venerdì 28 gennaio 2022

The 355 (2022) di Simon Kinberg

Un militare delle forze speciali colombiane ruba, durante un'incursione nella residenza di un boss del narcotraffico, un micidiale congegno tecnologico ultra-avanzato, capace di violare e di controllare a distanza qualunque tipo di dispositivo elettronico conosciuto, provocando così esplosioni di aerei in volo, blackout elettrici, disconnessioni globali di reti informatiche, manipolazione di dati digitali, crolli dei mercati finanziari in borsa e persino l'attivazione di ordigni di distruzione di massa. Questa terribile super arma fa gola a terroristi, speculatori, faccendieri e uomini di potere di ogni tipo e scatena una caccia senza precedenti e senza esclusione di colpi, in cui si trovano coinvolte quattro donne pronte a tutto: una risoluta agente della CIA ("Mace" Brown), una geniale hacker inglese dell'MI6 (Khadijah), una letale spia tedesca (Marie) e una psicologa colombiana (Graciela). Nonostante le rivalità iniziali e le diverse squadre di appartenenza, le quattro saranno costrette a far fronte comune per contrastare un potente nemico dai molti volti che potrebbe causare un'apocalisse globale se venisse in possesso della diabolica arma hi-tech. Questo spy-movie tutto al femminile, scritto e diretto da Simon Kinberg e rimandato di circa un anno a causa della pandemia di covid-19, è un thriller d'azione all'americana sulla falsa riga dei film di James Bond o di Mission Impossible, con delle tostissime agenti in gonnella assolute protagoniste ed i maschi relegati in ruoli secondari: antagonisti, familiari, villain, colleghi o figure di supporto. Tra inseguimenti spericolati, sparatorie al fulmicotone, lotte corpo a corpo, ambienti lussuosi, location scenografiche, fascino glamour, tradimenti e alleanze, tutto si riduce ad un accumulo convenzionale di esagerazioni spettacolari, colpi di scena prevedibili, situazioni inverosimili ed il solito immancabile fondo di retorica dell'ennesima grossolana messa in scena della lotta tra il bene e il male. Estremamente attento, in accordo al moderno conformismo edificante delle pellicole hollywoodiane, ad alternare protagoniste di razze diverse ed a celebrare con enfasi il "girl power", questo film scialbo e tutto sommato innocuo, vale unicamente per la bravura e la bellezza delle magnifiche attrici (Jessica Chastain, Diane Kruger, Penélope Cruz, Lupita Nyong'o e Bingbing Fan) che illuminano lo schermo e garantiscono un carismatico appeal, ma senza mai andare oltre la patina di un intrattenimento leggero. La Chastain e la Kruger "fanno a botte" (in tutti i sensi) per contendersi la palma della più convincente ed un equo pareggio è praticamente inevitabile. Il titolo (apparentemente enigmatico) è un omaggio al nome in codice ("355") della prima donna spia americana, attiva durante la Rivoluzione delle 13 colonie contro l'Inghilterra ed il cui vero nome è rimasto sempre misterioso.

