raziocinio e di cultura che la "recitazione" da parte delle pornodive, pur dietro legittimo consenso ed in cambio di lauti compensi economici, sia una sorta di sfruttamento della "prostituzione" in nome di libero arbitrio, libidine voyeuristica e leggi del business. Ma è altresì del tutto scorretto interpretare questo film (che pure ci offre una sgradevole lettura a base di esplicito realismo del mondo del porno visto dall'interno, attraverso lo sguardo femminile di Linnéa) unicamente come esplorazione dal fine accusatorio dello spietato sistema di affari che sorregge lo showbiz a luci rosse. Quest'opera scomoda, sincera e tagliente è piuttosto una potente allegoria sul lato oscuro e sulle molteplici contraddizioni "immorali" del capitalismo occidentale e del così detto "Sogno Americano" in particolare: intrinsecamente rapace, eticamente ingiusto, ferocemente avido e concettualmente edificato, per la sua stessa intima natura, sulla prevaricazione di uomini a danno di altri uomini. Trattasi, dunque, in nuce ed in metafora, di un film politico che si rivolge idealmente a (e contro) tutti: da chi decide, a chi opera, a chi guarda. L'estrema sincerità della regista si evince da come viene raccontato il rapporto di pseudo "sorellanza" che s'instaura tra le colleghe pornostar (che in teoria dovrebbero essere tutte dalla stessa parte della barricata), evitando così le trappole di un'interpretazione manichea e faziosamente schierata a 360° contro l'universo maschile ed in favore di quello femminile. Il porno è, evidentemente, un "sottobosco" estremo che non fa altro che enfatizzare ed inasprire modi di pensare, comportamenti e dinamiche tra i sessi che invero sussistono in qualunque contesto sociale, dal mondo del lavoro a quello familiare. E in questa selva di ingiustizie, violazioni, prevaricazioni e discriminazioni, è talvolta molto complesso riuscire a definire con nitidezza i ruoli o ripartire le colpe; perchè, spesso, le "vittime" finiscono per confondersi con i "colpevoli", prendendone le parti, assorbendone l'ideologia o cavalcandone la tossica aggressività. Il finale aperto, e tutto sommato indovinato, sembra lasciare una piccola luce di "speranza" in tanta greve cupezza, e per lo spettatore è una fugace boccata di ossigeno di cui, francamente, c'era bisogno. A parte la protagonista (Sofia Kappel), quasi tutti coloro che appaiono nel film sono veri attori o attrici dell'hardcore, o figure che operano a diversi livelli nel settore come il talent agent Mark Spiegler, nel ruolo di sè stesso.
 
Voto:
voto: 4/5

lunedì 20 giugno 2022

Case 39 (2009) di Christian Alvart

L'assistente sociale Emily Jenkins, single e totalmente dedita al suo delicato lavoro con i minori che vivono situazioni familiari difficili, viene assorbita, anche a livello emotivo personale, dal così detto "caso n. 39", che riguarda la piccola Lillith Sullivan, 10 anni, che soffre a causa di due genitori in apparenza psicotici. Nonostante la diffidenza del suo capo e di un suo fidato collaboratore che lavora nella polizia, Emily prende a cuore la situazione di Lillith, stringe con lei un sincero legame affettivo e riesce a salvarla in extremis da un brutale tentativo di omicidio da parte dei suoi. Grazie alla sua tenacia la donna ottiene l'affidamento temporaneo della bambina e l'accoglie in casa propria con grande entusiasmo. Ma quando strani fenomeni iniziano a susseguirsi, Emily si troverà di fronte ad un arduo dilemma e finirà per mettere in dubbio le sue certezze. Questo horror diretto dal tedesco Christian Alvart, che si avvale di un cast di tutto rispetto che annovera nomi come Renée Zellweger, Ian McShane e Bradley Cooper, è un film dai due volti, che nella prima metà si svolge come un classico dramma socio-familiare con venature da thriller, e poi, dopo la svolta rivelatrice che giunge più o meno a metà, diventa una pellicola di orrore soprannaturale, fortemente aderente ai più tipici canoni e cliché del genere. Senza dubbio la tranche iniziale è da preferire, se non altro per le atmosfere ambigue e minacciose che riesce ad evocare, ma poi tutto si disperde in un accumulo ripetitivo (e derivativo) di cose già viste, di cui lo spettatore smaliziato non farà fatica a prevedere l'evoluzione programmatica. L'unico indiscutibile punto di forza dell'opera (che poi è anche il solo vero motivo valido che ne può giustificare la visione) è la bravura della piccola coprotagonista, la canadese Jodelle Ferland, che mette in riga tutti gli altri membri del cast e ci regala una performance da brividi. Per evitare ogni possibile forma di spoiler sulla trama eviterò attentamente di citare le diverse "fonti di ispirazione" di questo film essenzialmente innocuo, a cui comunque gli spettatori non faticheranno poi troppo per arrivare. Da citare una sequenza di forte impatto che vede protagonista Bradley Cooper e che farà inorridire coloro che soffrono di "sfecsofobia".
 