Voto:
voto: 2,5/5

venerdì 21 gennaio 2022

Il potere del cane (The Power of the Dog, 2021) di Jane Campion

Montana, 1925. I due fratelli Burbank (Phil e George) gestiscono con successo e benessere economico il ranch di famiglia, memori degli insegnamenti ricevuti dal loro mentore, il mandriano Bronco Henri, dal cui ricordo Phil sembra ossessionato. I due uomini sono molto legati ma profondamente diversi: Phil è rozzo, carismatico, dispotico e legato ad una concezione antica, intollerante e brutalmente maschilista di virilità, che esibisce senza mezzi termini con bieco narcisismo. George è mite, sensibile, pingue, gentile nei modi, tollerante nelle idee e ben disposto verso le novità, gli agi e i privilegi portati dal progresso che avanza inesorabilmente anche nei territori selvaggi della vecchia frontiera americana. Quando George sposa la giovane vedova Rose e l'accoglie nella loro casa insieme a suo figlio Peter (un ragazzo esile, efebico e dai modi effeminati, sempre perso nei suoi studi di medicina), Phil inizia a perseguitare i nuovi arrivati, tormentandoli quotidianamente con i suoi atteggiamenti da rude bullo selvatico. Adattando il romanzo omonimo di Thomas Savage, la regista neozelandese Jane Campion ha scritto e diretto con mano sapiente e stile asciutto questo western drammatico anti-retorico e anti-mitologico, dai toni mestamente crepuscolari che contrastano, in una fertile contrapposizione allegorica, con la maestosa bellezza naturalistica degli scenari incontaminati della Nuova Zelanda in cui il film è stato girato, volutamente ritratti assecondando l'epica visiva fordiana, che viene ripetutamente omaggiata in molte sequenze. Egregiamente interpretato da un ottimo cast che annovera Benedict Cumberbatch, Jesse Plemons, Kodi Smit-McPhee e Kirsten Dunst, magnificamente fotografato da Ari Wegner e sulle note evocative della colonna sonora "minimal" di Jonny Greenwood, quest'opera sfuggente, immersiva ed apparentemente enigmatica (a cominciare dal titolo ermetico che è tratto da un versetto del Libro dei Salmi), ci parla nei suoi molti chiaroscuri di relazioni umane, di pulsioni inconfessabili, di erotismo represso, di ideologie atavicamente tossiche, di solitudine profonda, di discriminazioni e manipolazioni, di stolta intolleranza, di machismo e di sadismo, di vittime e carnefici, e di come sia ritenuto tragicamente inammissibile (in certi contesti gretti e ristretti) accettare le proprie o le altrui "fragilità" interiori, in nome di un'idea nociva di mascolinità. Tra luci e ombre, brutalità e sensualità, l'autrice viviseziona abilmente gli aspetti psicologici dei suoi personaggi, in un crescendo drammatico di ribaltamenti e colpi di scena di densa matrice psicoanalitica, che sono assolutamente da non svelare. Perchè è proprio nella sua lacerante ambiguità di fondo che risiede la maggiore bellezza della pellicola, che nel suo incedere sinuoso, reticente, voluttuoso e sottilmente torbido ci consegna un finale intrinsecamente potente che induce vertigini morali e profonde riflessioni sul senso della natura