Voto:
voto: 2,5/5

sabato 18 giugno 2022

Top Gun: Maverick (2022) di Joseph Kosinski

35 anni dopo gli eventi narrati in Top Gun (1986) di Tony Scott, Pete Mitchell, per tutti "Maverick", non è ancora andato in pensione, è diventato "solo" un capitano di vascello della Marina, continua a fregarsene di carriera, regole e ordini dei superiori, ma resta un asso insuperabile alla guida dei jet dell'aeronautica militare, motivo per il quale è divenuto leggendario. Impegnato come collaudatore di un velocissimo prototipo di aereo, viene richiamato in servizio nell'unità scelta chiamata "Top Gun", per addestrare un manipolo di giovani abilissimi piloti che devono eseguire una missione segreta ad altissimo rischio e con scarse probabilità di sopravvivenza: attaccare una base di uno "stato canaglia", dove si accumulano minacciose riserve di uranio, nascosta alla fine di uno stretto canyon naturale, protetta dal fianco di una impervia montagna e difesa da una impressionante serie di missili antiaerei. Nonostante lo scetticismo delle alte sfere e l'innata avversione di "Maverick" a rimanere nei ranghi degli ordini, il grande pilota scavezzacollo sorprenderà tutti nuovamente per la sua abilità, dovrà fare i conti con un doloroso passato mai rimosso e ritroverà sul suo cammino una vecchia conoscenza. Questo sequel inatteso (e da molti ritenuto fuori tempo massimo) del fenomeno generazionale degli anni '80, Top Gun, che per la sua furba miscela esplosiva di azione, romanticismo, avvenenza e testosterone riscosse un enorme successo soprattutto presso il pubblico dei giovani, ha visto la luce ben 10 anni dopo la morte del regista Tony Scott (a cui la pellicola è dedicata), diretto da Joseph Kosinski, prodotto e interpretato dal divo Tom Cruise, che a 60 anni suonati è ancora in forma smagliante per riprendere, con credibile effetto ed evidente entusiasmo, il ruolo dello spericolato "Maverick", che all'epoca lo lanciò definitivamente nell'Olimpo di Hollywood e nel cuore delle teenager. Dopo quasi 35 anni Tom Cruise è ormai una star potente, per molti controverso, per altri antipatico, ma indubbiamente capace di "ingannare il tempo", sfoggiare una forma fisica invidiabile, un appeal mai spento e, soprattutto, di sbancare i botteghini con quasi tutti i film in cui appare. Abbandonate ormai da tempo le ambizioni di sfondare anche nel cinema impegnato d'autore o di puntare ai premi cinematografici, Cruise si è donato anima e corpo al cinema d'azione, di cui è ormai diventato l'icona più popolare e chiacchierata, anche per i suoi vezzi e le sue imprese, che lo vedono impegnato in scene sempre più audaci, che il nostro pretende di girare personalmente e senza ausilio di controfigure. Il grande successo al botteghino ottenuto da questo sequel (da molti inatteso in codesta misura), consolida ulteriormente lo status (e l'ego) di Tom Cruise come stella (e "Re Mida") del blockbuster action made in Hollywood. Al di là delle diffuse antipatie verso il megalomane attore (da cui anche il sottoscritto non è affatto esente), bisogna riconoscere che la sua capacità di "rimanere giovane" e di conservare l'entusiasmo degli esordi ha quasi del miracoloso. E questo Top Gun del 2022, che è una vera e propria agiografia a tutto tondo di Cruise-Maverick, tronfia di retorica a stelle e strisce e sapientemente infarcita da una ruffiana carica di forte effetto nostalgia verso l'originale dell'86, non fa che rimarcare a fuoco questo concetto, già solo osservando gli effetti che il tempo ha lasciato su Val Kilmer (la cui voce è stata irrimediabilmente compromessa da un cancro alla gola) o su Kelly McGillis, che ha preferito rinunciare a riprendere il suo vecchio ruolo e che viene idealmente sostituita (come partner femminile) dalla sempre splendida Jennifer Connelly. E' onestamente difficile prendere sul serio un giocattolone auto-celebrativo di questo tipo, interamente prono al divismo di Cruise, ma, nel contempo, sarebbe scorretto tacerne la forte carica spettacolare, la bellezza adrenalinica delle sequenze aeree, il ritmo forsennato, la facile godibilità e l'altissimo livello dell'intero apparato tecnico (a cominciare da montaggio e sonoro). La sequenza più riuscita (e più attesa), anche questa ad altissimo effetto nostalgia, è l'incontro breve, intimo ed intenso, tra i due antichi rivali: "Maverick" e "Iceman". Il regista Joseph Kosinski, che pure ha dimostrato un grande talento visionario nello stupefacente Tron: Legacy (Tron, 2010), dirige con buona lena e senza strafare, quasi usando il "pilota automatico". Anch'egli, forse, "al servizio" della troppo ingombrante star Tom Cruise.