umana, nel suo groviglio soffocato di eros e aggressività. Il cane a cui allude il titolo va ovviamente letto in maniera figurata e consona al contesto biblico da cui è tratta la citazione: un simbolo astratto, famelico e ferino di accezione negativa, caotica, collegabile alla ferocia, all'istinto brado e, metaforicamente, all'inconscio, che è il teatro sommerso dei traumi rimossi e dei desideri negati che delineano la vera natura di un individuo, sotto la maschera indossata nel quotidiano. Carico di immagini perentorie, di atmosfere oscure e di allegorie da leggere in termini di sessualità e psicologia, questo film di impulsi, di segreti, di vendette e di veleni, è stato premiato con il Leone d'Argento per la miglior regia al Festival di Venezia ed ha vinto tre Golden Globe (miglior film, regista e Kodi Smit-McPhee attore non protagonista), in attesa dei prossimi Oscar a cui si presenta come uno dei favoriti principali.

La frase: "Salva l’anima dalla spada, salva il cuore dal potere del cane"

Voto:
voto: 4/5

mercoledì 19 gennaio 2022

The Grey (2011) di Joe Carnahan

Dal racconto "Ghost Walker" di Ian Mackenzie Jeffers, che ha anche scritto la sceneggiatura del film insieme al regista. John Ottway è un cacciatore che lavora in Alaska per conto di una compagnia petrolifera ed ha il compito specifico di difendere i suoi colleghi, durante le escursioni all'aperto, dai numerosi lupi che popolano la zona gelida e impervia dove sorge l'impianto in cui prestano servizio. Uomo ombroso e disilluso, con gravi problemi esistenziali e ricordi dolorosi, Ottway si trova coinvolto in una terribile disavventura: durante il viaggio di ritorno a casa il loro aeroplano precipita tra i ghiacci della tundra e gli otto superstiti, da lui guidati, si trovano a dover combattere contro il freddo, la fame, l'ambiente ostile, la situazione estrema ed un branco di grossi lupi famelici che non gli dà tregua. Questo cupo thriller drammatico di Joe Carnahan, interpretato egregiamente da un tormentato Liam Neeson, è un survival movie appassionante, carico di violenza brutale, angoscia interiore e suspense tagliente. Al netto di qualche eccesso effettistico è un film avvincente e disperato, che mette in scena, con cruda energia, l'ancestrale lotta di sopravvivenza tra l'uomo e la natura, utilizzando abilmente la forza viscerale di elementi archetipali come il buio, il freddo e il lupo. L'opera possiede una potente fascinazione torbida e sommessa che l'avvolge fin dalla prima scena e trova i suoi momenti di forza non solo nelle scene d'azione (che si avvalgono degli ottimi effetti speciali realizzati dall'esperto Greg Nicotero), ma anche nei dialoghi all'insegna di un sincero cameratismo, che approfondiscono la psicologia dei personaggi principali. Tragicamente memorabile la scena che vede coinvolti il personaggio di Jerome Talget (Dermot Mulroney) e le immagini evocate dai ricordi della sua dolce piccola figlia. Completano il cast Frank Grillo, Dallas Roberts e Joe Anderson. Un consiglio: attendere, con la dovuta pazienza, la fine dei titoli di coda.

La frase: "Ancora una volta nella mischia. Nell'ultima vera battaglia che affronterò. Vivi e muori in questo giorno. Vivi e muori in questo giorno."

Voto:
voto: 3,5/5

Scream (2022) di Matt Bettinelli-Olpin, Tyler Gillett

Woodsboro, ci risiamo. Dieci anni dopo gli eventi del quarto capitolo della saga (l'ultimo diretto dal suo creatore Wes Craven) e a 25 anni di distanza dal mirabolante primo episodio (che sconvolse e rinvigorì di nuova linfa sarcastica le rigide regole del genere horror-slasher), un serial killer mascherato da Ghostface torna a mietere vittime nella cittadina californiana, ormai indissolubilmente legata alle sue efferate azioni, tramandate nel tempo e idolatrate dai giovani fans deliranti attraverso romanzi, racconti e una serie cinematografica ("Stab") che vanta un numero incredibile di nuovi seguiti sempre più insulsi. In questo scenario si reinnesca lo schema di sempre: una voce misteriosa (e contraffatta) che telefona alle giovani vittime e le interroga sui film horror preferiti prima di aggredirle e ucciderle a colpi di coltello. La giovane Samantha Carpenter, fuggita via anni prima da Woodsboro a causa di drammi familiari che le hanno fatto rompere ogni legame con i suoi, è costretta a tornare nella sua città di origine in seguito ai delittuosi eventi, che hanno coinvolto anche la sua sorella minore, Tara. Il ritorno di Samantha, che nasconde un oscuro segreto collegato al sanguinoso passato di Woodsboro, dà il via ad un nuovo massacro da parte del redivivo Ghostface, la cui identità, come suggerito dagli esperti in materia, si nasconde "sicuramente" nel gruppo di giovani amici di Tara. Nella complessa indagine saranno ovviamente coinvolti anche gli eroi del passato: la "final girl" Sidney Prescott (che da anni si è trasferito a Chicago), la cronista d'assalto Gale Weathers e l'ex sceriffo Linus Riley, che aveva deciso di ritirarsi dal giro. Quinto capitolo della celebre saga di Scream, il primo realizzato dopo la morte del creatore Wes Craven (a cui il film è espressamente dedicato), che, essendo scomparso nel 2015, non è riuscito a dare alcun contributo in merito e infatti compare nei crediti unicamente come autore del soggetto originario. Prodotto da Kevin Williamson (che aveva sceneggiato tutti gli episodi precedenti), scritto da James Vanderbilt e Guy Busick, e diretto dalla coppia di giovani registi Matt Bettinelli-Olpin e Tyler Gillett, questo ennesimo revival delle criminose azioni di Ghostface è uno slasher violento, scattante e nostalgico che guarda smaccatamente al passato, con fierezza e goliardia, a cominciare dal titolo emblematico che non è Scream 5 ma Scream, ovvero il medesimo del capitolo originale del 1996. Come viene chiaramente detto negli stessi dialoghi del film, sempre all'insegna di una irriverente ironia nera che gioca spudoratamente con il metacinema, le citazioni e prende in giro il genere horror, i suoi stereotipi, il cinema hollywoodiano e la stessa saga di Scream (mescolando continuamente i livelli tra realtà e finzione), trattasi di "requel", ovvero un misto tra un sequel, un remake (del primo episodio) ed un reboot (della serie). Divertente ma per nulla originale, dato che questi elementi sono stati già ampiamente abusati nelle quattro pellicole precedenti, raggiungendo l'apice in quella del 2011, l'ultima regia di Craven, la cui mancanza si vede e si sente tutta. Stavolta la sensazione di già visto emerge prepotentemente e (quasi) tutto va esattamente come ci si aspetta, nonostante il tentativo di rivitalizzare il franchise con l'aggiunta di nuove giovani protagoniste (tra cui citiamo Melissa Barrera e Jenna Ortega), che si affiancano agli immarcescibili vecchi personaggi interpretati da Neve Campbell, Courteney Cox, David Arquette e Marley Shelton. La chiara scelta registica di relegare i protagonisti del passato in un ruolo secondario rispetto ai nuovi, lascia supporre un potenziale passaggio di testimone per un futuro prosieguo, anche alla luce dei buoni incassi di questo quinto episodio e del successo della serie televisiva ispirata alla saga. Ma, valutando esclusivamente il valore artistico di questo "requel", che non aggiunge nulla di nuovo a quanto già visto e non va oltre il puro divertissement per gli appassionati nostalgici di Ghostface, non c'è da essere particolarmente ottimisti in merito. Una gustosa chicca è l'esplicita "ammissione" dei debiti di Scream nei confronti di Halloween (1978) di John Carpenter e, non a caso, il cognome dato alla protagonista, Samantha detta "Sam", è proprio quello del grande maestro del genere horror.