Voto:
voto: 2,5/5

Malignant (2021) di James Wan

La giovane Madison ha un passato oscuro legato alla sua traumatica infanzia, una sorella amorevole di nome Sydney, un marito balordo alcolizzato che la maltratta ed una serie di gravidanze fallite che non è mai riuscita a portare a termine. Quando inizia una catena di efferati omicidi commessi da un assassino misterioso e inafferrabile, Madison ha delle angoscianti visioni, incredibilmente realistiche, in cui "assiste" ai crimini del "mostro", al quale si sente psichicamente collegata. Così dai ricordi che ha faticosamente cercato di rimuovere, riemergono terribili immagini legate ad un ospedale psichiatrico ed a Gabriel, il suo amico immaginario dell'età infantile, che sembra essere proprio il killer sanguinario che terrorizza l'intera città. Mentre la polizia indaga e non crede alla sua incredibile storia, Madison diventa la sospettata numero uno dei delitti del "mostro". Ma chi è in realtà Gabriel? L'undicesimo lungometraggio del malese naturalizzato australiano James Wan, divenuto famoso per horror di grande successo popolare come Saw - L'enigmista (Saw, 2004) e L'evocazione - The Conjuring (The Conjuring, 2013), o per blockbuster hollywoodiani quali Fast & Furious 7 (Furious 7, 2015) e Aquaman (2018), è un horror raccapricciante che si colloca tra il thriller psicologico, gli slasher anni '80, il giallo di tensione ed i film di paura sui "mostri" che emergono dal buio. Nato da un'idea del regista e scritto da Akela Cooper, risulta molto efficace nella prima parte e riesce a sorprendere con discreta originalità e con inquietante spavento nel momento topico in cui si svela l'identità (e la natura) dell'assassino misterioso chiamato Gabriel. Ma poi, nel lungo segmento finale, la pellicola si sfilaccia, si ingolfa, deborda, assume connotati di maldestra esagerazione e finisce in pericoloso bilico tra lo splatter esagitato ed il ridicolo involontario. Contiene una lunga serie di citazioni al cinema di genere italiano degli anni '70 (Dario Argento, Mario Bava e relativi epigoni), agli psico-thriller di Brian De Palma e al body-horror di David Cronenberg, senza dimenticare il misconosciuto "B-movie" Basket Case (1982) di Frank Henenlotter, che è stato, probabilmente, la principale fonte di ispirazione. A parte il buon colpo di scena che idealmente "spezza" il film in due tronconi disomogenei, una sequenza particolarmente riuscita è quella dell'inseguimento notturno ambientato nella Seattle sotterranea, in cui il tempo sembra essersi fermato al XIX secolo. Nel cast appare a suo agio la protagonista Annabelle Wallis, in versione mora, mentre gli altri personaggi sono di mero contorno, a cominciare dall'improbabile strana coppia di sbirri.

Voto:
voto: 2,5/5

King Kong (1976) di John Guillermin

Una spedizione finanziata dalla compagnia petrolifera americana Petrox, parte dall'Indonesia alla ricerca di una fantomatica isola selvaggia dell'Oceano Indiano, perennemente nascosta da un fitto banco di nebbia. Il magnate della multinazionale è convinto che l'isola contenga un enorme giacimento di greggio da sfruttare a suo vantaggio. Sulla nave si aggiungono due imprevisti passeggeri: un paleontologo avventuriero dai nobili ideali, Jack Prescott, ed una bella naufraga di nome Dawn, sopravvissuta miracolosamente all'esplosione di uno yacht. Una volta giunti sull'isola misteriosa gli uomini troveranno incredibili sorprese a cui non erano preparati: una tribù di indigeni ostili che vivono nell'eterna paura del re incontrastato del luogo: un gigantesco gorilla chiamato Kong. I locali rapiscono Dawn per sacrificarla a Kong, sperando così di placarne le ire selvagge, ma il potere della bellezza femminile riuscirà, con effetti imprevisti e tragici, a soggiogare anche la ferocia ancestrale dello spaventoso gorilla. Questo remake "modernizzato" del grande classico della RKO, King Kong (1933) di Merian C. Cooper ed Ernest B. Schoedsack, pietra miliare del cinema fantastico capace di creare un'icona senza tempo, rileggendo in chiave fantasy avventurosa il mito de "la bella e la bestia", è una grande macchina spettacolare prodotta (e fortemente voluta) dal nostro Dino De Laurentiis, scritto da Lorenzo Semple Jr. e diretto con mano sicura dall'inglese John Guillermin, a suo agio con le mega produzioni di genere catastrofico. Possiede tutti i limiti di un prodotto hollywoodiano concepito per il successo commerciale (che difatti ottenne in grande misura), sposta l'azione dal tempo della Grande Depressione agli anni '70 (ovvero all'età contemporanea alla sua uscita), modifica tutti i nomi dei personaggi e parecchie situazioni (la più clamorosa è il "teatro" del leggendario epilogo newyorkese, con le Torri Gemelle che prendono il posto dell'Empire State Building, dove avviene lo scontro finale tra Kong e gli umani che lo hanno strappato dal suo regno per sfruttarlo come fenomeno da baraccone) e sostituisce la valenza onirica dell'impossibile attrazione erotica tra il gorilla e la ragazza con ammiccamenti ben più espliciti, ma inevitabilmente meno affascinanti. Resta comunque un "giocattolone" appassionante, divertente, ben oliato nelle svolte narrative e impreziosito dai magnifici effetti speciali animatronici creati dall'italiano Carlo Rambaldi (e premiati con un Oscar speciale, Special Achievement Award) e dalla presenza scenica di un giovane Jeff Bridges e della splendida esordiente Jessica Lange, bella da fare male (al gorilla ma non solo). Esiste anche una versione "integrale" del film, uscita in DVD negli anni '90, che contiene una lunga serie di scene eliminate dalla directors'cut. Nel 1986 John Guillermin ne ha anche diretto un seguito, King Kong 2 (King Kong Lives), inopportuno e scadente, con cui ha chiuso la sua carriera.
 
Voto:
voto: 3/5