La frase: "Sta succedendo di nuovo"

Voto:
voto: 2,5/5

martedì 18 gennaio 2022

Tre piani (2021) di Nanni Moretti

Tre piani di un palazzo signorile sul Lungotevere nel quartiere romano di Prati. Tre famiglie borghesi che vi abitano e le cui vicende si sovrappongono in percorsi di vita dolorosi e complicati. Tre atti narrativi e tre tempi separati da una distanza di 5 anni l'uno dall'altro. L'ultimo film di Nanni Moretti, da lui scritto insieme a Federica Pontremoli e Valia Santella, è l'adattamento del romanzo omonimo dell'israeliano Eshkol Nevo, con l'azione spostata da Tel Aviv a Roma, ed è la prima volta che il regista altoatesino, ma romano di adozione, dirige una pellicola tratta da un soggetto non suo. In questo film austero e corale si alternano le storie drammatiche di tre nuclei familiari che abitano in piani diversi del medesimo edificio. Lucio e Sara, giovani professionisti sempre impegnati, affidano abitualmente la loro piccola figlia ai vicini anziani, Giovanna e Renato. Fino a quando Renato, afflitto da una grave forma di demenza senile, scompare con la bambina per molte ore, innescando un atroce sospetto nell'impulsivo Lucio. L'ombrosa Monica ha una figlia neonata e un marito sempre assente per lavoro, soffre di ansia e di solitudine e "vede" un corvo nero che ne accompagna le malinconiche giornate. Dora e Vittorio, maturi magistrati che hanno vissuto all'insegna del rigore inflessibile, hanno un figlio ventenne tormentato e ribelle, Andrea, che investe ed uccide una passante mentre è ubriaco alla guida della sua auto. Vittorio, che non ne ha mai tollerato i comportamenti difformi dalla sua rigida etica esistenziale, decide di abbandonarlo al corso della giustizia, perchè sconti appieno la sua pena e paghi la sua colpa. Il 13° lungometraggio di Nanni Moretti regista, presentato in concorso al Festival di Cannes, è un asciutto dramma familiare intenso e tragico, totalmente privo di ironia e di evasioni grottesche, sorprendentemente apolitico (a parte una fugace "irruzione" un po' forzata che avviene nella seconda parte), concettualmente vicino (ma meno riuscito, meno rigoroso e meno brillante) alla sua pluripremiata opera del 2001, La stanza del figlio. Ha diviso la critica ed i fans dell'autore per il suo essere poco "morettiano", e quindi spiazzante, ambiguo, di non facile decifrazione, oltre che duramente serioso. Eppure, al netto di qualche ridondanza e di qualche passaggio a vuoto, è un film secco e incisivo sull'inerzia della borghesia, sulla crisi dei valori, sulla decadenza dei costumi, sui fallimenti esistenziali; un film che affronta con lucidità impietosa tematiche scottanti come la difficoltà delle relazioni umane, i sensi di colpa, i disastri genitoriali, le ossessioni psicologiche, la solitudine profonda ed i drammatici lasciti spirituali dei padri per i figli. E proprio il rapporto con i figli è il cuore intimo dell'opera, mettendo al centro la dinamica attraverso cui le azioni dei genitori si riflettano (prima o poi) inesorabilmente sulla vita dei loro discendenti diretti, in una sorta di effetto farfalla di crudele inevitabilità. Ma non abbiamo a che fare con una pellicola ideologicamente vecchia, pesante o bacchettona, come alcuni hanno invece vaneggiato, perchè il regista si dimostra ampiamente critico e disincantato verso la sua generazione (e in particolar modo verso il suo personaggio, il giudice Vittorio, al quale riserva una emblematica, e probabilmente auto-significativa, uscita di scena). E, non a caso, tutti i figli vengono tratteggiati come più saggi, più svegli, più pratici, più sensibili e più vicini alla realtà delle cose dei rispettivi genitori. Proprio in questo, oltre che nel senso del fotogramma finale, il cui climax viene ben preparato dalla surreale sequenza (questa sì decisamente "morettiana") del tango collettivo in strada, risiede un'ariosa luce di apertura verso il futuro (e verso i giovani), che spezza il cupo velo del pessimismo che pervade gran parte dell'opera. La metafora, presente nel romanzo ispiratore, dei tre piani come i tre aspetti psicoanalitici della personalità umana secondo Freud (Es, Io e Super Io), è traslata pedissequamente nel film ed è evidentemente riconducibile ai personaggi di Riccardo Scamarcio (Es), Alba Rohrwacher (Io) e Nanni Moretti (Super Io). Nel cast, in cui la recitazione generalmente "robotica" è chiaramente attribuile ad una precisa scelta stilistica, funzionale al tono asettico che l'autore voleva infondere al racconto, i più convincenti sono Margherita Buy e la giovane Denise Tantucci: donne fragili, problematiche, irrisolte, ma anche a tratti radiose e sempre straordinariamente vitali. La mancata vittoria della Palma d'Oro a Cannes, che molti auspicavano alla luce dell'ottimo feeling che sussiste da tempo tra Nanni Moretti ed i critici francesi, e la conseguente pubblica reazione del regista di fronte al premio assegnato a Titane di Julia Ducournau, è stato un divertente "quadretto" di irriverente ironia, tra l'altro tipica del grande autore e del personaggio che lui ha sempre amato cucirsi addosso, stimolando simultaneamente la simpatia dei suoi fans e l'astio dei suoi detrattori, numerosi in egual misura. E anche un progetto più "piccolo", più intimo, meno autarchico e più vicino alla drammaturgia convenzionale come questo, è sempre, a suo modo, un evento ed una garanzia di qualità, di autorialità e di indipendenza espressiva, come per tutte le opere firmate da Nanni Moretti.
 
Voto:
voto: 3,5/5

sabato 15 gennaio 2022

Ariaferma (2021) di Leonardo di Costanzo

Un vecchio carcere in stato di degrado, posto in una remota vallata tra boschi e colline, è prossimo alla chiusura con relativo trasferimento degli agenti e dei detenuti che vi alloggiano. A causa di un impedimento burocratico, 12 detenuti sono costretti a restare per un tempo prolungato non chiaramente definito nel sito, in attesa del via libera al loro cambiamento di sede. Ciò costringe un manipolo di una decina di guardie, guidate dall'esperto ispettore Gargiulo, a fermarsi malvolentieri nella prigione, fino a quando sarà necessario. La stranezza della situazione, l'atmosfera inquietante degli ambienti semivuoti e dell'austera struttura ottocentesca in stato di abbandono ed una serie di eventi imprevisti, faranno nascere un singolare rapporto di tensione tra agenti e carcerati, nelle cui opposte fazioni spiccano le personalità carismatiche di Gargiulo, da un lato, e dello scaltro boss Lagioia, dall'altro. Il terzo lungometraggio dell'ischitano Leonardo di Costanzo (da lui anche scritto insieme a Bruno Oliviero e Valia Santella) è un cupo dramma carcerario dallo stile asettico di rarefatta suggestione, sotto forma di affresco psicologico introspettivo di intimistica valenza che analizza nel profondo le dinamiche relazionali tra esseri umani in condizioni estreme. In questo caso la magnifica ambientazione raggelante nell'antica fortezza carceraria dall'aspetto tetramente monumentale rappresenta un elemento essenziale, un autentico protagonista aggiunto, capace di modulare e determinare il tono della pellicola con il suo clima da limbo sospeso, con i suoi silenzi severi, con la sua malia eterea, con il costante senso di minaccia incombente, restituendoci la forma concreta, che ci immerge sensorialmente a poco a poco, del concetto filosofico di attesa, declinandolo lucidamente attraverso un sommesso caos che cova sotto la cenere fatto di conflitti morali, pulsioni viscerali, sensi di colpa, sentimenti trattenuti, solitudine esistenziale, amaro disincanto. E, non ultimo e non meno importante, la costante evidenza della contraddizione che esiste tra un senso di giustizia necessario ma astratto e la sua reale applicazione pratica, con tutto il relativo carico annesso di denuncia sociale, critica politica, solidarietà umana e pietosa compassione. Senza fornire esplicite risposte alle questioni sollevate e senza mai alzare la voce, questo film di preziosa bellezza formale procede in maniera ovattata ma inesorabile, sussurrando i suoi temi con sobria compostezza, viaggiando sempre sul filo ambiguo di un'angoscia emotiva strisciante, nella costante sensazione che qualcosa di terribile potrebbe accadere da un momento all'altro. Non a caso, e giustamente, molti critici hanno evocato attinenze con il capolavoro Il deserto dei Tartari (1976) di Valerio Zurlini, che ha diverse affinità stilistiche e semantiche con il film di Leonardo di Costanzo. Girato nella imponente struttura carceraria dismessa di San Sebastiano, vicino Sassari, l'opera non esplicita mai chiaramente collocazioni o appartenenze geografiche precise ma preferisce, con fertile indecifrabilità, posizionarsi in una sorta di altrove surreale, indefinito ma realistico, con una continua alternanza di elementi naturalistici (vedi l'aspetto, il comportamento e le inflessioni dialettali dei personaggi) e di spunti metaforici, che trasfigurano il delicato conflitto etico tra delitto e castigo, tra colpa e punizione, in nome di un senso di umanità vigoroso e frastornante. Non di meno, il regista si sofferma, anche dal punto visivo con la costante ricerca di una prospettiva circolare (suggerita dallo scenario principale e assecondata dai movimenti della macchina da presa), sui contrasti interiori che nascono e si sviluppano non solo tra le due opposte fazioni, ma anche all'interno dei singoli gruppi teoricamente omogenei, come segno di una chiave di lettura complessa e inevitabilmente problematica. Nonostante la presenza di due attori protagonisti di grande spessore, Toni Servillo e Silvio Orlando, che con due eccellenti interpretazioni in sottrazione magnetizzano le attenzioni, la pellicola mantiene una valida struttura corale, anche grazie all'ottima squadra di caratteristi di supporto tra cui segnaliamo Fabrizio Ferracane, Salvatore Striano e Pietro Giuliano. Menzione doverosa anche per la notevole colonna sonora etnica e sperimentale di Pasquale Scialò, che riesce a regalare effetti di straniante vertigine nelle sequenze più importanti. Presentato fuori concorso al Festival di Venezia, è un film importante, rigoroso e sottilmente incisivo, per cinefili dal palato fino.

Voto:
voto: 4/5

venerdì 7 gennaio 2022

La terra dei morti viventi (Land of the Dead, 2005) di George A. Romero

In un futuro distopico la Terra è stata devastata dall'invasione degli zombie e gli esseri umani sopravvissuti vivono asserragliati in città fortezze, avamposti di resistenza in cui si sono replicate le brutte vecchie abitudini, ingiustizie, discriminazioni e conflitti sociali. In quel che resta di Pittsburgh, pochi fortunati ricchi e potenti, comandati dal leader tiranno Paul Kaufman, abitano all'interno di un lussuoso grattacielo fortificato (il Fiddler's Green), mentre il resto della popolazione patisce la fame e il disagio quotidiano per difendersi dall'orda dei morti viventi, che vengono quotidianamente sterminati da un micidiale carro armato, il Dead Reckoning, progettato dall'avventuriero Riley Denbo e finanziato da Kaufman. Durante le sue escursioni all'esterno a bordo del mezzo blindato alla ricerca di viveri e medicinali, Denbo si rende conto che alcuni zombie più dotati di altri emulano i comportamenti degli umani, sembrano avere memoria delle loro abitudini da vivi e dimostrano delle nuove capacità, tra cui sentimenti di vendetta. Questo horror apocalittico dalle evidenti implicazioni sarcastiche, allegoriche e politiche, è una grande metafora allucinata e polemica della società capitalistica dei nostri tempi, con l'attenzione rivolta principalmente allo scenario statunitense. Scritto e diretto dal maestro dell'horror George A. Romero con piglio mordace, rinnovato estro inventivo e la consueta crudeltà visiva (mai fine a sè stessa ma modulata in sintonia con l'impianto caustico figurativo dell'opera), questo film arrivato a ben 20 anni di distanza da Il giorno degli zombi (Day of the Dead, 1985), costituisce il quarto capitolo della saga romeriana sui morti viventi, iniziata nel 1968 con la pietra miliare La notte dei morti viventi (Night of the Living Dead, 1968) e conclusasi nel 2009 (anche a causa della scomparsa del regista) con Survival of the Dead - L'isola dei sopravvissuti (Survival of the Dead, 2009), seguendo un arco narrativo di 41 anni e sei episodi. In questo Land of the Dead, che alterna atmosfere intrise di malinconia crepuscolare a sequenze di efferata violenza, l'autore newyorkese prosegue, stratifica e connota di forte valenza politica il suo discorso di critica alla società americana, mettendo esplicitamente nel mirino la corruzione intrinseca al capitalismo, il modello consumistico come forza annichilente e obnubilante, la subdola manipolazione operata dai mass-media al servizio del potere, le discriminazioni razziali e sociali a danno delle classi meno abbienti e la conseguente emarginazione delle stesse in ghetti non solo ambientali ma anche culturali, ideologici e concettuali. Gli spettatori più attenti potranno anche cogliere le molteplici stoccate graffianti che Romero dispensa alla gerarchia governativa degli Stati Uniti, alla politica estera di George W. Bush, alla lotta al terrorismo, al problema dell'immigrazione ed agli interventi bellici occidentali nei paesi arabi. Nel cast segnaliamo Simon Baker, John Leguizamo, Dennis Hopper ed una puramente ornamentale Asia Argento. Questo è il primo film della saga-zombie di Romero in cui sono stati usati effetti digitali generati al computer, affiancati ai consueti effetti artigianali abilmente realizzati dal fedelissimo collaboratore Tom Savini, che fa anche un simpatico cameo nei panni di uno zombie motociclista armato di machete. Da citare anche il piccolo cameo di Simon Pegg ed Edgar Wright, autori della parodia L'alba dei morti dementi (Shaun of the Dead, 2004), che omaggia ironicamente le opere di Romero e verso cui quest'ultimo ha espresso pubblico apprezzamento, al punto da invitare i due artisti inglesi nel suo film.

Voto:
voto: 3,5/5

domenica 2 gennaio 2022

Valley of the Gods (2019) di Lech Majewski

Wes Tauros è l'uomo più ricco del mondo. Vive in una lussuosa reggia dagli sfarzosi interni settecenteschi costruita sul picco più alto della Valle degli Dei, tra i canyon e i deserti dello Utah, insieme ad un fedelissimo maggiordomo factotum che tiene tutto sotto controllo ed a tre levrieri. Il potente magnate intende trasformare l'intera area in un giacimento minerario per l'estrazione dell'uranio ma incontra l'opposizione dei nativi Navajos che considerano da sempre sacri quei luoghi, secondo le antiche credenze dei loro antenati. John Ecas è un giovane scrittore in profonda crisi dopo la separazione dalla moglie Laura, che decide di scrivere una biografia di Tauros. Ottiene un invito nella sua principesca residenza durante una serata di gala e qui si troverà immerso in un mondo misterioso che supera ogni sua immaginazione, in bilico tra il magico, il mistico e lo spaventoso. Il quinto lungometraggio del polacco Lech Majewski (che oltre alla regia ha anche scritto la sceneggiatura e curato fotografia e montaggio), il primo da lui girato negli Stati Uniti ed in lingua inglese, è un abbacinante affresco visionario che coniuga sapientemente il cinema fantastico, il dramma esistenziale, il racconto metafisico, la parabola filosofica, il mistery raffinato ed il viaggio onirico, immergendo il tutto in una dimensione evocativa spirituale di potente fascino visivo e di poetica astrazione. E' un grande film d'autore fatto di immagini stupefacenti, invenzioni di fantasia superiore ed uno stile così ricco che riesce già da solo a palesarsi come contenuto di alto spessore. Con un lavoro di fine equilibrismo estetico il regista sa mescolare in maniera credibile le ancestrali leggende dei nativi americani alla critica al capitalismo, con un senso magico della visione che si srotola davanti ai nostri occhi in una miriade di trovate, omaggi e citazioni ai grandi Maestri della settima arte: da Kubrick a Welles, da Fellini a Malick, in un puzzle di riferimenti audiovisivi che faranno la gioia dei cinefili. E ovviamente non è casuale (nè può passare sotto traccia) la presenza nel cast di un ottimo Keir Dullea, il David Bowman di 2001: Odissea nello spazio (1968), il cui iconico personaggio viene a sua volta omaggiato ripetutamente. Tra sequenze memorabili e momenti di rara suggestione simbolica, Majewski ci immerge, ci frastorna e ci ipnotizza in una conturbante esperienza emozionale che sarà difficile da dimenticare.
 
Voto:
voto: 4,5/5

La ragazza di Stillwater (Stillwater, 2021) di Tom McCarthy

Bill Baker, operaio del settore petrolifero dell'Oklahoma, uomo di poche parole dal passato difficile, sbarca a Marsiglia per far visita a sua figlia Allison, da 5 anni reclusa in prigione per l'omicidio di una sua coinquilina di cui lei si è sempre dichiarata innocente. Tormentato dai sensi di colpa, Bill si scontra con le differenze culturali e le barriere linguistiche di un mondo in cui si sente alieno, ma ottiene l'aiuto inatteso dell'attrice Virginie, che si offre di fargli da interprete e gli subaffitta una camera del suo appartamento. L'uomo allaccia una tenera relazione con la donna e con la sua piccola figlia Maya, mentre cerca di ricostruire il rapporto con Allison, iniziando a indagare per conto proprio al fine di dimostrare la sua innocenza. Intenso dramma intimistico di Tom McCarthy, ben scritto, diretto con asciutta efficacia e interpretato magnificamente da un cast eccellente in cui spicca un ottimo Matt Damon, che ci offre una della sue performance più mature e sofferte. Bravissime anche le tre interpreti femminili (Camille Cottin, Abigail Breslin, Lilou Siauvaud), perfettamente credibili e capaci di incarnare il rispettivo ruolo con toccante espressività. L'ambientazione "in trasferta" nel colorato crogiolo multietnico marsigliese, visto da una prospettiva rigorosamente americana, è di grande forza espressiva e costituisce uno dei capisaldi dell'opera per come riesce a tradurre in immagini il senso di alienazione del protagonista, straniero in terra straniera, che simboleggia la difficoltà di integrazione tra culture diverse che è uno dei temi principali del film. Innestando una sottotrama gialla in un dramma di natura familiare ed esistenziale, l'autore riesce nell'intento di raccontare senza enfasi, retorica o spettacolarizzazioni gratuite, una complessa vicenda che affronta temi delicati come colpa e redenzione, fallimento e riscatto, scontro tra civiltà diverse e ricerca di una seconda occasione, senza dimenticare il sottile relativismo di concetti come giustizia, bene e male, spesso talmente sfumati da risultare di arduo discernimento di fronte alla fragilità dell'essere umano. Presentato fuori concorso al 74° Festival di Cannes, il film ha ottenuto generali consensi da parte di critici e addetti ai lavori, e merita ampiamente la visione per il suo tono secco, il suo sguardo adulto e la sua prospettiva teneramente disincantata sulla difficoltà dei rapporti umani.
 
Voto:
voto: 3,5/5